domenica 15 novembre 2020

LA PASSIONE DI GESÙ: FATTO DI STORIA O OGGETTO DI CREDENZAAPPENDICE 2: Esame di diversi passi delle Epistole paoline



APPENDICE 2

Esame di diversi passi delle Epistole paoline

Così come è stato detto nel corpo dell'opera (pag. 73-74), vale la pena di esaminare i diversi passi delle Epistole paoline dove si è creduto di vedere allusioni ad episodi della carriera di Gesù. Ma dobbiamo esporre prima di tutto, al fine di far comprendere la varietà delle possibili interpretazioni, i risultati generali della critica circa il testo delle Epistole paoline. [1]

La critica generale del testo delle Epistole paoline.

La grande maggioranza degli storici accettano  l'autenticità di sette lettere delle quattordici attribuite a Paolo dalla raccolta ufficiale della Chiesa cristiana che è stata stabilita nel IV° secolo; [2] pur ammettendo che alcune di queste epistole possono essere compilazioni di frammenti ricavati da varie lettere di Paolo, essi ritengono che provengano da lui nella sostanza, fatta eccezione per alcune «glosse», cioè spiegazioni dovute ai lettori e introdotte nel testo dei manoscritti per gli errori dei copisti. [3]

Tuttavia un critico, Joseph Turmel, ha pubblicato dal 1926 al 1928 un'edizione degli Ecrits de saint Paul, [4] dove, dedicandosi ad un'analisi dettagliata delle epistole, distingueva tre categorie di frasi o porzioni di frasi o anche di parole: le espressioni che egli attribuiva all'apostolo Paolo (metà del I° secolo); quelle che pensava fossero dovute all'eretico Marcione o alla sua scuola (140 circa); quelle che derivavano da correttori «cattolici», dopo l'esclusione di Marcione da parte della Chiesa (144 circa).

La maggior parte dei critici hanno respinto le conclusioni di Turmel, [5] pur riservandosi il diritto di valutare interpolato questo o quest'altro passo delle Epistole; [6] ma Turmel ha ottenuto il sostegno di un maestro, Alfred Loisy, almeno per quanto riguarda la distinzione generale dei tre elementi che egli stabilisce nelle epistole paoline; infatti, relativamente al significato che conveniva dare a questi tre elementi, Turmel e Loisy erano in profondo disaccordo. [7]

Per Turmel, Gesù aveva annunciato la prossima restaurazione del regno di Israele, e Paolo si ispirava a questa fede. La seconda edizione delle lettere di Paolo, dovuta a Marcione e alla sua scuola, introduceva una dottrina spiritualista, la «gnosi», cioè la scienza dell'origine degli uomini, della loro natura e della loro fede, rompendo con la tradizione ebraica della Bibbia. La terza edizione, correzione cattolica, manteneva in gran parte lo spiritualismo di Marcione, ma eliminava il suo anti-giudaismo dottrinale, perché la Chiesa cattolica insegnava che la missione del Cristo era stata annunciata dalle Scritture.

Per Loisy, Gesù, così come Paolo, dopo Gesù, enunciavano una dottrina basata sull'attesa di una imminente fine del mondo. [8] La seconda edizione delle epistole paoline era, nel complesso, l'opera, non della scuola di Marcione, intorno al 140, ma di un gruppo di ammiratori di Paolo, dalle tendenze mistiche, che, senza dubbio alla fine del I° secolo, avevano presentato la loro dottrina come quella dell'apostolo; Marcione, secondo Loisy, si sarebbe accontentato di epurare la raccolta così stabilita da alcune espressioni che marcavano l'attaccamento del cristianesimo alla tradizione ebraica. La terza edizione, dovuta ai cattolici, aveva soltanto avuto per scopo di reagire contro l'interpretazione oltraggiosa data, secondo loro, da Marcione, alla dottrina mistica dei paolini: le edizioni cattoliche avrebbero ristabilito i passi eliminati da Marcione, ma Loisy ritiene che esse siano, inoltre, responsabili di certe «aggiunte».

È tenendo conto nel contempo della tesi delle critiche classiche e di quelle  di Turmel e di Loisy, per quanto riguarda l'autenticità dei vari versi delle epistole paoline, che esamineremo le allusioni alla carriera terrena di Gesù che si possono trovarvi, facendo osservare, in primo luogo, che tutti ammettono la realtà di quella carriera in un passato recente e che di conseguenza le loro differenze di interpretazione dei testi paolini non hanno potuto essere dovute ad un disaccordo su questo problema. [9]

L'appartenenza ebraica di Gesù e il problema dell'Incarnazione.

Tra i versi delle epistole paoline che affermano l'appartenenza ebraica di Gesù, consideriamo dapprima quelli la cui natura primitiva, vale a dire l'attribuzione a Paolo, non è contestata né da Turmel né da Loisy, salvo introduzione ulteriore di parole in aggiunta. Troviamo così nella Epistola ai Romani, capitolo 1, verso 3: «Paolo, servo di Gesù Cristo..., prescelto per annunciare il Vangelo di Dio... riguardo al suo figlio, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne». Nella stessa Epistola (9:1-5), Paolo esprime la sua tristezza nel vedere, lui Israelita, l'incredulità verso il Cristo della massa degli Israeliti «ai quali appartengono... le alleanze, la legge, il culto, le promesse, i patriarchi, e dai quali proviene il Cristo, secondo la carne». Anche l'Epistola ai Galati (3:16) ricorda «le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza, cioè al Cristo».

Vanno osservate, nelle due citazioni dell'Epistola ai Romani le espressioni: «nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne».  Turmel, rilevando l'insistenza di queste precisazioni, ritiene che esse siano di origine cattolica; a proposito di Romani 9:5, scrive: «Le parole «secondo la carne» non vi sono state introdotte che più tardi, da un dotto cattolico, ansioso di spiegare che il Cristo di Paolo non aveva nulla in comune con il fantasma di Marcione», [10] (infatti quest'ultimo «non attribuiva né carne né sangue a Gesù»). [11]

Senza dubbio Loisy, — combattendo l'opera del «miticista» Couchoud, apparsa nel 1937, [12] e citando Romani 9:5, — ha scritto a proposito di questo verso nel 1938: «Le parole: secondo la carne, non devono essere una glossa, poiché significano semplicemente la discendenza israelita di Gesù, che ora è il Cristo. E non si sente ancora vibrare l'anima dell'Apostolo sotto queste parole che gridano la loro autenticità attraverso i secoli?» [13] Eppure Loisy, nel 1935, quando la questione della carriera terrena di Gesù al tempo di Tiberio pareva sepolta nel silenzio, scriveva: «L'aggiunta «secondo la carne» risponde alle preoccupazioni di una teologia più avanzata». [14] E aveva anche considerato, relativamente alla prima citazione, Romani 1:3, che tutte le parole, immediatamente successive a «riguardo al suo figlio», le quali comprendono l'espressione: «nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne», sono delle «aggiunte». [15]

 Se si ammette che è proprio così, qual è il significato dei due versi di Romani, prima citati, una volta sbarazzatisi di queste aggiunte ? Che Gesù apparteneva al popolo israelita. Ma di quella appartenenza stessa, quale ne è il significato ? Per Loisy, come per Turmel, essa è di ordine naturale e, in questo caso, l'aggiunta cattolica del II° secolo non ha falsificato il senso dei versi di Romani. Ma ci si accorge che se il testo derivante da Paolo, a metà del I° secolo, non la presentava, il significato poteva essere tutt'altro. Per degli ebrei cristiani, Gesù, dio fatto uomo, non poteva apparire sulla terra che in mezzo al popolo ebraico, a cui la filiazione divina era riconosciuta dalla Scrittura; [16] l'appartenenza alla nazione ebraica era un elemento essenziale del nuovo credo, ma ancora legato alla antica religione ebraica. Quanto alla filiazione in relazione a Davide, è Loisy stesso che ha scritto: «Si è fatto Gesù discendente di Davide, perché era ritenuto che il Messia dovesse esserlo». [17] E Goguel, per cui «l'apostolo Paolo nell'Epistola ai Romani (1:3) afferma categoricamente l'origine davidica di Gesù», si domanda se vi si sia là «un'informazione che egli ha raccolto dalla tradizione oppure una conclusione che trae dalla fede nella messianicità di Gesù». [18]

Così, considerati di per sé, i versi precedenti, ricavati da passi di Romani che sono attribuiti senza contestazione a Paolo, così come il verso tratto da Galati (3:16), possono essere interpretati in un senso strettamente religioso.

Veniamo ora ad un altro passo dell'Epistola ai Romani (8:3), che Turmel e Loisy concordano nel non attribuire a Paolo, ma che non attribuiscono positivamente e non interpretano allo stesso modo. Vi si legge che «Dio ha condannato il peccato nella carne, mandando, a motivo del peccato, il proprio Figlio nella rassomiglianza della carne del peccato». Loisy, che attribuisce il verso ad un discepolo mistico di Paolo, lo commenta in questi termini: «Rassomiglianza comunica altra cosa rispetto alla semplice apparenza, e nell'espressione complessiva «rassomiglianza della carne del peccato», l'enfasi non è sulla carne..., l'enfasi è sulla parola «peccato», perché il peccato non era nella carne personale del Cristo, se non per rappresentazione». [19]

Ma Turmel, che attribuisce il verso ad un marcionita, combatteva così quell'interpretazione: «Secondo gli esegeti, quella «rassomiglianza della carne del peccato» significa che il Cristo aveva una carne esente da peccato. Ma se questo era il pensiero dell'autore, perché non ha detto all'unisono: «Dio ha mandato il suo Figlio in una carne esente da peccato» ?... E poi, se l'autore conosce due specie di carne, una che è peccaminosa, e l'altra che non lo è, perché oppone sempre la carne allo spirito e mai la carne peccaminosa alla carne non peccaminosa?... Il suo Cristo è venuto sulla terra per salvare gli uomini e, obbligato dalla sua stessa missione a rendersi visibile, ha preso l'apparenza di quella carne, ma non ha preso, non poteva prendere quella carne stessa». [20]  

Questa è l'interpretazione data da Turmel a Romani 8:3, che gli fa attribuire il verso alla scuola dell'eretico Marcione. In questo caso, non avremmo nulla da ricavarne quanto al problema della carriera terrena di Gesù al tempo di Tiberio, poiché Marcione ha enunciato la sua dottrina intorno al 140, in un'epoca in cui esistevano già versioni dei Vangeli, ed essa è in reazione contro l'incarnazione di Gesù che vi è espressa. Ma interpretazione del testo e attribuzione dell'origine non sono assolutamente legate, e sembra possibile ammettere che la concezione dell'invio in questo mondo del Figlio di Dio sotto l'apparenza della carne del peccato fosse stata quella dei discepoli mistici di Paolo alla fine del I° secolo. Si comprende il fatto che Loisy — che attribuiva il verso di Romani in questione a questo gruppo paolino e che d'altra parte affermava la realtà di una carriera terrena di Gesù, secondo una tradizione trasmessa in particolare da Paolo — abbia dato al verso il senso di un'incarnazione autentica, perché l'interpretazione nel senso di un'apparenza di incarnazione condurrebbe ad una pura concezione religiosa.

Allo stesso modo si può confrontare con questo passo anche un verso dell'Ascensione di Isaia (capitolo 9, verso 13), già menzionato più sopra di passaggio (pag. 69-70): «In verità, egli discenderà nel mondo alla fine dei giorni, il Signore che sarà chiamato Cristo dopo che sarà divenuto simile alla vostra forma e si crederà che è carne e uomo». [21] Il significato è analogo all'interpretazione che dà Turmel al passo controverso della Epistola paolina ai Romani. Il verso dell'Ascensione, inoltre, non sembra costituire un'allusione alla carriera di un uomo, in un passato recente, ma evoca una rappresentazione della fede.

Altro disaccordo tra Loisy e Turmel a proposito di un verso simile dell'Epistola ai Galati 4:4: «Dio ha mandato suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, affinché riscattasse quelli che erano sotto la legge». Verso interamente dovuto ad un discepolo mistico di Paolo, secondo Loisy: verso marcionita, secondo Turmel, ma «nato da donna, nato sotto la legge» sarebbe un'aggiunta cattolica. È quest'ultimo punto che costituisce, in questo caso, l'oggetto principale della controversia: è molto difficile risolverlo. [22]  

Le due tesi si scontrano ancora su un verso, il cui significato è stato molto controverso e che si trova nella 2° Epistola ai Corinzi 5:16: «D'ora in avanti noi non conosciamo nessuno secondo la carne; e se abbiamo conosciuto il Cristo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più». Per Loisy, il significato della frase attribuita, verso la fine del I° secolo, da un discepolo mistico di Paolo al suo maestro è il seguente: «Il Cristo di carne nella sua vita umana conta poco o addirittura nulla, in confronto al Cristo-spirito nella sua immortalità». Per Turmel, l'autore marcionita del verso, intorno al 140, presta a Paolo il ragionamento seguente: «Per vivere la vita del Cristo, i cristiani non devono vivere secondo la carne. Senza dubbio Paolo ha conosciuto il Cristo secondo la carne, ma questo prima della sua conversione; allora egli si sbagliava completamente sul Cristo, che considerava un re nazionale e a cui attribuiva un corpo carnale. Dalla sua conversione, egli non conosce più il Cristo secondo la carne, perché sa che il Cristo non ha avuto un corpo carnale...» [23]

Beninteso, siccome Loisy e Turmel credono egualmente nella realtà di una carriera terrena di Gesù, contemporaneo di Paolo, anche se hanno sulle concezioni del Maestro galileo un'opinione molto diversa, il significato dato dall'uno o dall'altro al verso citato della 2° Epistola ai Corinzi implica quella carriera terrena o almeno non la esclude. [24] Ma si dà il caso che l'interpretazione ammessa per questo passo da parte di critici che attribuiscono a Paolo stesso, nel loro insieme, tutti i versi precedentemente citati, respinge il passo suddetto come argomento in questo senso. Ecco, infatti, il commento al pensiero di Paolo espresso da Guignebert: «La carne non conta più per me; non conosco più nessuno secondo la carne; avessi conosciuto così il Cristo stesso io non lo conoscerei più». Vi sono quindi tutte le probabilità, conclude Guignebert, che il verso tanto discusso cada fuori dal piano dei fatti. [25]

Così l'interpretazione di Guignebert, che si riavvicina di fatto a quella di Loisy, tende a considerare che il verso in questione sia una semplice figura destinata a far comprendere un'idea morale. Ma lo stesso critico vede in tutti gli altri versi menzionati allusioni di Paolo ad un'esistenza umana di Gesù. Eppure, perfino nel caso in cui la si ammetta, resterebbe ancora da esaminare se risulti dai versi stessi che si trattasse di fatti storici recenti: vi sarebbe stata un'esistenza del Cristo sulla terra, ma a quale epoca? Non si trova nessuna indicazione su questo punto essenziale nei testi paolini menzionati finora. Anche i pagani riportavano i fatti e le gesta dei loro dèi in forma umana compiuti sulla terra, ma li collocavano nell'epoca leggendaria. 

I fratelli di Gesù.

Si è rilevata in diverse epistole paoline la menzione dei fratelli di Gesù, come prova dell'esistenza storica di questi all'inizio dell'era cristiana. 

Si legge nella 1° Epistola ai Corinzi 9:5: «Non abbiamo noi il diritto di condurre attorno una sorella, che sia nostra moglie, come fanno anche gli altri apostoli, e i fratelli del Signore, e Cefa?» [26]

Analizzando l'Epistola, Turmel ha ritenuto che questo verso faceva parte di un insieme dedicato alla questione della sussistenza dei predicatori, questione che non è apparsa nella Chiesa che a metà del II° secolo. [27]

 Tuttavia se si accetta che il capitolo 9 è di Paolo, cosa significa il passo in questione? Si dà il caso che lo stesso verso menziona una «sorella», che potrebbe essere la «moglie» di Paolo, [28] e i «fratelli del Signore». Sarebbe strano che, dato che «sorella» è ovviamente intesa nel senso di correligionaria, i «fratelli del Signore» debbano essere considerati i parenti di sangue di Gesù. Goguel osserva che l'una viene chiamata semplicemente «una sorella», mentre gli altri sono chiamati «i fratelli del Signore». [29] Ma si vede che l'enumerazione comprende principalmente dei personaggi di Gerusalemme: «gli altri apostoli, i fratelli del Signore, e Cefa». È naturale che i membri della comunità di Gerusalemme siano chiamati «fratelli del Signore» e quelli delle comunità di altre città, come Corinto, semplicemente fratelli e sorelle. Non si vede perché, d'altronde, in una questione dopotutto secondaria, Paolo farebbe intervenire i «fratelli del Signore» per il sangue.

Vi è anche nella stessa Epistola un passo che comprende pressappoco la stessa enumerazione (15:5-8): «Il Cristo apparve a Cefa, poi ai dodici. In seguito apparve in una sola volta a più di cinquecento fratelli... In seguito apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli. Dopo di loro, apparve anche a me...». Dato che, nel capitolo 15, si tratta di «cinquecento fratelli» della comunità di Gerusalemme, l'interpretazione di Goguel porterebbe a intendere la parola «fratelli» in un senso diverso nell'uno e nell'altro capitolo. 

Comunque Giacomo è nominato in un'altra Epistola paolina, l'Epistola ai Galati 1:18-19: «Tre anni più tardi, [30] salii a Gerusalemme per fare la conoscenza di Cefa, e rimasi con lui quindici giorni. Ma non vidi alcun altro degli apostoli, se non Giacomo, il fratello del Signore».

Questo passo è considerato da Turmel e Loisy un'«aggiunta» cattolica; essa è particolarmente in contraddizione con i versi che si leggono immediatamente dopo (1:21-22): «Poi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia. Ora io ero sconosciuto personalmente alle chiese della Giudea che sono in Cristo...». [31

È 'altra parte significativo il fatto che Giacomo, — a parte il verso 6:3, del Vangelo di Marco, che enumera i fratelli di Gesù, [32] —, sia apparentemente sempre chiamato fratello del Signore negli scritti cristiani, e mai fratello di Gesù, per cui quella designazione rassomiglia molto ad un soprannome. [33] Il solo testo del I° secolo in cui si troverebbe la designazione «fratello di Gesù» sarebbe il passo dello storico ebreo Giuseppe, che riporta la morte di Giacomo, che è stato citato più sopra; ma molti vedono in quell'appellativo un'interpolazione cristiana, e si comprende facilmente perché, in questo caso, al fine di far meglio credere che le parole inserite fossero di Giuseppe, il loro autore abbia scritto: «fratello di Gesù, chiamato il Cristo». [34]

Se si scarta la parentela di Giacomo nei confronti di Gesù, come la intendono i Vangeli, si è ridotti a delle ipotesi. Couchoud aveva segnalato il passo seguente del Vangelo degli Ebrei, relativo alla resurrezione di Gesù Cristo, e che è stato conservato in un'opera di san Girolamo: [35] «Dopo aver dato il sudario al servo del sacerdote, il Signore andò da Giacomo e gli apparve. Giacomo infatti aveva assicurato che, dal momento in cui aveva bevuto calice del Signore, non avrebbe più preso cibo fino a quando non l'avesse visto risorto dai dormienti. Il Signore disse poco dopo: «Portate la tavola e il cibo». E subito è detto: Prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e diede a Giacomo il Giusto, dicendo: «Mio fratello, mangia il tuo pane, poiché il figlio dell'uomo è risorto dai dormienti». [36]

Couchoud ha avanzato l'ipotesi che il nome di «fratello del Signore» sarebbe stato dato a Giacomo a causa di quella apparizione. [37] E si riferisce alle parole che il Vangelo di Giovanni (20:17-18) attribuisce a Gesù dopo la sua resurrezione: «Va' dai miei fratelli e di' loro che io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro. Allora Maria Maddalena andò ad annunciare ai discepoli che aveva visto il Signore, e che lui le aveva detto queste cose». [38]

Loisy, criticando il libro di Couchoud, ha ritenuto «fallace» questo riferimento al Vangelo di Giovanni, ma non dice perché. Secondo Loisy, il Vangelo degli Ebrei è derivato da un ambiente del cristianesimo giudaizzante, non è stabilito che questo Vangelo sia antico, e non si vede proprio quale genere di tradizione possa rappresentare un vangelo posteriore a Marco e probabilmente a Matteo. [39] Questa argomentazione di Loisy è in relazione da un lato con la sua opinione sulla realtà di una carriera terrena del profeta Gesù, il cui ricordo è stato conservato dalla «tradizione», e dall'altro con l'attribuzione agli scrittori cattolici dei versi della 1° Epistola ai Corinzi (15:6-9), che danno un racconto delle apparizioni di Gesù Cristo a vari cristiani, tra cui Giacomo e Paolo. [40]

Se si pensa, al contrario, che il credo in Gesù si è costituito gradualmente, senza legarsi ad un fatto storico recente, non si vede quale argomento si possa opporre alla formazione più o meno antica di una tradizione, riportante l'apparizione di Gesù dapprima a Giacomo, subito dopo la sua resurrezione, e designata ad illustrare la Chiesa cristiana di Gerusalemme, di cui quest'ultimo è stato uno dei notabili. [41] In queste condizioni, la spiegazione data da Couchoud dell'appellativo «Giacomo fratello del Signore», sulla base del racconto del Vangelo degli Ebrei, è senza dubbio solo un'ipotesi, ma verso la quale non si può sollevare alcuna obiezione ricavata da un testo contrario. Guignebert, che non revoca in dubbio l'esistenza di un Giacomo, fratello di Gesù, ha scritto: «È possibile che Giacomo abbia avuto la sua visione, che si può credere lo abbia condotto alla fede e lo abbia preparato al prestigio di cui godrà più tardi, — se è lo stesso, — nella comunità di Gerusalemme...» [42]

Infine, vale la pena di menzionare, relativamente a Giacomo, l'esistenza di una Epistola di Giacomo. Secondo Loisy, l'epistola così nominata sarebbe di origine romana e risalirebbe al 130 circa. [43] È piuttosto singolare che un'epistola posta sotto tale paternità, se Giacomo fosse il fratello di sangue di Gesù, sia l'unico libro del Nuovo Testamento che non parla della morte di Gesù: [44] è una semplice istruzione morale. Ma soprattutto lo «pseudo-Giacomo», nella dedica dell'Epistola (1:1), si presenta «servo di Dio e del Signore Gesù Cristo» e non «fratello di Gesù» o fratello del Signore. Vi è d'altra parte uno scritto egualmente apocrifo, intitolato Epistola di Giuda, che risale allo stesso periodo; ora se Giuda è nominato con Giacomo, tra i fratelli di Gesù, nel Vangelo di Marco (6:3), [45] egli si dichiara, nella dedica della sua Epistola, «servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo», ma, non più di quest'ultimo, fratello di Gesù. Avendo Couchoud notato queste stranezze, [46] che permetterebbero di dedurre che né Giacomo né Giuda siano stati realmente considerati all'inizio fratelli di Gesù secondo la carne, Loisy trattò queste osservazioni da «mediocri sottigliezze, inutili sotterfugi», che «non distruggono la testimonianza di Marco», aggiungendo inoltre, nella riga seguente: «Ciò non equivale a dire che questa testimonianza sia indiscutibile nei dettagli». [47]

Si è rilevato ancora un verso dell'Epistola ai Romani 8:29: «Quelli che Dio da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine di suo Figlio, affinché suo Figlio sia il primogenito tra molti fratelli». E si sono confrontate queste ultime parole con l'espressione che si trova nel Vangelo di Luca 2:7: «Maria diede alla luce il suo figlio primogenito». Ma il verso citato dalla Epistola ai Romani fa parte di un insieme, «interpolazione marcionita sulla morte redentrice del Cristo», secondo Turmel, fa parte di una «magnifica storiella che deve essere», dichiara Loisy, «la conclusione della... teoria mistica della salvezza» nell'Epistola. [48] Perfino se si attribuisce il passo a Paolo in persona, si deve riconoscere il significato religioso che ha la parola fratelli nella citazione precedente.

Le credenze ebraiche di Gesù.

Un passo dell'Epistola ai Galati (4:4) enuncia che «Dio ha mandato suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, affinché riscattasse quelli che erano sotto la Legge». Abbiamo già citato questo verso, nelle righe dedicate alla nascita di Gesù, e abbiamo detto quali difficoltà di attribuzione esso comporta. [49] Lo consideriamo qui in relazione al modo in cui l'Epistola paolina presenta le concezioni religiose di Gesù. Se si pensa che l'espressione: «nato sotto la Legge» sia, non di un editore cattolico (secondo Turmel), ma o di un discepolo mistico di Paolo (secondo Loisy), o di Paolo stesso (tesi classica), pare che sia possibile interpretare il verso, o come la relazione dell'azione di un uomo, oppure come la maniera in cui l'autore del verso si rappresentava la missione del Figlio di Dio: pur affermando il suo rispetto per la Legge, trasformare l'antica religione ritualistica del popolo ebraico in una religione di salvezza. [50

Ecco ora un verso che Turmel e Loisy sono d'accordo con gli altri critici nell'attribuire a Paolo. Si trova in Romani 15:8: «Dico infatti che il Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio, per compiere le promesse dei padri». Ma nulla indica se si tratti di un'affermazione di Paolo secondo cui il profeta Gesù non ha predicato che in Israele, conformemente alle promesse, [51] oppure se occorra vedervi, da parte di Paolo, un modo di enunciare che la fede cristiana è la continuazione della religione ebraica, nell'intenzione di giustificare la sua azione presso i pagani e di assicurarsi tra i cristiani di Roma, molto legati alla tradizione ebraica, un'accoglienza favorevole, quando verrà a visitarli. [52] In altre parole, la formulazione del verso non permette di per sé di giudicare se si riferisce alla tradizione di una carriera umana oppure se esprime una credenza. 

L'ultima cena di Gesù con i suoi discepoli.

La 1° Epistola ai Corinzi (11:23-26) sembra, a prima vista, presentare un'allusione indiscutibile all'ultimo pasto consumato da Gesù con i suoi discepoli prima del suo arresto: pasto noto sotto il nome di «cena», per una francesizzazione della parola latina corrispondente:

«Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu consegnato, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me. Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga».

Eliminiamo anzitutto un controsenso, suggerito dal confronto che si fa quasi inevitabilmente tra il passo paolino e i racconti evangelici: le prime righe datano l'episodio presentato a «la notte in cui fu consegnato», e lo si interpreta facilmente: «consegnato da Giuda, uno dei suoi». Ma nessuna allusione è fatta ad un tradimento nei versi paolini, [53] e la parola «consegnato» può essere stata suggerita al loro autore dal famoso capitolo 53 del Libro di Isaia, che raffigura il martirio del servo sofferente; la parola «consegnato» vi rinviene per tre volte, nella traduzione greca detta dei Settanta. [54]

Verso 6. «Il Signore l'ha consegnato per i nostri peccati...»
Verso 10. «Il Signore ha voluto colpire la sua anima con la sofferenza»,
Verso 11. «per mostrargli in seguito la luce...»
Verso 12. «Perciò... egli dividerà il bottino con i potenti, al posto dei quali la sua anima è stata consegnata alla morte e lui stesso è stato contato fra i malfattori: è così che si è caricato dei peccati di molti uomini e a causa dei loro peccati egli è stato consegnato».

Particolarmente chiaro è il verso 6, dove il servo è consegnato dal Signore. La parola «consegnato» e la parola «luce», che presuppone che sia stata preceduta dalla notte, permettono di pensare che il capitolo 53 del Libro di Isaia, di cui si è visto precedentemente l'influenza sulla stesura dei Vangeli, ha potuto egualmente ispirare l'autore dei versi citati dalla 1° Epistola ai Corinzi. [55]

Ma questo autore, secondo l'analisi dei versi fatti da Turmel e adottati da Loisy, non sarebbe l'apostolo Paolo. Turmel ha mostrato che in tutta questa parte del capitolo 11 si fondono due tipi di rimprovero ai cristiani di Corinto, che si riuniscono per prendere il pasto in comune: a volte l'autore li rimprovera di prendere ciascuno il proprio pasto senza prestare attenzione a coloro che hanno portato poco con sé, per cui «uno ha fame mentre l'altro è ubriaco»; altre volte li rimprovera di non veramente «mangiare la cena del Signore», cioè di riunirsi senza avere in mente il pensiero del Signore Gesù, che ha benedetto nel suo ultimo pasto il pane e il calice.

Turmel distingue quindi due elementi, quelli che, derivati dall'apostolo Paolo (a metà del I° secolo), raccomandavano semplicemente una fratellanza autentica tra i commensali, e quelli che sarebbero dovuti a Marcione (140 circa): quest'ultimo avrebbe voluto trasformare un semplice pasto di una comunità religiosa in una cerimonia liturgica e avrebbe posto questa riforma sotto il nome di Paolo.

Ancora una volta, Loisy ha accettato nel complesso la distinzione fatta da Turmel tra le espressioni che conviene attribuire a Paolo e quelle che sono state più tardi inserite nella versione originale, ma egli si è rifiutato di vedere nelle interpolazioni recenti l'opera di Marcione: secondo Loisy, già al tempo di Paolo, i pasti consumati in comune dai cristiani avevano un valore commemorativo della missione del Cristo; ma il senso mistico della comunione per mezzo del pane e del vino gli sarebbe stato dato solo verso la fine del I° secolo dai discepoli di Paolo: questi sono coloro che avrebbero inserito nel capitolo 11 della 1° Epistola ai Corinzi i versi 23-26, contenenti l'istruzione sulla cena, e nei versi che precedono le parole destinate ad annunciarla. [56

Anche sotto quella forma attenuata, le idee di Loisy hanno incontrato poca accoglienza presso l'insieme degli storici francesi contemporanei. Essi hanno continuato a pensare che l'istruzione sulla cena fosse di Paolo stesso, questione che non è che un aspetto di un difficilissimo problema: come si è formato il dogma cristiano della comunione del corpo e del sangue del Cristo? [57]

Tratterremo qui solo un punto: cosa valgono i versi 23-26 del capitolo 11 della 1° Epistola ai Corinzi, come testimonianza del pensiero di Paolo circa la carriera terrena di Gesù? L'inizio della citazione recita: «Io ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso». Turmel e Loisy erano d'accordo nel pensare che si trattasse di una visione fittizia di Paolo, intesa a giustificare una dottrina attribuitagli da una scuola cristiana più recente, quella di Marcione o quella dei discepoli mistici di Paolo. Una tale interpretazione permetterebbe di dare una risposta negativa alla domanda posta in precedenza. Ma non ne consegue immediatamente la stessa risposta, se si accetta che l'insieme del capitolo 11 dell'Epistola sia dell'apostolo in persona.

Cosa significherebbe, in effetti, in queste condizioni, l'espressione: «Io ho ricevuto dal Signore quello che vi ho  trasmesso» ? «Certi critici», ha scritto Goguel, «vedono nelle parole che introducono il racconto un'allusione ad una visione» di Paolo, che comportava d'altronde a sua volta diverse interpretazioni. [58] Goguel li scarta tutte, dichiarandole «arbitrarie». Egli analizza il testo greco dell'espressione in questione e il significato che ha in greco la preposizione apo, in francese de, contenuta nell'articolo contratto dal (Signore). Per stabilire il significato di apo in questo verso della 1° Epistola ai Corinzi, Goguel si riferisce ad un passo dell'Epistola ai Galati 1:1, dove Paolo si dice apostolo «non da parte (preposizione greca apo) di uomini o per tramite (preposizione greca dia) di un uomo, ma da (preposizione greca dia) Gesù Cristo e Dio Padre». Goguel ne conclude che, se Paolo riceve dal Signore (preposizione greca apo) la relazione della cena, «ciò non esclude per nulla» che egli la abbia ricevuta attraverso «coloro che hanno preso parte all'ultimo pasto» con Gesù o, in altre parole, dalla «tradizione» evangelica. [59]

Ma, — come per l'interpretazione dei versi della 1° Epistola ai Corinzi 2:7-8, riguardanti la crocifissione, [60] — non si tratta di sapere se il testo relativo alla cena escluda o meno la partecipazione di intermediari, ma se la menzioni. Ora il ragionamento di Goguel si ritorce contro di lui; quando si dice: «Io ho ricevuto un messaggio dal Signore», ciò significa: io l'ho ricevuto direttamente; perché ciò significhi: attraverso un intermediario, è necessario che questo intermediario sia menzionato.

Allo stesso modo la fragilità di un ragionamento basato sul senso di preposizioni dai molteplici significati è dimostrata anche dal riferimento stesso che Goguel invoca: nel verso di Galati che cita, la preposizione greca dia è intesa successivamente in due significati diversi e quasi opposti: per l'intermediazione di un uomo e per l'azione diretta di Gesù Cristo e di Dio Padre.

Se ci si attiene al testo della 1° Epistola ai Corinzi, così com'è e senza aggiungervi nulla, l'espressione: «Io ho ricevuto dal Signore» suggerisce una visione, che costituirebbe l'unica origine del racconto della cena. Uno dei critici che hanno adottato questa interpretazione, Alfaric, [61] nella sua opera: «Pour comprendre la vie de Jésus, Examen critique de l'Evangile selon Marc» ha studiato il testo paolino: «L'informazione,» scrive, «presentata all'inizio come proveniente «dal Signore», risulta apparentemente da una lettura meditata della Bibbia ebraica», [62] che mostra il Servo... di Dio «consegnato... come un agnello (Libro di Isaia, capitolo 53, versi 6-7)», e che racconta come Mosè ha fatto mangiare agli ebrei l'agnello pasquale in un pasto di comunione (Esodo 12:1-20), poi ha detto loro: Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha fatto con voi (Esodo 24:8). [63]


Tuttavia, altri critici «pensano che, per una sorta di autosuggestione, Paolo abbia contemplato in visione l'episodio di cui assumeva la conoscenza della tradizione. Altri ancora pensano che sia solo della natura sacramentale della Cena del Signore che Paolo ha avuto il sentimento di aver ricevuto la rivelazione del Signore». [64]

Di conseguenza, se di per sé il testo suggerisce una credenza, e non la relazione di un fatto storico, esso non esclude, secondo un'espressione di Goguel, la possibilità di una tale relazione; ma non ne potrebbe costituire una testimonianza.

La Passione.

Il punto principale relativo alla passione di Gesù nelle opere paoline è già stato esposto nel corpo della presente opera (pag. 46-50, 56-57 e 62): è la crocifissione ad opera dei Principi di questa Età, che si trova nella 1° Epistola ai Corinzi 2:7-8. Le altre allusioni alle circostanze e ai dettagli della Passione sono molto di meno.

Alcuni hanno citato nell'Epistola ai Romani 15:3: «Il Cristo infatti non cercò di piacere a sé stesso, ma come sta scritto: «gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me». Turmel e Loisy sono d'accordo nel considerare il capitolo 14 e i primi 7 versi del capitolo 15 dei consigli su certe osservanze di un'epoca più recente di quella di Paolo. [65] Anche la citazione che vi è fatta del Salmo 69, verso 10, mostra che l'autore dei versi in questione dell'Epistola ai Romani, chiunque sia, sembra essere meno interessato a riportare un fatto storico che a sostenere la nuova credenza sulle Scritture bibliche.

La 1° Epistola ai Tessalonicesi, nei primi 16 versi del capitolo 2, contiene un'apologia di Paolo contro altri missionari, «che porta ad un attacco veemente contro gli ebrei persecutori, «che hanno fatto morire il Signore Gesù e i profeti» (verso 15): diatriba «nello spirito e nello stile degli Atti» degli Apostoli, ha scritto Loisy. [66] Vale a dire che, come Turmel, egli vede nei 16 versi in questione un'interpolazione operata da editori cattolici. 

Goguel la attribuisce a Paolo: ma lui si rende ben conto della contraddizione tra la violenza di questo attacco e il rispetto che Paolo manifesta in generale per il passato di Israele. Goguel ricorda lui stesso che «nello sviluppo di Romani 9:1-5, sul popolo di Israele, Paolo parla della sua incredulità (nei confronti del Cristo), senza fare allusione una sola volta alla parte di responsabilità che avrebbe potuto avere nella morte del Signore». Così Goguel spiega che il testo della 1° Epistola ai Tessalonicesi 2:15, «non è preciso che in apparenza; le responsabilità che ha in vista sono di natura morale e non materiale». [67]

Quanto ai versi 3-11 del capitolo 15 della 1° Epistola ai Corinzi, che menzionano la morte, la sepoltura e la resurrezione del Cristo al terzo giorno, così come le sue apparizioni ai primi cristiani e a Paolo, si troverà un esame di questi versi nel capitolo 4, dove sono esposti i rapporti tra Paolo e la chiesa di Gerusalemme. 

NOTE

[1] Si veda più sopra, pag. 46.

[2] Queste sette lettere sono le Epistole ai Romani, 1° e 2° ai Corinzi, ai Galati, ai Filippesi, 1° ai Tessalonicesi, a Filemone. Esse si susseguono tra il 51 e il 54 (si veda più sopra, pag. 46, nota 2. Sono enumerate qui di seguito secondo l'ordine della collezione di libri conformi alla regola (in greco, canon), della vera Fede: si veda GUIGNEBERT, Le Christ, pag. 20, nota 3.

[3] Si veda GUIGNEBERT, Le Christ, pag. 137.

[4] Sotto lo pseudonimo di Henri DELAFOSE, Turmel era un anziano professore di teologia al grande seminario di Rennes.

[5] Si veda GUIGNEBERT, Le Christ, pag. 143-144.

[6] Per esempio GUIGNEBERT, Le Christ, pag. 339, a proposito di Romani 16:25 e seguenti: «Questo frammento è sicuramente di una dubbia autenticità»; GOGUEL, Jésus, pag. 102, nota 2, sembra ammettere l'autenticità di Efesini, ma il verso 20 del capitolo 2 gli «pare essere un'interpolazione posteriore».

[7] Si veda a questo proposito LOISY, Remarques sur la littérature épistolaire du Nouveau Testament, in particolare pag. 6 e Histoire et mythe, in particolare pag. 30, 108, 109, 112, 115, 117, 219, 230. Si veda anche uno studio postumo di ALFARIC, Les Epîtres de Paul, nel Bulletin du Cercle Ernest Renan, n° 35, aprile 1956.

[8] Da cui il termine, ispirato al greco, di concezione «escatologica».

[9] Alfaric (articolo citato pag. 252, nota 7) adotta piuttosto l'opinione di Loisy, quanto all'epoca e l'origine della «seconda edizione», edizione «mistica» delle epistole paoline. Ma, non credendo ad una carriera terrena di Gesù al tempo di Tiberio, egli respinge egualmente la presentazione data da Loisy e quella che adotta Turmel della concezione religiosa di Paolo (si veda più sopra, pag. 170).

[10] DELAFOSSE (TURMEL), L'Epître aux Romains, pag. 131, nota 1.

[11] LOISY, Histoire et mythe, pag. 147.

[12] COUCHOUD, Jésus, le Dieu fait homme.

[13] LOISY, Histoire et mythe, pag. 241.

[14] LOISY, Remarques, pag. 11, nota 1.

[15] LOISY, Remarques, pag. 9, nota 1.

[16] Collettivamente (La Bibbia, Libro di Osea 11:1, Esodo 4:22-23) e individualmente (Deuteronomio 14:1), secondo DELAFOSSE (TURMEL), L'Epître aux Romains, pag. 15-16, dedicata a Romani, che conclude: Per Paolo, «le due filiazioni sono inseparabili».

[17] LOISY, La naissance du christianisme, pag. 84.

[18] GOGUEL, pag. 197.

[19] LOISY, Remarques, pag. 24-25. Argomentazione negli stessi termini di Histoire et mythe, pag. 74.

[20] DELAFOSE (TURMEL), L'Epître aux Romains, pag. 125, nota 2.

[21] Si veda ance, pag. 71, nota 72.

[22] LOISY, Remarques, pag. 28, nota 3: «Nulla autorizza a considerare come glossa in Galati 4:4, le parole: «nato da donna, nato sotto la Legge»; dove la prima asserzione significa che il Cristo era uomo, e non la concezione verginale; e dove la seconda: «nato sotto la Legge», sembra richiesta dal seguito del discorso: 5. «Affinché riscattasse quelli che erano sotto la Legge». DELAFOSSE (TURMEL) fa valere in senso inverso (nel volume intitolato La 2° Epître aux Corinthiens, parte dedicata all'edizione dell'Epître aux Galates, pag. 195, nota 1): «Quella professione di fede nella concezione verginale del Cristo vuole provare prima di tutto che Gesù ha avuto un corpo carnale e che ha ricevuto la circoncisione conformemente alla legge mosaica». — GOGUEL, La naissance du christianisme, pag. 272, nota 2, pensa, come Loisy, che «nato da donna» significhi: «nato nelle condizioni abituali», ma egli attribuisce il verso a Paolo stesso, e non ad un discepolo mistico dell'apostolo. Esempio, tra molti altri, di controversie inestricabili nella storia delle origini del cristianesimo.

[23] LOISY, Remarques, pag. 53. DELAFOSSE (TURMEL), La 2° Epître aux Corinthiens, pag. 27.

[24] LOISY ha impiegato, in effetti, a questo proposito dei termini molto riservati in una delle sue ultime opere, Les origines du Nouveau Testament (1936), pag. 329: «Cosa intende il nostro autore con «il Cristo secondo la carne», i commentatori sono generalmente abbastanza imbarazzati di dirlo: questo non è precisamente il Cristo della storia, — idea che non è di questo tempo; — è il Cristo uomo della catechesi escatologica, annunciata da coloro che il Paolo mistico qualifica come giudaizzanti, è Gesù fatto Cristo per la morte, e Signore nella sua immortalità; il Cristo del Paolo mistico è l'Uomo spirituale, incarnato per operare la redenzione tramite la sua morte, e per rivivere nella sua immortalità come Signore del suo mistero».

[25] GUIGNEBERT, Le Christ, pag. 247. — Si ha voluto spesso ricavare da questo passo la conclusione che Paolo aveva conosciuto personalmente Gesù. GOGUEL, La naissance du christianisme, pag. 237, nota 4, pensa, come Guignebert che il testo della 2° Epistola ai Corinzi 5:16, «ha una natura ipotetica». Il Padre Joseph BONSIRVEN, L'Evangile de Paul (1948), pag. 25, nota 1, ritiene egualmente che «non si può trarre un argomento da questo significato» del verso in questione. — ALFARIC aveva espresso dal 1927 un'opinione analoga a quella di Guignebert nel corso di un articolo intitolato: «Le Jésus de Paul» (pubblicato nella Revue de l'Histoire des Religions (marzo-giugno 1927); estratti riprodotti nel Bulletin du Cercle Ernest Renan, n° 52, marzo 1958).

[26] Nome aramaico corrispondente al greco Petros: Pietro. 

[27] DELAFOSSE (TURMEL), La 1° Epître aux Corinthiens, pag. 57-59. Loisy non sembra aver esaminato questo punto nelle sue Remarques.

[28] Si tratterebbe di Lidia, mercante di porpora, originaria della città di Tiatira, menzionata negli Atti degli Apostoli 16:13-15, secondo Léon HERRMANN, professore all'Università di Bruxelles (si veda Le treizième apôtre (san Paolo), (Bruxelles, 1946), pag. 37 e 44-47, e Autour de saint Paul, Cahiers du Cercle Ernest Renan, n° 17, 1° trimestre 1958, pag. 11-14).

[29] GOGUEL, Jésus de Nazareth (1925), pag. 105.

[30] Dopo la conversione di Paolo al cristianesimo.

[31] DELAFOSSE (TURMEL), testo dell'Epistola ai Galati, nel volume intitolato La II° Epître aux Corinthiens, pag. 188, nota 1; LOISY, La naissance du christianisme, pag. 24, nota 3; Remarques, pag. 38-40; Histoire et mythe, pag. 47, nota 2. — Si veda anche più sopra, pag. 138.

[32] Citato più sopra, pag. 17, nota 17, e pag. 64. Si trova esattamente lo stesso testo nel Vangelo di Matteo 13:55.

[33] Si veda un articolo di Albert RAVELLI, Jésus avait-il des frères ? nel Bulletin du Cercle Ernest Renan, gennaio 1956.

[34] Si veda più sopra, pag. 38-40.

[35] San GIROLAMO, Degli uomini illustri, capitolo 2 (l'opera è stata scritta in latino).

[36] Si veda il commentario di questo testo dato da G. ORY, Jésus a-t-il été crucifié ? Cahiers du Cercle Ernest Renan, n° 6, 1955, pag. 17: Ory vede in questo passo un argomento a favore della tesi di un «mito che traduceva un antico rito, che comportava un digiuno di tre giorni tra la morte del dio e la sua resurrezione». 

[37] COUCHOUD, Jésus, le Dieu fait homme, pag. 46-47.

[38] Si veda Vangelo di Matteo 28:10: «Allora Gesù disse loro: ...andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno»

[39] LOISY, Histoire et mythe (1938), pag. 33-34. Nella sua opera La naissance du christianisme (pag. 61-62), nel 1935, Loisy era stato molto meno categorico sulla priorità assoluta del Vangelo di Matteo a riguardo del Vangelo degli Ebrei (o del Vangelo dei Nazareni, di cui Loisy sembra ammettere, come san Girolamo, l'assimilazione al Vangelo degli Ebrei); e in Remarques (pag. 77), nel 1936, egli ha scritto che «quella apparizione del Cristo a suo fratello sarebbe stata conosciuta in una maniera o nell'altra dalla tradizione evangelica dei giudaizzanti».

[40] Si veda più sopra, capitolo 4 del corpo dell'opera, pag. 129-135.

[41] Si veda GOGUEL, La naissance du christianisme, pag. 57.

[42] GUIGNEBERT, Jésus, pag. 628.

[43] LOISY, La naissance du christianisme, pag. 31, e Remarques, pag. 139.

[44] Osservazione di GOGUEL, in Jésus, pag. 363, nota 2: secondo lui, il giusto, condannato e ucciso, di cui parla il verso 5:6 non è che un tema generale, e non un'allusione alla morte di Gesù.

[45] Si veda più sopra, pag. 17, nota 17.

[46] COUCHOUD, Histoire et mythe, pag. 163. — Albert RAVELLI, si veda anche la stessa opera, pag. 46-47.

[47] LOISY, Histoire et mythe, pag. 163. — Albert RAVELLI, nell'articolo prima citato: Jésus avait-il des frères ? ritiene che il passo è forse interpolato (si veda più sopra pag. 17, nota 17, e pag. 179, nota 21); GUIGNEBERT, in Jésus (1933), pag. 148, nota 1, aveva scartato quella possibilità.

[48] Si veda DELAFOSSE (TURMEL), L'Epître aux Romains, pag. 24-37 e 128-129; LOISY, Remarques, pag. 25-26.

[49] Si veda più sopra, pag. 259.

[50] Si vede che l'importanza dell'attribuzione di «nato sotto la Legge» a un editore cattolico è minore rispetto all'espressione: «nato da donna» poiché il verso ha un significato completo senza le parole: «nato sotto la Legge».

[51] Si veda GUIGNEBERT, Jésus, pag. 26.

[52] LOISY, Remarques... Conclusions, pag. 186.

[53] Nemmeno del resto nel Vangelo di Marco (1:14), a proposito di Giovanni il Battista: «Dopo che Giovanni fu consegnato...».

[54] La Bibbia sarebbe stata tradotta dall'ebraico in greco da settantadue traduttori sotto il regno, in Egitto, di Tolomeo Filadelfo (inizio del III° secolo prima dell'era cristiana). Si ricorda che i primi cristiani, al di fuori di quelli della Palestina, erano degli ebrei ellenizzati della Diaspora nelle diverse province dell'Impero romano, che leggevano la Bibbia, non nel testo ebraico, ma nella traduzione greca.

[55] Si veda più sopra, capitolo I, pag. 22-24. — L'errore frequente d'interpretazione della parola «consegnato» è stato segnalato da COUCHOUD, Le mystère de Jésus (1924), pag. 119, nota 1, e pag. 142, dove egli rileva la triplice ripetizione della parola «consegnato» e l'importanza della parola «luce» nel capitolo 53 del Libro di Isaia. — Sui rapporti tra Isaia 53:6-12, e la 1° Epistola ai Corinzi 11:23 e seguenti, si veda anche più oltre, pag. 277-278.

[56] Il disaccordo tra Turmel e Loisy si complica con una differenza di interpretazione a proposito dell'istruzione sulla cena stessa, così come figura nella 1° Epistola ai Corinzi. Turmel, osservando che le parole «Questo è il mio corpo che è dato per voi» rompono il significato delle parole di Gesù, ritiene che Marcione, nel 140 circa, insegnava soltanto l'imitazione del gesto del Cristo, ovvero l'azione di grazie e la frazione del pane; le parole: «Questo è il mio corpo...» costituivano un'interpolazione cattolica, operata dopo l'esclusione di Marcione. Loisy, al contrario, pensa che, dalla fine del I° secolo, le parole: «Questo è il mio corpo...» erano state inserite nel testo della 1° Epistola ai Corinzi. Si veda DELAFOSSE (TURMEL), La 1° Epître aux Corinthiens (1926), pag. 60-87; LOISY, Remarques (1935), pag. 60-69, Origines du Nouveau Testament (1936), pag. 279-280.

[57] Si veda GOGUEL, Jésus (1950), pag. 90; GUIGNEBERT, Le Christ, pag. 366-375 (pagine provenienti da una conferenza del 1933), Jésus (1933), pag. 534-548. 

[58] GOGUEL, Jésus, pag. 90.

[59] GOGUEL, Jésus, pag. 91.

[60] Si veda più sopra, pag. 49.

[61] Si veda GOGUEL, pag. 90, nota 6. — Si veda tuttavia dopo, pag. 278, nota 63.

[62] Nel testo della traduzione greca dei Settanta (si veda più sopra, pag. 272, nota 54).

[63] ALFARIC, Pour comprendre la vie de Jésus, Examen critique de l'Evangile selon Marc, pag. 159-160; si veda anche pag. 157. — Si veda più sopra la citazione della 1° Epistola ai Corinzi 11:23-26. — Sui rapporti tra questi versi dell'Epistola e Isaia 53:6-12, si veda qui sopra, pag. 271-273. —Quella interpretazione dell'Epistola è data da Alfaric collocandosi nella dottrina classica della sua attribuzione a Paolo; ma dal 1929, nell'opera che aveva preceduto quella che è appena stata citata, e intitolata La plus ancienne vie de Jésus, L'Evangile selon Marc, Alfaric segnalava (pag. 75), secondo Delafosse (Turmel), che quella attribuzione era incerta.

[64] GOGUEL, Jésus, pag. 90.

[65] Per DELAFOSSE (TURMEL), nell'Epître aux Romains, pag. 64-84, l'insieme qui considerato si riferisce alla riforma cristiana, operata nel II° secolo, che ha spostato la festa di Pasqua, — ancora celebrata in certe Chiese, come tra gli Israeliti, il 14 del mese di nisan, — alla domenica seguente. LOISY, Remarques, pag. 31-32, nega che ci sia menzione in questi capitoli dell'Epistola; egli li attribuisce a dei discepoli di Paolo, alla fine del I° secolo.

[66] LOISY, La naissance du christianisme, pag. 17, nota 1. — Si veda DELAFOSSE (TURMEL), La 1° Epître aux Thessaloniciens (nel volume intitolato l'Epître aux Philippiens, pag. 39-49 e pag. 149-150.

[67] GOGUEL, Jésus, pag. 365, in particolare nota 4 (si veda anche pag. 366). — Sul passo in questione dell'Epistola ai Romani, si veda più sopra, pag. 254-255.    

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