martedì 1 dicembre 2020

«Il Quarto Vangelo» (Joseph Turmel) — 11) Il pane di vita

 (segue da qui)

2. — Il pane di vita.

Arrestiamoci ora davanti al discorso sul pane di vita (nel capitolo 6) lasciando da parte le promesse sulla resurrezione che vi si trovano là e di cui mi occuperò nelle note.

Gesù, vedendo gli ebrei in cerca del pane materiale, li esorta a procurarsi «il cibo che dura per la vita eterna», il «vero pane che viene dal cielo», di cui la manna non era che l'ombra. Gli ebrei esclamano: «Signore, dacci sempre di questo pane». Gesù risponde: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete ... (40) Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna ... (47) In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. (51) Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno ... (60) Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: È lo Spirito che dà la vita, la carne non serve a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita».

Questo discorso proclama la virtù della fede, come lo farà più tardi il discorso della cena. Allora Gesù dirà (17:3) «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, il Cristo». Ora dice: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete... Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna». La fede è «il cibo che dura per la vita eterna». E, siccome questa fede ha per obiettivo il Figlio di Dio (così come il Padre; ma il Padre non era che uno con suo Figlio, 10:30, e chi vede il Figlio vede il Padre, 14:7-9), ne consegue che il Figlio di Dio è «il pane della vita», il pane che si deve mangiare per vivere eternamente.

Ma in che modo mangiare il Figlio di Dio? Lo si mangia non appena si crede in lui, poiché, non appena si crede in lui, si ha la vita eterna. E le parole di Agostino sono vere (In Jo. 25:12) «I denti, il ventre non anno nulla a che fare qui. Credi e tu hai mangiato». (26:1): «Credere in lui, equivale a mangiare il pane vivente. Colui che crede mangia».

A questa alimentazione spirituale tramite la fede vi era peraltro una spiegazione che Agostino non ha visto, che le sue convinzioni cattoliche gli impedivano di vedere, ma che il Cristo giovanneo ci dà con la sua discrezione abituale. «La carne non serve a nulla». Non sarebbe servita a nulla per il Figlio di Dio per realizzare la sua missione vivificante. Non è per mezzo della carne che egli deve nutrirci; è per mezzo dello spirito. Il Cristo nel discorso sul pane di vita è un Cristo spirituale.

Ma ho omesso un'intera parte del discorso sul pane di vita. E questa parte, che va da 51b a 57, sembra proprio ridurre al nulla le mie conclusioni. Lo si giudichi. Dopo aver detto che lui è il pane disceso dal cielo e che colui che mangia di questo pane vivrà eternamente, il Cristo aggiunge:

(51b) «E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo», Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo resusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre vivente ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me».

Ecco la carne messa in primo piano. Ma, nello stesso tempo, ecco dimenticata la massima «la carne non serve a nulla». Perché tra questa e quella vi è una contraddizione assoluta. Non per i teologi naturalmente. Loro non sono mai a corto di spiegazioni. Per conciliare il dogma dell'inferno con certi testi sconcertanti hanno distinto un fuoco che brucia e un fuoco che non brucia, delle pene che puniscono e delle pene che non puniscono. Allo stesso modo essi distinguono una carne carnale alla quale si applica la massima sopra menzionata e una carne non carnale, oggetto del precetto: «Se voi non mangiate la carne del Figlio dell'uomo…». Lasciamo da parte quelle cose puerili e concludiamo. È evidente che, se la carne non serve a nulla, non ci si deve preoccuparsi di mangiare la carne di Cristo. È proprio altrettanto evidente che la carne ha un'importanza capitale, se, per avere la vita eterna, si debba mangiare la carne del Cristo. Tra «se voi non mangiate» e «la carne non serve a nulla», l'opposizione è proprio irriducibile.

A questa prima osservazione se ne aggiunge un'altra. Si riconosce generalmente che le dichiarazioni relative al mangiare la carne provocano un certo contrasto con il resto del discorso sul pane di vita. Ma si assicura che questo contrasto è nella precisione della riflessione e non nella loro opposizione. Vediamolo più da vicino.

Credere alla divinità di Cristo e mangiare la sua carne — quale che sia il senso di quell'ultima affermazione — esprimono due idee diverse. Si può credere che il Cristo possegga la divinità senza mangiare la sua carne; viceversa si può mangiare — nel senso che si vorrebbe — la carne di Cristo senza credere alla sua divinità. Ora ciascuno di quei due atti ci è presentato successivamente come necessario e sufficiente. In un punto nel discorso la vita eterna è garantita a tutti coloro che accettano la divinità del Cristo. Poi, un po' più oltre, apprendiamo che, per avere la vita eterna, è necessario mangiare la sua carne. Se quest'ultima operazione è indispensabile, la fede nel Figlio di Dio non è sufficiente quindi. E se la fede è sufficiente, allora il mangiare la carne è superfluo. Per la seconda volta ci troviamo di fronte un'opposizione irriducibile.

Il discorso sul pane di vita non è omogeneo. Due autori vi hanno collaborato. Il primo ha detto: «Il pane di vita, questo è il Figlio di Dio. Questo pane celeste nutre l'anima che crede in lui; e il cibo che egli dà garantisce all'anima l'immortalità. Ma in questa alimentazione non c'è nulla di carnale; poiché il Cristo è spirito e la carne non serve a nulla». Il secondo ha detto: «Il Cristo ha procurato la vita eterna agli uomini versando il suo sangue. È la sua carne immolata ad essere il pane di vita poiché è quella che ha dato la salvezza al mondo. Crediamo dunque alla carne e al sangue di Cristo; poiché se crediamo ad un Cristo fantasma, non avremo la vita eterna che Cristo ci ha ottenuto per la sua carne e il suo sangue».

Abbiamo davanti a noi due autori. E, siccome ciascuno pone la sua dottrina sulle labbra del Cristo, abbiamo davanti a noi due Cristi. Tutti e due concordano nel domandarci la fede, dichiarandoci che, senza la fede, noi non abbiamo la vita eterna (il secondo aggiunge la resurrezione). Soltanto essi differiscono sull'oggetto della fede. L'uno non si occupa che della sua divinità: è il Cristo marcionita. L'altro non pensa che alla sua incarnazione: è il Cristo cattolico. Se crediamo al Figlio di Dio, saremo in regola con il primo. Per soddisfare il secondo occorrerà credere che il Cristo ha preso una carne e non è un fantasma.

Qui una domanda si pone inevitabilmente. Se il Cristo cattolico ci domanda semplicemente di credere alla realtà della sua carne, perché ci dice di mangiarla? Si è visto che il Cristo marcionita fuggiva sistematicamente la luce troppo forte e anzi si avvolgeva di un velo leggero per timore di sconvolgere le coscienze. Ma il Cristo cattolico non ha le stesse suscettibilità da rispettare. Perché dunque è oscuro?

È stato costretto all'oscurità per il dovere professionale. Quale ruolo rivendica qui? Egli finge di essere interprete. Interpreta le parole del Cristo marcionita. In realtà le sopprime; ma le sopprime per mezzo di un commentario. Processo elegante, ma che non avviene senza imporre qualche vincolo. La dissertazione sulla carne ha dovuto adattarsi all'oracolo che avrebbe dovuto spiegare; ha dovuto dare l'illusione che lo prolungasse. Ora il Cristo marcionita aveva presentato la fede sotto il simbolo del pane che nutre l'anima e le procura la vita eterna. Questo simbolo è stato utilizzato dal Cristo cattolico che vi ha gettato come in uno stampo la sua dissertazione. La carne è diventata un pane di immortalità: «Il pane che io darò è la mia carne che darò per la vita del mondo». Trasformata in pane, la carne è diventata il nutrimento dell'anima che la mangia. Poi il sangue, reclamato dalla simmetria, è intervenuto per recitare il ruolo della bevanda. Ecco come la necessità della fede nell'incarnazione del Cristo è stata tradotta nella necessità di mangiare la carne e di bere il sangue del Cristo. Traduzione artificiale certo, ma imposta dalla situazione. L'autore era lontano dal prevedere l'enorme mistero di cui il suo espediente sarebbe diventato la causa per la posterità.

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