(segue da qui)
8. Paolinismo.
La primissima espressione letteraria del cristianesimo, anche se non il primissimo tipo di dottrina, fu il Paolinismo. Coloro che cominciarono a proporre un cristianesimo speculativo nel nome di “Paolo” furono i primi cristiani a scrivere, proprio perché furono gli innovatori. Le Epistole che formano la nostra raccolta emersero da una letteratura paolina composta da brevi esposizioni dottrinali ed esortazioni. Esse non differiscono essenzialmente dalle altre antiche epistole cristiane, che non furono mai lettere reali, ma, fin dall'inizio, composizioni edificanti attribuite a uomini di fama del passato, recanti segni inconfondibili del presente a cui esse appartengono.
Questa tesi, che è quella di Van Manen, esposta in parte nelle sue stesse parole, io la accetto; ma è necessario qualche aggiustamento in relazione alla diversa posizione che sono stato costretto ad assumere nei confronti dello stesso cristianesimo più antico. La modifica necessaria, però, è sorprendentemente piccola.
La prima domanda che sorge è: chi fu questo “Paolo” a cui furono attribuiti sviluppi dottrinali e poi relative esposizioni epistolari? Secondo Van Manen, lui fu uno di coloro che erano stati convertiti dai discepoli di un Gesù reale al credo che egli fosse il Messia. Il nuovo “apostolo” (per adottare il termine successivo) fu particolarmente attivo nei viaggi missionari e quindi fu ricordato con maggiore vivacità rispetto agli altri. Alcuni di quei membri delle comunità cristiane che, verso la fine del primo secolo o all'inizio del secondo, si stavano allontanando dalle idee strettamente giudaiche, si misero sotto la protezione del suo nome, forse perché l'ampio raggio della sua attività suggeriva una tolleranza maggiore verso i costumi non ebraici. Furono scritti resoconti abbelliti dei suoi viaggi, sulla base in parte di un diario di un compagno di viaggio. Di questo diario possediamo porzioni nella “narrativa del viaggio” dei canonici Atti degli Apostoli. La narrativa che possediamo è stata alquanto manipolata; ma il mantenimento della prima persona plurale indica un vero e proprio diario. Il substrato genuino che si può dedurre non è incoerente con la posizione cronologica assegnata a Paolo nella leggenda. Quindi ci fu un punto di contatto per la letteratura paolina nella vita reale di uno che visse nella generazione precedente la distruzione di Gerusalemme.
La modifica che suggerisco è questa: Il Paolo che fu ricordato non fu davvero un associato dei discepoli di un Gesù reale, ma appartenne a un gruppo di propagandisti messianici del giudaismo. Alcuni di questi gruppi devono essere stati ricordati vagamente, e i “Cristiani” nel nostro senso (che sorsero dopo la distruzione di Gerusalemme) avrebbero naturalmente fatto uso dei loro nomi, trasformandoli in discepoli del Gesù personale in cui credettero. L'“età apostolica” era dunque leggendaria, ma non del tutto mitica. Senza dubbio ci sono elementi considerevoli di puro mito, specialmente nel caso di “Pietro”, l'apostolo “roccia”. E, in effetti, delle figure che rimangono, nessuna ha la minima credibilità, tranne Paolo. Tuttavia, nel Paolo degli Atti e della letteratura epistolare vi è lasciata una figura la quale ha il grado di realtà da ricercare nel romanzo storico. Si tratta del personaggio del suo processo davanti a Festo. Al pari del processo di Apollonio di Tana davanti a Domiziano, può darsi che non rappresenti alcunché che fosse realmente accaduto; ma fu composto in relazione a un personaggio reale e presenta alcune circostanze di un possibile processo. Non si tratta semplicemente di una trascrizione di un Dramma Misterico. Il Paolo che visse realmente potrebbe aver viaggiato fino alla Grecia e all'Italia, e potrebbe essere stato infine perso di vista a Roma. Al di là della narrativa frammentaria di un unico viaggio preservato negli Atti, non c'è però alcuna speranza di ricostruire la sua storia.
Anche questa tesi, che per quanto riguarda Paolo non differisce sostanzialmente da quella di Van Manen, non è assolutamente necessaria per spiegare la letteratura paolina. Considerando attribuzioni simili prima e dopo, potremmo essere propensi a dire che una personalità puramente fittizia basterebbe. Eppure la raccolta di narrative circostanziali negli Atti degli Apostoli sembra indicare nel complesso una visione di questo tipo. Queste narrative sono infatti piene di miracoli; ma sembrano meglio spiegate sull'ipotesi che si trattino di leggende emerse dall'attività propagandistica di ebrei messianici prima della distruzione di Gerusalemme, piuttosto che liquidarle tutte come semplici storie di miracoli attorno a personaggi “simbolici”.
Per un resoconto più completo dello sviluppo dottrinale chiamato “paolinismo”, rimando all'esposizione che segue. I tratti salienti del vangelo paolino sono, naturalmente, l'insistenza sulla “fede” che in Gesù è venuto “il Cristo” e sulla “grazia” che è data agli uomini per credere. Questa grazia e questa fede sono le condizioni della salvezza personale. Il Cristo di Paolo, il “Figlio di Dio” in cui è richiesta la fede e da cui proviene la grazia, è l'espressione di un soprannaturalismo più elevato di quello degli antichi messianisti. Lo sviluppo è speculativo piuttosto che mitico o apocalittico. La scuola giovannea, approfondendo ciò, diede soddisfazione anche all'immaginazione concreta che sentì il bisogno di combinarvi la credenza nella realtà di un “Cristo secondo la carne”. Per “Paolo” sarebbe stata sufficiente una manifestazione carnale del “Cristo” semplicemente apparente; nelle Epistole ci sono indizi di quello che in seguito fu chiamato “docetismo”. La scuola di “Giovanni”, evitando questo sviluppo, conciliò gli “ortodossi”, cioè vale a dire coloro tra i capi che istintivamente percepivano l'importanza, per governare l'umanità, di attenersi alle preferenze della folla, la quale evidentemente non poteva lasciar perdere il commovente Gesù concreto, l'equivalente del Tammuz o dell'Adone dell'antico culto semitico. La mitologia religiosa popolare, in quanto distinta dalla mitologia filosofica degli Gnostici cristiani, a cui di per sé tendeva il Paolinismo, fu così salvata. Allo stesso tempo, “Giovanni” introdusse più esattezza di “Paolo” sul piano filosofico della mitologia. L'idea alessandrina di un Logos mediatore, o Ragione creativa, tra il Dio supremo — della filosofia e del giudaismo — e il mondo e l'uomo, fu applicata in un senso particolare a Gesù Cristo. L'uomo di carne e sangue e l'essere divino dovevano essere concepiti come misticamente uniti. E il Logos non era semplicemente un potere o un aspetto di Dio, ma era Dio. Così si poneva il problema, in seguito portato ad una soluzione ortodossa nella formula nicena. In ogni soluzione ammissibile, il monoteismo ufficiale doveva essere trattenuto. La coscienza cristiana media fu troppo giudaica per consentire un vero e proprio “secondo Dio”. D'altra parte, la teologia cristiana, man mano che veniva messa più in contatto con le scuole, operò necessariamente sotto il dominio dell'idea triadica, la quale allora affascinò gli intelletti speculativi. Un altro potere mediatore fu perciò necessario per completare la triade divina. Questo si trovò nello Spirito Santo (il Pneuma), una concezione che apparve pure in linea col giudaismo alessandrino. Non c'è bisogno di approfondire il processo complesso mediante il quale la logica formale, da un lato, e lo spirito di accomodamento pratico, dall'altro, operarono per produrre dai dati sparsi del Nuovo Testamento il dogma di tre “persone” o “ipostasi” co-eguali in un unico Dio. Può bastare dire che il tipo di soluzione si trova implicitamente in “Giovanni”. “Paolo” ammetteva uno sviluppo speculativo più variegato. Cosa doveva accadere, allora, del movimento di avanguardia della scuola paolina, il quale precedette la scuola giovannea e non fu assorbita in essa?
La risposta è data dalla storia ecclesiastica. La “Chiesa Cattolica” riuscì ad appropriarsi nominalmente di “Paolo”, ma egli non cessò mai di essere colui che era stato definito nel secondo secolo “l'Apostolo degli Eretici”. Prima di concludere questa introduzione, sarà necessario fare una piccola bozza del nuovo sviluppo mediante cui si eseguì la transizione ad un cristianesimo de-cattolicizzato. Nel frattempo, può valere la pena di prendere in considerazione uno o due indizi del fatto che la nostra raccolta delle “Epistole di Paolo”, al pari del Nuovo Testamento in generale, è di molto successiva all'anno 70. Questi indizi, in effetti, sono stati chiariti da Van Manen nelle epistole di cui si occupa specialmente: e se queste fossero abbandonate, non si potrebbe pensare seriamente di difendere le altre; mentre l'abbandono delle altre non le riguarderebbe di per sé. Pertanto, è semplicemente a titolo illustrativo preliminare e non con l'idea che i passi citati chiudano la questione, che scelgo un esempio dall'Epistola ai Galati e uno dalla prima Epistola ai Tessalonicesi.
Prendi l'allegoria delle due alleanze in Galati 4:24-26. L'antitesi all'apparenza non si applica forse a due religioni, entrambe consapevoli delle proprie rivendicazioni in quanto tali; la nuova non si considera una semplice setta dell'antica? Ma il versetto su cui vorrei attirare l'attenzione è 4:25, dove è detto, in riferimento alla Gerusalemme presente (ἡ νῦν Ἱερουσαλήμ), “perché essa è schiava con i suoi figli” (δουλεύει γὰρ μετὰ τῶν τέκνων αὐτῆς). Al contrario, “la Gerusalemme di sopra è libera ed è la madre di noi tutti”. Che senso avrebbe avuto tutto ciò mentre Gerusalemme con il suo Tempio e la sua gerarchia si ergeva, non solo sicura, ma piena della speranza di essere resa presto il centro visibile del regno di Dio sulla terra? [1]
Un passo che racconta, se possibile, più fortemente lo stesso significato è 1 Tessalonicesi 2:14—16. “I Giudei” — di cui l'Apostolo è supposto essere uno — “sono nemici di tutti gli uomini”; e “ormai li ha raggiunti l’ira finale”. L'unico interrogativo su quest'ultima espressione è se non debba riferirsi a un periodo di poco successivo al 135, quando la rivolta che era infine scoppiata sotto il regno di Adriano fu repressa. La prima potrebbe essere stata copiata da Tacito (adversus omnes alios hostile odium). [2] Il punto di vista appartiene a un cristianesimo la cui ambizione di essere una religione mondiale stava salendo così in alto che già cominciava a suscitare “antisemitismo” tra i pagani. [3]
NOTE
[1] Non si tratta, naturalmente, di un anacronismo esplicito, dal momento che gli ebrei furono sempre in varia misura sottomessi a Roma. La cessazione del culto del Tempio era troppo evidente per la letteratura cristiana antica per permettersi riferimenti espliciti da parte di Paolo all'evento, se non rivestiti nella forma di profezia. La subordinazione politica della Giudea, però, è del tutto insufficiente a spiegare il tono del passo, il quale implica chiaramente che il giudaismo è già una causa sconfitta e che il futuro dell'idea teocratica potrebbe ormai essere vista legata al cristianesimo.
[2] Historiae 5:5.
[3] L'originale va letto per apprezzare il carattere assolutamente impensabile dell'intero passo nel 54, la data tradizionale: ὑμεῖς γὰρ μιμηταὶ ἐγενήθητε, ἀδελφοί, τῶν ἐκκλησιῶν τοῦ Θεοῦ τῶν οὐσῶν ἐν τῇ Ἰουδαίᾳ ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, ὅτι τὰ αὐτὰ ἐπάθετε καὶ ὑμεῖς ὑπὸ τῶν ἰδίων συμφυλετῶν, καθὼς καὶ αὐτοὶ ὑπὸ τῶν Ἰουδαίων, τῶν καὶ τὸν κύριον ἀποκτεινάντων Ἰησοῦν καὶ τοὺς προφήτας καὶ ἡμᾶς ἐκδιωξάντων, καὶ Θεῷ μὴ ἀρεσκόντων, καὶ πᾶσιν ἀνθρώποις ἐναντίων, κωλυόντων ἡμᾶς τοῖς ἔθνεσιν λαλῆσαι ἵνα σωθῶσιν, εἰς τὸ ἀναπληρῶσαι αὐτῶν τὰς ἁμαρτίας πάντοτε. ἔφθασεν δὲ ἐπ’ αὐτοὺς ἡ ὀργὴ εἰς τέλος. Ogni clausola indica una reminiscenza, drammaticamente riferita, in bocca al presunto autore apostolico, al presente o al futuro.
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