martedì 1 dicembre 2020

«Il Quarto Vangelo» (Joseph Turmel) — 9) Origine del quarto Vangelo

 (segue da qui)

9. — Origine del quarto Vangelo.

Fintanto che si attribuì il quarto Vangelo a Giovanni, immediato discepolo di Gesù, si collocò la composizione di questo testo al limite estremo del primo secolo. Non si osava risalire più in là per rispetto a Ireneo che presentava il quarto vangelo come una confutazione di Cerinto. D'altra parte, non si poteva farlo risalire più prima pena il rischio di dare alla vita di Giovanni una durata improbabile . Si attribuì allora un valore storico ai racconti del quarto Vangelo. Quando quell'illusione cadde, quando la natura fittizia del testo attribuito all'apostolo Giovanni fu stabilita, un problema del tutto nuovo si presentò davanti ai critici. Ci si domandò se un immediato discepolo di Gesù avesse potuto, attraverso un vivido racconto della sua vita, col pretesto di raccontare la sua vita, trasformare il suo maestro in un'astrazione. La risposta a questa domanda non si fece attendere. Ci si rese facilmente conto che la fantasia umana ha dei limiti invalicabili e che un testimone della vita di Gesù non avrebbe mai potuto scrivere una finzione come quella che si svolge sotto i nostri occhi nel quarto Vangelo. Storicità e origine giovannea sono due fatti intrecciati, inseparabili e di cui il primo trascina l'altro nella sua caduta. Storicamente, il quarto Vangelo avrebbe potuto essere dell'autore a cui la tradizione lo attribuisce. Ma, se non è che una libera composizione, non può, in alcun modo, derivare da un compagno di Gesù, e si è costretti a cercargli un'altra origine.

I critici hanno cercato. E se non sono riusciti a dire da chi il quarto Vangelo è stato scritto, credevano di essere riusciti a fissare approssimativamente la data della sua composizione. Secondo loro questo testo è stato composto da uno sconosciuto intorno all'anno 100; e, di conseguenza, la tradizione non si inganna che parzialmente sul suo conto. Essa ha torto di attribuirlo ad una penna apostolica; ma ha ragione di collocarlo alla fine del primo secolo. Su quale fondamento si appoggia quella decisione? Sulle epistole di Ignazio e di Policarpo. Questi scritti, si dice, hanno subito l'influenza della letteratura giovannea e gli sono nettamente posteriori; ora essi si collocano intorno all'anno 100; da cui segue che il quarto Vangelo esisteva verso l'anno 100. Questo ragionamento, come lo si vede, è interamente dipendente dalla data delle lettere di Ignazio e di Policarpo; se quella data dovesse rivelarsi sbagliata, esso cadrebbe per terra. Ora tutta la corrispondenza di Ignazio è una fabbricazione successiva al 150. Quanto alla lettera di Policarpo ai Filippesi, essa è — salvo alcune righe — autentica, ma non risale ad oltre la metà del secondo secolo. [1] Insomma, Policarpo e il falso Ignazio si limitano a dirci che il quarto Vangelo esisteva alla metà del secondo secolo. Tentiamo di trovare altrove delle informazioni meno vaghe.

Per trovarle è sufficiente mettersi alla scuola del Cristo giovanneo e raccogliere i suoi oracoli. «Che c'è fra me e te, donna?»; «Voi non conoscete né me né il Padre mio»; «Voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto»; «Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti»; «Il mondo giace sotto il potere del Maligno»; «Voi siete del vostro padre il Diavolo»; «Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo»; «Chi ascolta la mia parola... è passato dalla morte alla vita»; «Io ho un cibo da mangiare che voi non conoscete». Di fronte a questi testi e ad altri ancora, credenti e critici chiudono gli occhi per non comprenderli. Ma è impossibile considerarli in superficie senza vederne la provenienza. L'autore del quarto Vangelo ha costruito il suo edificio con delle pietre prese dal cantiere di Marcione.

È ciò che appare soprattutto nel testo 5:24, dove il Cristo dichiara che colui che intende la sua parola «è passato dalla morte alla vita» e nel testo parallelo della prima epistola, 3:14, dove l'autore, utilizzando l'espressione del Cristo, dice: «Noi siamo passati dalla morte alla vita». Quei due oracoli ci mettono di fronte alla resurrezione spirituale, alla resurrezione che consiste nella conversione alla fede cristiana, essi riflettono la dottrina marcionita che, a sua volta (si veda più oltre, pag. 35), insegnava la resurrezione spirituale. Io so ciò che si obietterà. Si dirà che la dipendenza è da parte di Marcione che si è impadronito della formula giovannea e ne ha abusato facendola servire ai suoi fini. Quella spiegazione si urta contro il testo della seconda epistola a Timoteo, 2:17-18, nel quale i due eretici Imeneo e Fileto sono denunciati perché «si sono sviati dalla verità, predicando la menzogna che la resurrezione dei morti è già avvenuta» e, così facendo, «hanno sovvertito la fede di alcuni». I teologi dicono che quella denuncia deriva da Paolo stesso, che ha scritto la seconda epistola a Timoteo nell'anno 62, poco tempo prima di morire. I critici ritengono che l'autore che ha scritto ciò è un cattolico del 125 circa. Se Paolo stesso, nell'anno 62, ha proibito di presentare la resurrezione come un fatto già realizzato, come spiegare che intorno all'anno 100, l'autore del quarto Vangelo non abbia timore di impiegare una formula che aveva, a detta del grande apostolo, «sovvertito la fede di alcuni»? E se le epistole pastorali sono del 125 circa, come spiegare che, a quella data, un cattolico condanna, senza alcuna restrizione, senza alcuna distinzione, un'espressione che non avrebbe potuto mancare di leggere nel quarto Vangelo e nella prima epistola giovannea, poiché i critici collocano questi scritti intorno all'anno 100? Io mi soffermerò un giorno su questo problema più a lungo di quanto riesca a rischiarare qui. Mi limito, per il momento, a concludere che il redattore cattolico delle epistole pastorali (proverò che egli si colloca intorno al 150) denuncia proprio, sotto i nomi di Imeneo e di Fileto, gli scrittori marcioniti tra i quali si trovava l'autore del quarto Vangelo.

Il libro che si chiama il vangelo di San Giovanni, considerato nella sua prima stesura, è un prodotto marcionita. Non ha visto la luce del giorno se non dopo il primo terzo del secondo secolo. Quella data illumina il testo 5:43, nel quale il Cristo giovanneo, dopo aver rimproverato agli ebrei di non averlo accolto, lui che viene nel nome di suo Padre, aggiunge: «Se un altro verrà nel suo proprio nome, quello lo riceverete». Gli apologeti e i critici, che si ostinano a farlo risalire intorno all'anno 100, confessano qui francamente il loro imbarazzo e si riconoscono incapaci di identificare l'«altro» a cui gli ebrei dovevano fare un benvenuto favorevole. Ecco il senso dell'oracolo: «Voi rifiutate di accogliermi, io che sono venuto nel nome di mio Padre; ma, tra centotre anni, voi riceverete il ciarlatano Bar-Kochba che si arrogherà una missione celeste». Il Cristo giovanneo descrive ciò che accadde nell'anno 132 quando gli ebrei, condotti da Bar-Kochba, si sollevarono contro Roma. [2]

Il quarto Vangelo riflette le tesi di Marcione. In che modo, con uno stigma così originale, era riuscito a farsi accettare dalla Chiesa? Non si può rispondere a questa domanda se non con delle congetture. Ecco quel che si può ipotizzare.

Marcione fu scomunicato dal clero romano nel 144. La stessa misura era forse già stata presa contro di lui e i suoi seguaci dall'una o dall'altra delle chiese d'Asia nelle quali aveva soggiornato prima di venire a Roma. Altre chiese imitarono più tardi l'esempio che gli era dato loro. Intorno al 150 Marcione era un orrore negli ambienti cattolici; si concordava con Policarpo nel considerarlo il primogenito di Satana.

Ma sottolineiamo ciò che è accaduto a Roma. Marcione è arrivato nella città imperiale intorno al 138; non è che nel 144 che l'assemblea dei fedeli gli è stata interdetta. Durante sei anni ha potuto raccogliere dei discepoli, veicolare loro le sue idee e mantenere nondimeno il contatto con la Chiesa. Durante sei anni lui e i suoi discepoli hanno partecipato alle riunioni liturgiche senza allarmare il clero. Ciò non è stato reso possibile se non per una severa disciplina. Marcione impose a sé stesso e impose alla sua cerchia di amici una grande circospezione. Non esprimeva apertamente le sue idee se non là dove si sentiva maestro del suo uditorio. Soprattutto dove constatava del disprezzo egli diveniva riservato. Lasciava indovinare le sue tesi piuttosto di manifestarle. Metteva in pratica la massima (Matteo 7:6): «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci».

È in questa atmosfera mentale che la prima stesura del quarto Vangelo è stata scritta in prossimità del 135 (l'allusione a Bar-Kochba si comprende meglio due o tre anni dopo la rivolta del 132, anziché otto o dieci anni più tardi). Il suo autore, discepolo di Marcione, aveva soggiornato a Gerusalemme e nella Palestina prima della guerra del 132 (ci si può immaginare un uomo come Giustino nato nella Palestina e, di conseguenza, familiarizzato con le usanze ebraiche come pure con la topografia della regione). Il nuovo vangelo era destinato a esporre, ponendo sulle labbra di Gesù, la buona dottrina, la dottrina di Marcione. La esponeva con una grande elevazione, ma con un'eguale cura di prevedere i pregiudizi correnti. Grazie alle formule ambigue che impiegava, grazie anche alle sue reticenze, il Cristo giovanneo restava per metà in luce e per metà in ombra. Diceva ai fedeli: «I vostri dottori hanno raffigurato per voi un ritratto tanto approssimativo quanto impreciso della mia persona». E delineava, sulla sua origine, sulla sua intima natura, delle spiegazioni che suscitavano la curiosità senza soddisfarla, e che domandavano loro stesse di essere completate in tempo opportuno da delle spiegazioni orali.

Il quarto Vangelo vide la luce del giorno in Asia (in quel periodo Marcione non era ancora venuto a Roma). La Chiesa dove esso apparve ammetteva alla sua liturgia i discepoli del Cristo spirituale di cui non conosceva che molto vagamente la dottrina. Quando il nuovo vangelo le fu presentato, non tentò di approfondirlo; si accontentò di ammirare la superficie edificante; il resto le sfuggì. Prese confidenza col libro che uno dei suoi figli aveva composto e ne autorizzò la lettura nelle sue assemblee. Altre chiese la imitarono. Intorno all'anno 140, il quarto Vangelo — più esattamente quel che esisteva allora di quel testo - godeva di autorità in alcune delle principali comunità dell'Oriente.

Dieci anni più tardi, Marcione e i suoi discepoli furono esecrati. Ma l'albero che avevano piantato nel giardino del Cristo aveva avuto il tempo di approfondire le sue radici. Restò. Il quarto Vangelo alimentava la fede e la pietà dei fedeli che non comprendevano i sottintesi; continuò ad esercitare la sua missione. Non apparteneva più al suo autore che, d'altronde, lo aveva lanciato sotto il velo dell'anonimato. La Chiesa, la grande Chiesa — quella dell'Oriente — ne aveva preso possesso per il fatto stesso che l'aveva introdotto nelle sue assemblee liturgiche. Essa custodì il suo tesoro, riservandosi solo il diritto di arricchirlo. [3]

NOTE

[1] Si veda Henri Delafosse, Nouvel examen des lettres d'Ignace d'Antioche, nella Revue d'histoire et de littérature religieuses, VIII, [1922], 303 e 477.

[2] Giustino menziona tre volte, Apologia 31:6; Dial. 1:3; 9:3, la rivolta di Bar-Kokhba; si veda Renan, L'Eglise chrétienne, pag. 204-213; Schuerer, Geschichte des Jüdischen Volkes, I, pag. 682-698.

[3] Giustino ha conosciuto e utilizzato la prima redazione del quarto Vangelo. In 1 Apologia 61:4, egli cita come derivato dal Cristo il discorso seguente che egli attinge, senza dirlo e senza riportarlo esattamente, al nostro vangelo: «Se voi non rinascete, voi non entrerete nel regno dei cieli». Al di fuori di quella citazione implicita si trovano nell'Apologia e nel Dialogo delle reminiscenze più o meno inconsce che suppongono la lettura del quarto Vangelo: 1 Apologia 6:2, l'adorazione in verità (Giovanni 4:24); Ib. 33:2, profezie fatte dal Cristo al fine che si creda quando gli avvenimenti saranno arrivati (Giovanni 14:29); Dialogo 135:6, vi sono due case di Giacobbe, una che è nata dalla carne e dal sangue, l'altra nata dalla fede e dallo spirito (Giovanni 1:13); 137:4, nessuno ha visto il Padre (Giovanni 1:18); 88:7, Giovanni il Battista dice: «Io non sono il Cristo» (Giovanni 1:20); 69:6, l'acqua della vita (Giovanni 4:10); 114:4, l'acqua viva che scaturisce per coloro che vogliono bere (Giovanni 4:14); 69:7, gli ebrei accusavano il Cristo di sedurre il popolo (Giovanni 7:12).

Papia ha letto, a sua volta, il quarto Vangelo se è da lui, come si crede comunemente, che Ireneo ha attinto i detti dei presbiteri di cui ci serve degli estratti. Si legge in Contra Haereses 5:36, 2: «I discepoli anziani degli apostoli dicono... che il Signore ha detto: Vi sono molte dimore nella casa di mio Padre» (Giovanni 14:2); in 2:22, 5, Ireneo dimostra che il Cristo è vissuto quasi cinquant'anni e aggiunge: «Così come lo attestano il vangelo e tutti gli anziani» (Giovanni 8:57). — Eusebio, 3:39, 17, ci informa che Papia ha conosciuto la prima epistola giovannea ma senza precisare che egli la riteneva l'opera dell'apostolo Giovanni.

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