giovedì 7 novembre 2019

La Favola di Gesù Cristo — «La crocifissione in Paolo»

(segue da qui)

La crocifissione in Paolo

Le epistole di Paolo, nel loro stato attuale, impiegano un termine che per tradizione, noi traduciamo «crocifissione». [2] Ma Paolo non ci dà mai il minimo dettaglio, il che prova che egli non ne conosceva nessuno. Cosa rappresenta dunque per Paolo la morte del Cristo?

Ammettiamo un istante che questo sia il supplizio della croce: Paolo ha certamente sentito parlare delle crocifissioni romane, ne ha potuto vedere qualcuna. Meditando sul Salmo 22: «Mi hanno forato le mani e i piedi», a quale altro supplizio poteva pensare?

Ma per Paolo, il Cristo è anche l'agnello pasquale, che deve essere crocifisso (su due bastoni in croce).

La morte del Cristo è per Paolo un fatto reale, oppure un simbolo? È difficile non vedervi un puro simbolo in testi come questi: «Io sono crocifisso con il Cristo» , o ancora: «la croce... per mezzo della quale il mondo per me è crocifisso, come io sono crocifisso per il mondo» (Galati 6:14). Non ripeterò qui l'analisi delle epistole; coloro che l'hanno fatta concludono: «La crocifissione di Gesù è la proiezione nel divino della vita crocifissa di Paolo», [3] oppure: «Il Gesù paolino non è colui che è stato crocifisso, è colui che resta crocifisso, il crocifisso permanente». [4] Si tratta dunque di un puro simbolo, soprattutto se si ricorda che il testo non dice esattamente «messo in croce», ma solamente «tormentato». Quando scrive, Paolo ovviamente non è stato messo in croce, eppure si dice «tormentato con il Cristo», o ancora «crocifisso con». È perché il supplizio ha un valore simbolico, rituale, è quello dell'agnello pasquale.

Ammettiamo ancora che Paolo abbia voluto parlare di una messa in croce. In quale contesto questo fatto avrebbe dovuto essere quello più facilmente accettato, se non a Gerusalemme dove si ritiene avrebbe dovuto avvenire? Ora, è proprio a Gerusalemme che Paolo ha più difficoltà a far accettare la sua tesi, se crediamo all'epistola ai Galati. La comunità di Gerusalemme (se è esistita) non dà alcuna impressione di vivere nel ricordo di Gesù, ma nell'attesa del Messia: frequenta il Tempio e si nutre di profezie. Le «colonne» di quella comunità non insegnano a Paolo niente di nuovo. Ma lui, lui ha un messaggio importante da comunicare loro: è il supplizio del Cristo. E i suoi ascoltatori non lo accettano, l'incomprensione è totale su questo punto: Paolo e la comunità di Gerusalemme non parlano dello stesso Cristo. Quale è quello che è stato «crocifisso»? È quello del luogo del  supplizio? No, è quello di Paolo, che viene dalla Siria per portare quel messaggio! Se la morte in croce di Gesù fosse stata un fatto ben noto, perché Paolo doveva tanto insistere per farla ammettere? La croce del Cristo, dice, è «scandalo per i giudei». Giacomo e il suo gruppo predicano un «falso Cristo»... La resistenza stessa dell'ambiente di Gerusalemme non dimostra la novità della tesi?

Gli «Atti degli Apostoli» riportano la successiva prigionia di Paolo (21-26), e gli prestano in quell'occasione dei grandi discorsi che avrebbe tenuto davanti alla folla, davanti al Sinedrio, davanti ai procuratori Felice, poi Festo, e perfino davanti al re Agrippa. Siamo sui luoghi stessi del presunto supplizio, pochissimo tempo dopo l'evento: perché Paolo non ne fa la minima allusione? E perché nessuno, tra i suoi avversari, si sogna di dire al procuratore che Paolo è il partigiano di un condannato da Pilato? Quel silenzio è incomprensibile, se Gesù è stato messo in croce.

NOTE

[2] La parola greca «stauros» significa solamente un palo.

[3] COUCHOUD: «Jésus, le dieu fait homme», pag. 93.

[4] G. ORY: «Jésus a-t-il été crucifié», Cahier du Cercle E. Renan, 2° trim., 1955, pag. 2.

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