martedì 1 dicembre 2020

«Il Quarto Vangelo» (Joseph Turmel) — 15) I riferimenti all'Antico Testamento

 (segue da qui)

6. — I riferimenti all'Antico Testamento

Il Cristo spirituale che disprezza l'Antico Testamento non ha potuto portarlo come un'autorità; e, di conseguenza, i riferimenti a Mosè, ai patriarchi e ai profeti che presenta il quarto Vangelo non possono venire che dall'interpolatore cattolico. Quelle interpolazioni sono generalmente riconoscibili da alcuni indizi esteriori. Non si dovrebbe peraltro stupirsi se non è sempre così. È facile, in effetti, comprendere che un'interpolazione ha potuto essere praticata senza lasciare alcuna traccia se non un'opposizione allo spirito generale della stesura primitiva.

Notiamo prima di tutto le parole che terminano la dissertazione causata dalla guarigione del paralitico (5:45-47): «Non crediate che sia io ad accusarvi davanti al Padre. C'è già chi vi accusa, Mosè, nel quale avete riposto la vostra speranza. Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me; perché di me egli ha scritto. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?» Il Cristo dichiara qui che la sua venuta è stata profetizzata da Mosè. Ma perché egli, proprio in questo punto dove si riferisce all'Antico Testamento, deve contraddire gli altri suoi insegnamenti? A credergli, la fede nel Figlio di Dio ha la sua radice nella fede in Mosè. Se gli ebrei credessero a Mosè, crederebbero anche al Figlio di Dio; ma non avendo la fede nel primo, non possono avere la fede nel secondo. Dunque Mosè è la scala indispensabile per salire al Figlio di Dio e a Dio.

Tuttavia, di questa scala non si fa menzione che qui. Dappertutto allora il meccanismo della fede è costituito in un'altra maniera e, al posto di Mosè, interviene il miracolo; soprattutto il miracolo di natura fisica, ma anche il miracolo di natura intellettuale, per esempio le rivelazioni fatte alla Samaritana (4:29: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Cristo?») o ancora gli insegnamenti dati ai discepoli (16:30: «Ora conosciamo che sai tutto»). È il miracolo che produce la fede, che dovrebbe sempre produrla e che, il più delle volte, non la produce perché si scontra con delle disposizioni malvagie: «Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea. Manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» [1] (2:11); «La Luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (2:19).

«Perché le loro opere erano malvagie». Senza dubbio altri testi ci mostrano gli uomini figli del Diavolo e condannati ad imitare la condotta del loro padre a meno che Dio non li attragga. Ma questo è l'abisso della predestinazione, davanti al quale il nostro autore si confonde, come si sono confusi i teologi di tutti i secoli. Al di là di questo mistero, resta il fatto che gli ebrei — salvo infime eccezioni — sono stati insensibili ai miracoli del Cristo giovanneo «perché le loro opere erano malvagie», ovvero perché il loro cuore non era puro, perché la loro condotta era in contrasto con le prescrizioni della legge morale. La fede in Mosè non ha nulla a che fare qui. I versi 46-47 derivano dall'interpolatore cattolico, non appartengono alla redazione primitiva del quarto Vangelo.

Il verso 45, a prima vista, è sconcertante. Il Cristo, che ha qui la parola e che dice agli ebrei che non li accuserà presso suo Padre, è chiaramente il Cristo spirituale, colui che non giudica. Come mai allora invoca l'autorità di Mosè? Per arrivare fin là il suo linguaggio ha dovuto subire una deformazione. Ricordiamoci che il Dio buono della teologia dualista non condannava i colpevoli, ma li abbandonava al Dio creatore che soddisfaceva su di loro il suo istinto di crudeltà. È questo Dio malvagio che il Cristo spirituale ha in vista qui. Egli vuole dunque dire questo: «Non vi accuserò presso mio Padre, perché mio Padre e io siamo buoni. Ma vi allontaneremo da noi, vi consegneremo al potere del Maligno, del Creatore, e quell'Essere in cui sperate, che è vostro Dio rivolgerà contro di voi un atto d'accusa che sarà seguito dalla vostra condanna». L'editore cattolico si è impadronito di questo oracolo e vi ha introdotto Mosè. Con questo piccolo ritocco ha ottenuto due risultati: prima ha asportato riguardo al Cristo spirituale tutto il suo veleno; in seguito ha preparato la via all'interpolazione dei versi 46-47. Apprendendo che Mosè accuserà lui stesso gli ebrei dinanzi a Dio, il lettore incuriosito domanda in che modo si farà quest'accusa. I versi 46-47 rispondono alla sua domanda. La risposta che forniscono è di certo molto inaspettata. Ma alla fine risolvono un problema che il lettore si poneva; sono intimamente legati a 45.

Notiamo ancora l'osservazione che termina i racconti dei miracoli (12:37): «Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui, perché si adempisse la parola detta dal profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra parola?... Questo disse Isaia perché [2] vide la sua gloria e parlò di lui».

È ben singolare che l'autore, non accontentandosi di citare le profezie di Isaia, ricerca le condizioni che hanno permesso a Isaia di profetizzare. Lo fa per gettare a terra, con discrezione e senza averne l'aria varie asserzioni del vangelo, in particolare l'oracolo che si legge in 1:18: «Nessuno ha mai visto Dio: è il Figlio unico che è nel seno del Padre che lo ha rivelato». A credere a questo testo, al quale fanno eco parecchi altri, Dio era completamente sconosciuto fino al giorno in cui Gesù è venuto a rivelarlo agli uomini. Il riferimento a Isaia, con il commento che l'accompagna (12:38-41), spiega che il profeta Isaia ha visto la gloria di Dio e ha parlato di suo Figlio. Corregge con precauzione la teologia diffusa qua e là nel Vangelo. Si è sovrapposto alla prima stesura del libro. È di origine cattolica.

NOTE

[1] Allo stesso modo: «Sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui» (3:2); «Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: Mi ha detto tutto quello che ho fatto» (4:39); «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (4:42); «Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato» (5:36); «Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere» (10:37); «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato» (11:4); «I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui (perché erano stati testimoni della sua resurrezione) e credevano in Gesù» (12:11); «Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato» (15:24).

[2] Bisogna leggere «perché» e non «allorché», ma il ragionamento mantiene la sua forza con «allorché».

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