(segue da qui)
10. La Storia Successiva del Paolinismo.
Con tutte le loro arroganti pretese e con tutti i loro strumenti di frode e di violenza, le grandi Chiese chiamate cattolica e ortodossa non sono mai riuscite per un momento a recare nella loro unità neppure la totalità di coloro che si definiscono cristiani. “Eresie e scismi” ci sono sempre stati e, nonostante le persecuzioni, la loro vita si è sempre rinnovata. In questa successione “l'Apostolo degli Eretici” ebbe un ruolo importante. Dopo gli Gnostici dei primissimi secoli cristiani, che furono i primi ad associarsi al nome di Paolo, vennero i Manichei, nelle cui dottrine ci furono elementi cristiani della stessa derivazione. [1] Poi, dopo la vittoria della Chiesa, sopravvissero ai margini dell'Impero d'Oriente i Pauliciani, [2] il cui insegnamento alla lunga, mediante un processo complesso, raggiunse l'Occidente nell'undicesimo e dodicesimo secolo. L'episodio in cui la loro eresia fu stroncata è, per consenso generale, il più atroce negli annali persino del cristianesimo. Vi continuarono nondimeno gruppi ostili alla grande Chiesa, ma con una differenza. La tendenza ora cominciò ad andare nella direzione del moderno protestantesimo. Ma come prima, così ora, si cercò una base negli scritti attribuiti all'Apostolo Paolo.
Qui avviene una curiosa transizione, su cui non ci si è soffermati abbastanza, anche se Gibbon la percepì chiaramente. Al Paolo antigiudaico degli Gnostici è sostituito il Paolo essenzialmente giudaizzante delle Chiese protestanti. che nelle Epistole ci siano passi giudaizzanti va naturalmente ammesso; ma sembra probabile che i quasi contemporanei Gnostici avessero una percezione più vera della prospettiva generale del loro Apostolo ideale rispetto ai successivi venuti come i precursori trecenteschi di Lutero e di Calvino. I protestanti moderni hanno interpretato il loro Paolo alla luce del canone veterotestamentario accettato dai rabbini e con l'aiuto di una teoria giuridica del sacrificio di Cristo elaborata da dottori cattolici come Anselmo. I Pauliciani del dodicesimo secolo erano ancora dell'antico tipo gnostico, professando un dualismo per cui il Dio degli ebrei era un essere subordinato, se non malvagio. Nel quattordicesimo secolo ha cominciato a emergere un nuovo tipo di Paolinista, che non è da meno a nessun salmista o profeta ebraico nella devozione a Jahvé; nel sedicesimo e diciassettesimo secolo il tipo appare definitivamente. Meno interessante dal punto di vista speculativo, la nuova dottrina si è dimostrata di fibra più dura dal punto di vista pratico. Con il Paulicianesimo del Medioevo essa aveva, però, un aspetto in comune. Contro la tirannia dei preti e dei despoti essa mostrava, man mano che la sua forza crebbe, qualcosa dello spirito della teocrazia insurrezionalista, “il potere di distruggere le fortezze” (2 Corinzi 10:4). Inoltre, poiché negava i poteri soprannaturali dell'antica gerarchia, espulse in pratica il “perdono dei peccati”. Colui che aveva “fede” poteva anzi credere che i suoi peccati fossero “perdonati” tramite Cristo; ma, dopotutto, egli era indotto a soddisfare la propria coscienza, che, come dice Kant, è più esigente di un confessore; nessun altro poteva dirgli che era assolto. L'incarico agli Apostoli e ai loro successori di “rimettere” i peccati o di “trattenere” loro era di fatto annullato. Questo fu un immenso guadagno per il progresso morale, sebbene la nuova dottrina della “sola fede” non fosse di per sé più profonda della vecchia dottrina delle “opere” religiose, cioè degli esercizi devozionali. Il lato insurrezionalista della dottrina era altrettanto benefico. Il diritto divino dei re fu infatti predicato con ancora più zelo e senza riserve dagli ecclesiastici protestanti che da quelli cattolici, quando la sovranità papale era scomparsa e c'erano le Chiese di Stato protestanti; ma il genio della nuova forma di cristianesimo lo insediò. La distruzione dell'assolutismo politico fu iniziata dalle nazioni protestanti.
In questo preludio di rivoluzione, è giusto ammettere che la lettura dell'Antico Testamento non fu priva di effetti. Le Scritture ebraiche contengono, invero, l'idea di una teocrazia legittimista; ma esse contengono pure, più efficacemente di ogni altra cosa in Paolo, le idee di teocratici in rivolta, i quali non obbediranno ad altro che a un sovrano invisibile, e che sono persino sul punto di rifiutare la sottomissione ai sacerdoti come propri interpreti. Non che suddette idee abbiano il minimo valore positivo per la fondazione di una costituzione. Lo sviluppo della politica inglese, per esempio, sarebbe stato impossibile senza la base strutturale degli antichi diritti teutonici o o di altri diritti consuetudinari, rafforzati da concezioni intellettuali dello Stato, derivate non dalla Giudea, ma dalla Grecia e da Roma. Tuttavia, senza l'elemento del fervore ebraico, tutto sarebbe potuto finire nell'antiquarianismo e nelle reminiscenze letterarie. La sacralità della “monarchia cristiana”, così come appariva ancora all'immaginazione devota e fedele del diciassettesimo secolo, doveva essere contrastata dalla forza popolare di un'emozione religiosa sull'altro lato.
Così, a pochi passi, ci siamo allontanati dalle origini e siamo arrivati al momento dell'irrevocabile disfacimento del cristianesimo su scala mondiale. Da questo momento in poi esso si è anche confrontato nel suo insieme col pensiero libero o indipendente. Se riattraversiamo il periodo intermedio, mentre ci avviciniamo alle origini, troviamo in superficie a questo proposito una posizione identica. La “religione rivelata” non è ancora entrata in pieno possesso del potere, che avrebbe mantenuto per oltre duemila anni ma che alla lunga ha perso, di reprimere la “libertà di filosofare”. Prima di concludere, dobbiamo soffermarci un attimo su quest'ultima fase del mondo antico.
NOTE
[1] Alcuni degli sfortunati settari fecero grandi tentativi di comprensione, come indicano le parole pronunciate dai convertiti alla “Chiesa universale” quando abiuravano i loro errori di “liberalismo” teologico: “Io anatemizzo coloro che dicono che Zarades (cioè Zarathustra) e Buddha e Cristo e Mani e il Sole siano uno e lo stesso”. La formula greca è riportata da Cumont, Textes et Monuments figurés relatifs aux Mystères de Mithra, 1 (1899), pag. 349, num. 5, che la cita da Kessler, Mani (1889), pag. 404.
[2] “I nemici della setta dei Pauliciani fanno derivare il nome della medesima da qualcuno degli oscuri uomini che la predicarono; ma sono sicuro che tal nome i Pauliciani assumessero, come gloriosa testimonianza della loro devozione all'Apostolo dei Gentili” (Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano, 54, ed. Bury, vol. 6, pag. 112).
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