(segue da qui)
“Per l’invidia del Diavolo” – così si insegnava ad Alessandria – “la morte è entrata nel mondo” (Sapienza 2:24). “Nella parentela con la sapienza c'è l'immortalità” (ibid., 8:17). “Il saggio” – dice ancora Filone – “che rispetto alla vita corruttibile sembra morto, continua a vivere rispetto a quella incorruttibile” (Quod det pot. ins. 15). “Mosè è partito da qui per ascendere al cielo, e lasciando la vita mortale è divenuto immortale, richiamato dal Padre, che lo trasse dalla sua duplicità di corpo e anima per trasformarlo in un essere semplice, mutandolo interamente in Spirito, simile al Sole” (De vita Mosis 3:39; cfr. Matteo 18:20; Giovanni 8:12; 2 Corinzi 3:17). “Sole chiama Mosè la Ragione divina” (De somniis 1:15). “In verità il saggio è il primo nel genere umano” (‘Su Abramo’ 46). “Grande prontezza poté mostrare lo Spirito quando fuggì dalla regione corporea dell’Egitto [1] e poté ricevere l’eredità della virtù in tre giorni, in una luce triplice di memoria, chiaroveggenza e speranza” (‘Sulla migrazione di Abramo’ 28). In Sapienza 6:24 la moltitudine dei saggi è chiamata la salvezza del mondo. Ma Filone scrive: “Preghiamo che nel genere umano continui ad esserci il giusto per la guarigione dei mali; finché egli rimane in salute, non dobbiamo disperare della redenzione perfetta. E per mezzo suo, io spero, Dio il Salvatore renderà un giorno disponibile a coloro che lo pregano e lo servono il rimedio universale che tutto guarisce, la forza della sua grazia, con il comando che lo si applichi per la guarigione dei malati e l’unzione delle ferite dell’anima, che si sono aperte in essa per le follie, le iniquità e l’ulteriore moltitudine dei mali nel loro acuirsi” (ibid. 22). Notiamo che il riferimento al “Giusto” qui non corrisponde più propriamente all’ideale che il giudeo “stoico-platonico” ad Alessandria aveva imparato a formarsi della vera e retta umanità: che la giustizia non è tutto, e che la “benevolenza” è la realtà più ampia, nella quale già Filone aveva imparato a pensare in modo ellenistico il Signore divino del suo popolo come Padre dell’intero mondo. Del “cinico” Diogene dice più tardi Epitteto (Diss. 3:24,65), che egli era stato “mite” e “filantropo”, e ancora a metà del 3° secolo Origene sa raccontare (‘Contro Celso’ 3:50) che i cosiddetti “sapienti cinici”, nella loro filantropia come essi la intendevano, solevano rivolgere i loro discorsi anche alle folle incolte, – “sotto la bandiera della filantropia”, scrive nel 2° secolo Aristide (2:400 Dindorf), che però giudica che “i Cinici” non fanno del bene. Filone aveva insegnato, non a caso, che non il “Signore” (Salmi 33:8 LXX), ma “Dio” è chrestós: si veda §14 nel suo scritto sul minore che insidia il maggiore, nonché §44 nel suo trattato sul cambiamento dei nomi biblici. E che cosa questo significhi per lui, lo si comprende dal §4 della sua trattazione ‘sulla filantropia’, dove egli afferma: “Dio è filantropo”. Ciò implica che, secondo il giudeo alessandrino di formazione “stoico-platonica” o “neopitagorica”, la filantropia è il vero bene insito negli uomini stessi; “l’uomo nobile”, dice egli altrove (6:262 Holtze), “è filantropo, mite e indulgente; non serba rancore a nessuno al mondo”. E il legislatore dei giudei, così sostiene egli al §23 del trattato sulla ‘filantropia’, “insegna una dottrina che è la più adatta per l’essere razionale: imitare Dio quanto più è possibile e non trascurare nulla che conduca alla somiglianza possibile con lui”. Qui si riconosce la “somiglianza a Dio” che già Platone (Teeteto 176b) non aveva giudicato del tutto impossibile e che nel Vangelo (Matteo 5:48; cfr. 1 Corinzi 15:49; 2 Corinzi 3:18; Efesini 4:13) è addirittura comandata; che anche nel Vangelo non si intenda con ciò soltanto il “diventare giusti”, risulta da Matteo 5:44-45. E come dunque l’uomo, ricolmo di una ‘filantropia’ universale e che non esclude nessuno, possa essere designato sul terreno dell’ellenismo, ce lo insegna il terzo dei nostri evangelisti (Luca 6:35), là dove è detto: “Amate i vostri nemici… e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è chrestós”. Il vero e autentico figlio, il figlio stesso, è dunque anch’egli ‘chrestós’ (cfr. Efesini 5:1 e Giustino, Apol. 1:15,13). Curioso che, secondo lo scrittore romano di 1 Clemente 14:4, i ‘chrestoí’ saranno gli abitatori della terra, mentre tali ‘chrestoí’ non sono nominati nell’altrettanto romano ma piuttosto giudaizzante vangelo secondo Matteo (5:4), il quale intorno al 165 nelle Omelie Clementine di Pietro, dopo che ancora a metà del 2° secolo Giustino martire aveva citato come parola evangelica “divenite chrēstoí”, si astiene, in opposizione ai marcioniti antigiudaici con le loro “sinagoghe di Gesù il Chrestós”, dal termine ‘chrestós’, sostituendolo (Hom. 3:57) con ‘agathós’ (buono), e dice di Pietro (Hom. 15:5) che egli ha spiegato “la dottrina della filantropia”, insegnando nondimeno (Hom. 12:32) che “il Giusto” si sforza di amare anche i nemici, e che “costui” prega persino per i nemici. È chiaro che ciò significa una reazione giudaizzante: da un lato dipendenza dall’ellenismo più recente e cosmopolita, dall’altro ritorno a una giudaicità più contenuta, nella quale in particolare il Padre d’amore rimane chiamato il Signore giusto e perciò non vi è posto per il vero e autentico Figlio dio-umano. Plutarco collega (nella sua Vita di Aristide 27:9) “filantropia e bontà (chrestótēs)”, allo stesso modo in cui ancora in Tito 3:4 leggiamo che “la bontà (chrestótēs) e la filantropia apparvero”; e della morte infamante, preparata da empi servi del Signore al giusto che soleva chiamare Dio suo Padre, aveva già parlato la Sapienza alessandrina (Sapienza 2:12-20). Così anche per Filone il vero e autentico spirito di fraternità è uno spirito che deve ancora venire. “Ciò che il santissimo profeta”, dice egli al §15 del già menzionato scritto sulla filantropia, “cerca di realizzare con tutta la sua legislazione, è in generale concordia, comunione, collaborazione e uguaglianza d’animo, grazie alle quali famiglie e stati, popoli, terre e l’intero genere umano giungerebbero alla felicità suprema; ma finora ciò è rimasto un pio desiderio. E tuttavia, di questo resto convinto, ciò si realizzerà davvero un giorno, quando cioè Dio, come concede a suo tempo il raccolto, invierà sovrabbondanza di virtù. Possiamo ‘noi’ ancora vivere per vedere questo, noi che, per così dire, l’abbiamo atteso fin dall’infanzia!” Richiamandosi a Genesi 49:18 egli osserva al §27 del suo scritto sull’agricoltura che lo scrittore sacro vi esprime l’attesa della salvezza di Dio; e in un trattato sui sogni ispirati (1:41) dice, fra l’altro, che Dio talvolta assume la figura di un uomo per soccorrere coloro che lo hanno invocato; che per Dio è più facile farsi uomo, che per un uomo farsi Dio, egli lo afferma nel suo scritto ‘ambasciata a Gaio’ (§16). “Al confine sta il Nobile, cosicché propriamente non è né Dio né uomo, ma tocca gli estremi: per la sua umanità appartiene alla stirpe mortale, per la sua virtù a quella immortale” (‘Sui sogni’ 2:34). “L’uomo di Dio!” (Conf. L. 11). “L’uomo ideale!” (ibid. 28). “Benché esistente, è rimasto nascosto a noi indegni” (‘Sul cambiamento dei nomi’ 4).
NOTE
[1] Riguardo ai “Naasseni” provenienti da Alessandria, o crestiani gnostici a Roma, afferma più tardi Ippolito (5:7): “Secondo loro, infatti, l’Egitto è il corpo”.
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