mercoledì 24 settembre 2025

Gerard Bolland: FILOSOFIA DELLA RELIGIONE — Il Dio della fede ecclesiastica e il Deus philosophorum. I

 (segue da qui)


XI.

Il Dio della fede ecclesiastica e il Deus philosophorum. [1

I.

La credulità in sé è convinzione senza riflessione e può essere scossa da domande sulle sue “fondamenta”. [2]  

Abbiamo già osservato che nessuno può fare a meno della fede, poiché ciò implicherebbe che l'uomo non possieda immaginazione. Ma qui, con fede, si intende la rappresentazione emotiva, e in questo contesto possiamo dire che nessuno può svilupparsi scientificamente senza perdere qualcosa della propria fede.  

Per cominciare, conosciamo la vita dell’arte, una vita piena di sentimento, in cui si cerca la bellezza e il piacere dei sensi, ma che tuttavia rimane priva di convinzione, perché una convinzione riguarda la verità. E persino nella poesia, l'arte del verso, dove questo potrebbe essere negato, essa rimane una vita per e nei sensi.  

La religione si trova in una condizione simile, sebbene in un senso secondario. La religione è già qualcosa di molto più elevato e nobile dell’arte: qui entra in gioco la convinzione. E sebbene il professor Bolland ritenesse che alla Libera Università si riuscisse piuttosto bene a sopprimere molte cose alla luce del modernismo, le università statali hanno dimostrato che nella scienza libera la fede deve necessariamente scomparire. A scapito della nostra vita! Perché anche la scientificità in sé non è tutto.  

Lo sviluppo del nostro lato più elevato avviene in tre modi: nell’arte, con il sentimento come nota fondamentale; nella religione, con l'accento sulla fede, e nella conoscenza (scienza), che però è ancora priva di comprensione o filosofia. Poiché la conoscenza non è ancora pronta per la pura comprensione, essa è destinata a giungere a un limite. Oggi gli uomini di scienza sanno troppo per poter essere felici, così come l’uomo della pura comprensione finisce per comprendere troppo.  

Sebbene l'erudizione abbia a che fare con un'umanità superiore, non si può restare ancorati ad essa senza mancare di riflessione. E da questo punto di vista, anche se i dogmi della Chiesa possono essere considerati non meditati, dobbiamo andare oltre e comprendere, almeno provvisoriamente, che la questione è stata esaminata solo da un lato. Se la ragione non può accettare i dogmi come credibili, l’altro lato interroga il significato delle verità di fede e può trasformarle in una sorta di simbolismo, che riesce a scoprire profondità di grande interesse.  

Tuttavia, anche dal lato della comprensione, la fede può essere attaccata, e la ragione, producendo conoscenze ostili, può scuoterla più facilmente. Alcuni studiosi sono rimasti credenti, e si richiede erudizione anche per i credenti, ma, per dirla nel modo più delicato possibile: il professore riformato più severo non sarà credente nello stesso modo del contadino del Veluwe.  

Il Dio della fede ecclesiastica e lo Spirito, giunto alla consapevolezza nella pura ragione, si rapportano l'uno all'altro come la rappresentazione si rapporta al concetto. Questo non significa che il Dio della fede ecclesiastica sia solo una rappresentazione. Se, ad esempio, consideriamo il rapporto tra uomo e donna in termini di attività e passività, ciò non implica che la donna sia solo passività. Il rapporto non può essere fissato rigidamente, ma l'autoconoscenza si realizza solo nella misura in cui riusciamo a concepirlo. Ma tutto è in tutto: uomini e donne sono lo stesso e possiedono lo stesso, come opposti sviluppati; il rapporto può essere invertito, ma non fissato. Dobbiamo pensarci in modo tale che emerga anche l’opposizione.  

Lo stesso vale qui. Non c'è purezza di ragione al di fuori delle rappresentazioni, e nessun dio ecclesiastico così basso da essere solo oggetto di immaginazione e non frutto di un pensiero ragionato. Ma dobbiamo porre accenti, enfasi. Questo rende la fede una questione delicata, con il rischio di andare in pezzi ogni giorno. Mai come oggi si è avuto così timore di confrontarsi con l’erudizione incredula, il che è, in un certo senso, un elogio della scienza moderna. E in effetti c’è motivo! Se non possiamo più credere letteralmente a eventi come l’ascensione al cielo, la fede può ancora durare per un po’, ma è ormai intaccata.  

Ma lo Spirito, giunto alla consapevolezza nella pura ragione, è ora un oggetto del nostro pensiero, oppure è lo spirito di noi stessi che ha raggiunto la consapevolezza?  

Bisogna cercare le ambiguità per diventare saggi. Esso è l’infinità incorporea e, al contempo, il nulla totale di noi stessi come esseri umani. Così chiamiamo il Dio dei filosofi, che tuttavia è strettamente connesso al Dio della fede ecclesiastica.  

Ma che cos’è “lo Spirito”?  

Lo Spirito è la realtà incorporea, che non è nulla per la propria visione e immaginazione, poiché presuppone e include ciò che può essere rappresentato, per poi trascenderlo. E questo sia dal lato dell’infinità che da quello del nulla.  

Spesso si obietta al filosofo che allora non dovrebbe più usare la parola Dio. Ma su ogni parola cento persone hanno cento pensieri diversi. Questa è la vera ragione delle dispute, la cui causa principale è però la differenza di interessi. Non si tratta quindi solo di un malinteso, ma di un fraintendimento deliberato e intenzionale, per cui un conflitto diventa una divergenza di interessi. Inoltre, si potrebbe pensare che le persone dovrebbero capirsi meglio, eppure ognuno è sempre confinato nella propria sfera di pensiero. [3] Eppure, siamo anche in grado di comprenderci, ma ognuno capisce a modo suo e porta con sé da questa discussione solo ciò che può portare.  

E perché essere così inflessibili proprio in questo unico caso specifico? Perché disapprovare il fatto che un filosofo usi la parola Dio? È proprio una fortuna che così si possa ancora attenuare qualcosa per la moltitudine, che nella sua unilateralità tende spontaneamente a identificare il Deus philosophorum con il Dio della fede ecclesiastica.  

Tuttavia, esiste già immediatamente una distinzione, ovvero attraverso gli accenti posti sull'immaginazione e sulla comprensione. Ciò che è compreso è sempre diverso da ciò che è creduto e venerato. Ma si può davvero venerare ciò che è stato compreso? Se ne ragiona equamente, ma non lo si guarda più con meraviglia o ammirazione (ossia, con una meraviglia rivolta verso l’alto). Nella comprensione, tutto è neutro, e anche il rispetto non regge più nel filosofo, che nella sua calma e serenità non mostra né derisione né scherno.  

Se comprendiamo ciò che la fede chiama Dio, allora abbiamo trovato ciò che è altro da noi stessi. Questo concetto è espresso magnificamente in Atti 17:27. All'inizio cerchiamo Dio, ma Dio è in tutti noi, e non parla a noi, ma in noi. Tuttavia, la fede non si accontenta di questo; essa desidera un’apparizione, che il filosofo non cerca più. E nell'infinito non viene data alcuna risposta; a volte ciò risuona come un grido disperato: “Dio non risponde!” Tuttavia, l'infinità della realtà incorporea non può essere ridotta a nulla in noi e può parlare agli altri attraverso di noi.  

Questa rivelazione tramite gli altri dobbiamo cercare di comprenderla il più possibile. “Guai a te, che sei un angelo”, si legge nel Faust. [4] Eppure, d’altra parte, questa maledizione può essere vista anche come un privilegio, se ci confrontiamo con i nostri antenati. Dobbiamo imparare a concepirci come temporalità dell'eterno, fugacità dell'incorruttibile, nullità dell'infinito. Le nostre coscienze sono differenziali, nullità prive di realtà, grandezza o quantità, casi svanenti dell'infinito. Questa consapevolezza non ci rende arroganti, e non ci considereremo più Dio.  

“Cercate e troverete”, dice Matteo 7:7. E Clemente di Alessandria, nelle sue Stromateis, [5] cita un passo di quello che chiama il Vangelo degli Ebrei, un vangelo perduto di ebrei greci in Egitto, il cui contenuto è stato ritrovato alcuni anni fa in un papiro: [6] “Chi cerca non deve fermarsi finché non ha trovato, e quando ha trovato sarà stupito; quando sarà stupito, regnerà; e quando sarà diventato re, troverà riposo”.  

Poiché la gloria di Dio si risveglia nella consapevolezza di sé, quando si impara a comprendere in sé la pensabilità purificata di Dio, pur senza mai illudersi in modo folle di essere uguali a Dio. Il saggio, infatti, è immune dalla follia, poiché egli considera del tutto naturale anche il peggio; eppure, come è possibile addormentarsi e morire, è anche concepibile cadere in uno stato di torpore o confusione. Certamente si può diventare folli prima di essere saggi, perché lo studio necessario richiede un corpo forte; in questo senso, Bolland ha affermato che, senza il suo corpo robusto da facchino o portatore di carichi, probabilmente non sarebbe mai diventato saggio.  

Se diciamo: Io stesso sono una fugacità di Dio, una temporalità dell’eterno, una fugacità dell’incorruttibile, allora nella saggezza troviamo l’equanimità. Il senso è che dalla limitatezza non si può dedurre tutto; la nullità umana va oltre la pura realtà, e dalla realtà non si può trarre alcun concetto di invisibilità.  

Questa ultima riflessione su Dio ha portato alla considerazione che Dio non ha mai parlato ai profeti, ma piuttosto in loro o attraverso di loro. E anche se nessuno di noi è degno di venerazione, poiché anche il migliore tra noi si coprirebbe di vergogna se il suo intimo fosse completamente rovesciato e mostrato all'esterno, rappresentiamo comunque qualcosa di migliore. Oggi è facile imparare a non coltivare la pietà. Ma Bolland, “che non si considerava perfetto, poiché ciò che è inferiore non può mai identificarsi con ciò che è superiore”, ha sempre insegnato: non smettete di venerare ciò che è più elevato, anche se la persona in questione non è priva di imperfezioni.  

Ma se Dio parla attraverso i profeti, che cos’è Dio? Questa domanda è antica; la troviamo già nel 1° secolo in Seneca lo Stoico, che nelle sue Quaestiones Naturales risponde: “mens universi”, la coscienza (o l’Io) dell’universo, l’Io assoluto. Dio non è una persona. Non perché l’essenza divina non possegga personalità, ma perché essa si realizza in ogni personalità, per poi trascenderla. Pensiamo ad Atti 17:27: non possiamo trovarlo, ma possiamo viverlo. Pensando Dio, lo spirito umano si riflette nella natura. Il pensiero di Dio è un pensiero umano, del quale non si può dimostrare solo negativamente che Dio non esiste. L’infinito non scompare nella nostra nullità, così come non è mai apparso; questa è la permanenza dell’idea di Dio.   

La fede ecclesiastica sconvolta non cerca più Dio, ma il nascosto, l’occulto, che diventa allora molto interessante. Ad esempio, Eusapia Paladino Bolland la trovava miserevole; non aveva capito nulla della sua vita. Ma devono essere vere le sue prodezze? Dal punto di vista scientifico e filosofico, si può discutere della sua forza come forza dell’anima, come una categoria intermedia tra la forza corporea, che si può ancora misurare, e la forza spirituale, che invece non si può più misurare. Se si chiede: “Da dove viene la forza di Eusapia Paladino?”, possiamo rispondere con un'altra domanda: “Da dove viene un comune magnetismo?” Non bisogna cercare nervosamente il divino nascosto dietro di essa, come fosse una pseudo-religione. Quanto era più degna la fede dei padri! Ora esiste già una società nel nostro paese per investigare queste cose. Ma ciò che scopriranno si può già prevedere: qualche colpetto sul tavolo. “Ma lei può spiegare questo?” chiesero a Bolland. Ed egli rispose: “Perché dovrebbero essere spiegate proprio le miserie? Io spiegherò la pura verità”. Avrebbe voluto farlo nell’ultimo anno della sua cattedra, pensando: “Me ne vado, e ora non ne sentiremo mai più parlare’. [7

Dunque: Dio non è una persona. Persona è l’unità di naturalità, sensibilità e spiritualità nella completa nullità. Certo, non è una ristrettezza assoluta e può comprendere molte cose, ma non il concetto di Dio. Ora, Pio X, un uomo santo ma limitato, disse nel 1907, o meglio, gli fecero dire, che i modernisti cattolici romani sbagliavano a non considerare la personalità di Dio. Ma Tommaso d’Aquino ha detto che il termine persona per Dio è usato solo in senso traslato: nomen personae non dicitur de Deo nisi metaphorice, [8] e anche: Deus est in omnibus. [9]

La dottrina della divinità (uno nella sostanza e trino nelle persone) è ancora meglio della fede. L’immagine della persona come unità di essenza non significa unità di persona. Ora, la dottrina cristiana non è la verità, ma la rivelazione della verità. Anche se il dogma non è ‘vero’, è comunque profondo e saggio. Nessuno al mondo ha mai riflettuto seriamente su di esso senza diventare più saggio. Anche se la pietà etica, come quella di Utrecht, non vi crede, questo dogma è la perla e il gioiello della religione cristiana. In linea di principio, potremmo prendere per le tre persone trecentomila persone: l’essenza di Dio non è una persona, ma la ristrettezza della persona si fa sentire nel desiderio del devoto che Dio vegli sulle nostre sofferenze e difficoltà, sui nostri fardelli e sulle nostre preoccupazioni. Il devoto ha bisogno di compassione. Come tutti gli uomini, anche Bolland ne aveva bisogno, ma diceva che nei nostri momenti migliori, quando ci siamo purificati, non abbiamo più bisogno di consolazione e rinunciamo a guardare in alto, verso l’alto, con preghiera. 

La fede, quando ascolta la pura ragione, la trova inizialmente scandalosa… per cominciare. Ma l’incredulità desidera una negazione unilaterale e non si sente soddisfatta nemmeno essa; ed è proprio da questo che riconosciamo la parola imparziale della pura ragione: non compiace nessuno dei due e rimane serenamente sola.  

Deus est in omnibus. Ma il numero presente in ogni cosa non rende il numero il principio di tutto, il tutto in principio come un mero fatto matematico. Questo può valere per il relativismo matematico dei nostri giorni. E poiché siamo nullità dell’infinito, possiamo immaginarci fuori da esso e lasciare l’infinito unilateralmente a sé stesso. Tuttavia, non possiamo nemmeno immaginarci completamente fuori: la natura è il divenire eterno dell’altro di Dio. Questa dottrina non è teismo, eppure implica anche una condanna di un panteismo unilaterale. Perché ogni cosa ha un valore relativo, e sebbene Dio non sia la natura, Dio è in tutto o tutto è in Dio, anche se questo non rende ogni cosa Dio. Natura e Dio sono l’ignoto e l’inconosciuto in rapporto al terreno e al sublime. E abbiamo già appreso che Dio è il principio spirituale che eleva l’uomo comune al di sopra della sua quotidianità e animalità. 

Con una tale affermazione si indica più il valore che la verità di Dio, indipendentemente dalla dottrina religiosa. Questo valore diventa evidente quando percepiamo quanto sia terrificante il nostro declino negli ultimi 25 anni. Eppure, non siamo diventati peggiori di quanto già eravamo; non siamo né migliori né peggiori dei nostri antenati: l’ereditarietà se ne occupa, cioè l’alternanza o la differenziazione degli individui come identità. Una balena non genera un gatto, e quindi nell’ereditarietà non dobbiamo vedere qualcosa di mistico; è del tutto ‘naturale’ che un asino non sia il padre di una pecora. D’altra parte, la razza si perpetua nell’ereditarietà in modo variabile, e così come ogni essere vivente individuale è una costante transitorietà, anche la razza è una transitorietà costante; anche specie e generi nascono e scompaiono nella realtà dell’auto-perpetuazione attraverso l’auto-trasformazione. [10]

Ora, se la religione ha un valore a cui attribuire valore, allora ha anche una sua verità. Quando le ingenuità religiose si dissolvono, si giunge con fermezza di principio al deus philosophorum. Ma, così come i nostri stomaci non possono vivere solo di estratti o decotti, nemmeno Bolland poteva vivere solo della pura ragione. Tuttavia, la massa, che riceve una soluzione diluita, ottiene comunque qualcosa di buono. E che nel cristianesimo sia avvenuto qualcosa di buono lo vediamo nell’uomo comune, che non ha più nulla da temere, e si rivela per quello che è sempre stato: privo di coscienza.  

Poiché i nostri atteggiamenti e comportamenti possono variare nei diversi tempi. Oggi domina l’egoismo, la spregiudicatezza. Certo, la dedizione è sempre stata scarsa, e l’uomo è per natura poco incline alla virtù, ma ora si dice: Abbiamo amato abbastanza a lungo, ora andiamo a odiare. E la smoralizzazione avanza sotto il motto: progresso! Qui si rivela il grande valore della religione per i nostri padri rispetto alla folla odierna senza Dio, la folla empia che abbiamo definito: bestiame intelligente. [11] Dio è infatti il ​​principio spirituale che può innanzitutto elevarla al di sopra della sua quotidianità e della sua animalità.

Eppure, rimane la domanda: che cos’è Dio? [12] Ma possiamo riflettere su di essa con gradi diversi di chiarezza. Dio è il noto, che viene venerato come l’inconoscibile e il terribile, la verità potente che fluttua come un’immagine non pensata nella fantasia sensibile. E lo spirito che, nella sua ricerca di libertà, giustizia e moralità, trascende la bellezza per arrivare al puro sacro come al vero, si è elevato molto al di sopra della sua natura. “Noi sappiamo,” dice Hegel, “che nella religione ci sottraiamo al temporale, e che essa è per la nostra coscienza la sfera in cui tutti i misteri del mondo trovano spiegazione, tutte le inquietudini dello spirito meditativo si dissolvono, il luogo dove ogni sofferenza dell’animo si placa, il dominio della verità eterna, della pace eterna, del riposo eterno. Tutto ciò che per l’uomo ha valore e dignità, tutto ciò in cui egli pone la propria felicità, la propria gloria, il proprio orgoglio, trova il suo nucleo più profondo nella religione, nel pensiero, nella coscienza, nel sentimento di Dio. In questa relazione, l’uomo non si preoccupa più di sé stesso, del proprio interesse, della propria vanità, ma si volge allo scopo assoluto. Tutti i popoli sanno che la coscienza religiosa è la coscienza in cui possiedono la verità, e hanno sempre considerato la religione come la loro dignità e come la domenica della loro esistenza.  

Tutto ciò che ci angoscia e ci preoccupa, tutti i ristretti interessi della finitezza, li lasciamo dietro di noi sulla riva sabbiosa della temporalità. E proprio come, salendo sulla vetta più alta di una montagna, ci eleviamo sopra ogni visione limitata delle cose e contempliamo con serenità tutte le restrizioni del paesaggio e dell’universo, così anche l’uomo, innalzandosi sopra l’asperità di questa realtà, la considera con l’occhio dello spirito come una semplice apparenza, che in questa pura sfera si riflette, attenuata nella sua differenziazione e nelle sue sfumature, nella luce della pace eterna. In questa dimensione dello spirito scorrono i fiumi dell’oblio, da cui beve Psiche, lasciando sprofondare in essi ogni dolore; le oscurità della nostra vita qui si dissolvono in un’immagine onirica e si trasformano in un contorno evanescente per la luce e il fulgore dell’Eterno”.


NOTE AL CAPITOLO XI.

[1] I Libri dei Proverbi 1:84, 922, 266, 913; 11:282.

[2] Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II, 1458–1464): “Cui plura nosse datum est, eum majora dubia secuntur” [=“A colui a cui è dato conoscere di più, lo seguono dubbi maggiori”] (Rhet. II). Schopenhauer: “Alla fede non si giunge da filosofi” (N. 4:253).

[3] Il ventenne Schelling: “Mai più il saggio farà ricorso ai misteri per nascondere agli “occhi profani” i suoi principi fondamentali; nascondere dottrine che possono essere comunicate a tutti è un delitto contro l’umanità. Ma la natura stessa ha posto limiti alla comunicabilità: essa ha riservato a coloro che ne sono degni una filosofia che diventa di per sé segreta, poiché non può essere appresa dall’esterno, né ripetuta a memoria o simulata, né ripetuta da nemici occulti o da spie, — un “simbolo” per la lega degli spiriti liberi, mediante il quale essi si riconoscono tutti a vicenda, che non hanno bisogno di nascondere, e che tuttavia, per loro comprensibile, rimane per gli altri un enigma eterno” (1:341).

[4] Faust, v. 1977.

[5] Clemente Alessandrino, StromatI 5:14.

[6] Un frammento di Ossirinco scoperto nel 1903 recita: “Non si dia pace chi cerca, finché non avrà trovato; e quando avrà trovato, resterà meravigliato; se si sarà meravigliato, allora regnerà; e se sarà divenuto re, allora tornerà a riposarsi.

[7] Purtroppo non è stato possibile, e l’ultimo collegium logicum fu tenuto nel 1914–1915.

[8] Summa Theologiae I, 29, 3.

[9] Ibid. I, 8, 1.

[10] Cfr. Spreuken 1:484 con nota.

[11“Belua multorum capitum” [=“Mostro dalle molte teste”]. Orazio, Epistole I, 1:76.

[12] Goethe a Eckermann, 1° settembre 1829: “La natura di Dio, l’immortalità, l’essenza della nostra anima e la sua connessione con il corpo sono enigmi eterni, nei quali i filosofi non ci fanno avanzare”. Discorso di Leida: dobbiamo andare oltre, o ritornare a noi stessi? E la ragione pura ha infatti qualcosa da osservare circa la “natura” di Dio, come pure a proposito di quanto segue.

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