sabato 25 ottobre 2025

Gerard Bolland: IL VANGELO — Un ‘rinnovato’ tentativo di indicare l’origine del cristianesimo 2:1

 (segue da qui)



  II 

Chi conosce la storia e la letteratura dell’antichità greca avrà già notato come, attraverso il pensiero filoniano del Razionale reso manifesto in un mediatore umano – il Logos che unisce spirito e natura, Dio e uomo – sia passata un’eco dell’idea stoica del Sapiente: figura indispensabile al mondo, eppure difficile da trovare. Quel Sapiente, in cui il logos spermatico, o germe della ragione, che non germoglia nel puramente materiale e che anche nell’animato o psichico si sviluppa ancora imperfettamente, è giunto a piena maturità. Che Stoici e cristiani coincidano sotto molti aspetti è un’osservazione ben nota a Girolamo. Ma già il Maestro stesso del Vangelo insegna alla folla la virtù, proprio come il Sapiente della scuola cinica e della Stoà; e il fatto che, in Cicerone, De finibus 3:75, la persona Sapientis venga chiamata magister populi e magister virtutis, non è un dato che possa essere trascurato a cuor leggero. Harnack, “il prudente”, ha sostenuto nelle sue conferenze su L’essenza del cristianesimo (p. 52) che l’immagine di vita e le parole di Gesù non stanno in alcun rapporto esplicito con l’ellenismo; e Wellhausen, per il quale pure “il figlio dell’Uomo” in quanto tale non è galileo, afferma ingenuamente che nei Vangeli non si trova nulla che assomigli alla Gnosi o alla fantasticheria, ma soltanto una dottrina morale soprannaturale, sviluppata in un serio e semplice rigore (Israël. u. jüdische Geschichte³, p. 348). Il che non dimostra una profonda comprensione, poiché il Vangelo e la dottrina paolina stanno in rapporto l’uno con l’altra come un discorso figurato e l’interpretazione che vi è aggiunta: di conseguenza, sin dall’inizio, il senso rivelato nel Vangelo rimane in realtà invisibile, proprio nella misura in cui esso per i molti si è esteriorizzato in racconto, in rappresentazione. La verità è che lo sfondo immediato del Vangelo deve essere detto ellenistico. Che altro pensare, per esempio, di Matteo 27:55; Marco 15:41; Luca 8:3; 10:38-42; 23:49? Perfino il nostro secondo vangelo, che tanto si vorrebbe far apparire autentico e originario, parla di donne che stavano a guardare da lontano il Crocifisso, “le quali pure, quando egli era in Galilea, lo avevano seguito e servito” (cfr. Giovanni 4:27). “I dotti (talmudici) hanno insegnato: non parlare troppo con una donna” (‘Erubîn 52:2). “Evita anche i discorsi superflui con tua moglie!” (Pirqê Abot 1:5). “Molte donne, molta superstizione” (ibid., 2:7). “Nessuno si intrattenga in piazza con una donna, neppure con la propria” (Jomâ 240:2). E da 2 Maccabei 3:19 (e 3 Maccabei 1:18-19) si può dedurre che presso gli ebrei palestinesi, all’inizio della nostra era, l’isolamento della donna nell’appartamento femminile fosse consuetudine altrettanto diffusa come nell’Oriente in generale. Proprio la civiltà greca, mediatrice tra Oriente e Occidente, portò qui un inizio di emancipazione, anche se Marco 15:41 va letto più propriamente alla luce dei costumi romani. “Fino a che punto arrivi la parità di diritti e la libertà tra donne e uomini e tra uomini e donne, lo abbiamo quasi dimenticato di dire”, scrive già Platone (Repubblica 561 b), nella convinzione che in molte cose molte donne siano migliori di molti uomini (455 d). Ma più tardi Cornelio Nepote domanda: “Quale romano si vergogna di portare la propria moglie con sé a un banchetto? E presso chi la padrona di casa non occupa il posto d’onore nella casa e non prende parte alla vita sociale?”


Nessun commento: