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PENTIMENTO NELL'ANTICO TESTAMENTO
Così intesa, la forza della predicazione diventa chiara. “Pentitevi” è più propriamente “Cambiate i vostri pensieri”. Il pentimento [1] non è altro che la conversione, l'ebraico shûb, l'aramaico tûb, che significa voltarsi. Šhûbû (voltatevi) era il grido dei profeti. Voltarsi da cosa a cosa? È un grave errore supporre che si intenda principalmente una riforma morale, anche se naturalmente essa fu implicita come conseguenza. Il voltarsi era sempre un'azione religiosa: dall'idolatria al culto di Jahvé, dalla falsa religione alla vera. “Avevano inoltre servito gli idoli......tornate indietro dalle vostre vie malvagie” (2 Re 17:12, 13). “Figli d'Israele, tornate a Jahvé” (2 Cronache 30:6). “Ritornate a colui dal quale vi siete grandemente allontanati, o figli d'Israele” (Isaia 31:6). “Torna a me, perché io ti ho redento” (Isaia 44:22). “Torna, o ribelle Israele“, “Tornate o figli traviati”, “Ritornate, o figli traviati, io guarirò le vostre ribellioni” (Geremia 3:12, 14, 22). “Si converta ora ciascuno di voi dalla sua via malvagia......Eppure il mio popolo mi ha dimenticato; bruciano incenso a idoli vani” (Geremia 18:11, 15). Anche Geremia 25:5, 6 e 35:15: “Si converta ciascuno dalla sua via malvagia,......e non andate dietro ad altri dèi”. “Convertitevi, allontanatevi dai vostri idoli” (Ezechiele 14:6). “Convertitevi, convertitevi dalle vostre vie malvagie......alzate gli occhi verso i vostri idoli” (Ezechiele 33:11, 25). “O Israele, torna a Jahvé” (Osea 14:1-4). “Tornate a me” (Gioele 2:12, 13). “Tornate a me...... convertitevi dalle vostre vie malvagie......Tornate alla fortezza” (Zaccaria 1:3, 4; 9:12). “Tornate a me” (Malachia 3:7). Ce ne sono quasi un centinaio di altri passi simili. Costantemente, allora, l'atto di voltarsi è a Jahvé, dai falsi dei. A dire il vero, il profeta concepisce questa conversione come se portasse con sé tutto il bene, proprio come l'idolatria trascina tutto il male (cfr. Romani 1:18-32); ma in ogni caso questo voltarsi è dal falso al vero culto. Possiamo dire anzi che la concezione della moralità come moralità non è affatto presente nell'Antico Testamento. Sicuramente ciò non significa che l'ebreo non apprezzasse la moralità. Egli la apprezzava moltissimo e la praticava diligentemente, ma non come obiettivo primario, bensì come secondario; non come originale e indipendente, bensì come dipendente e derivata. Per lui la fonte dell'obbligo morale non si trovava nella natura delle cose (come per il greco), nemmeno nella propria natura, ma nell'espressa volontà di Dio. La sede dell'autorità non era da nessuna parte sulla terra, ma in cielo. La base dell'etica non era soggettiva, ma oggettiva. La moralità era un frutto rigoglioso, ma non radicato per nulla nella terra; era una propaggine della radice gigantesca della religione. “Se uno adora Dio (θεοσεβὴς ᾖ) e fa la sua volontà, egli lo ascolta” (Giovanni 9:31). Prima viene l'adorazione, poi l'obbedienza e tutto è detto. Questo non fa che riecheggiare il dictum di Qoelet: “Conclusione del discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto”. È chiaro che all'etica non è concessa alcuna esistenza indipendente. I profeti sono instancabili e veementi nelle loro esortazioni al pentimento e alla rettitudine. Voltatevi, voltatevi, gridano incessantemente — da cosa? “Dalla vostra via malvagia”. Quale via malvagia? Il contesto mostra in ogni caso che la via malvagia è l'idolatria o qualche forma di infedeltà al culto di Jahvé. Volgersi a chi, a cosa? Lo stesso contesto mostra in ogni caso che si tratta di Jahvé e del suo culto.
Tra tutti i profeti, quello in cui l'aspetto puramente etico viene più chiaramente alla luce è Amos. Tuttavia, anche se per scopi retorici espone con terribile vigore l'ingiustizia e l'oppressione della classe sacerdotale e ufficiale, pure in lui il motivo principale è religioso. La sua indignazione è contro il falso culto di Betel, Dan e Gilgal. È l'iniquità dei ministri di una falsa religione che egli denuncia. Dopo le feroci predizioni contro i pagani circostanti, si rivolge a Giuda: “Perché hanno disprezzato le Leggi del Signore, e non hanno osservato i suoi comandamenti; e le loro menzogne, dietro alle quali andarono già i loro padri, li hanno traviati”. Queste “menzogne” non sono altro che idoli (“Götzenbilder”, Buhl), come così spesso nell'Antico Testamento. Successivamente egli denuncia Israele e, pur fustigando l'avarizia e il vizio, ci fa sapere che sono proprio quelli coinvolti con la religione di Stato di Geroboamo a provocarlo, perché essi “profanano il mio santo nome”......“nella casa del loro dio”. Il lusso contro cui inveisce è il lusso dei sacerdoti, lo sfarzo della falsa religione; perciò “colpirò anche gli altari di Betel”. È questo stesso culto semi-pagano che viene respinto con tanta enfasi nel famoso passo 5:21-26. È la loro idolatria, il loro culto di Moloc e di Kewan (Saturno) (5:26, 27), che li costringerà in esilio. La giustizia e il giudizio del versetto 24 sono solo il rigoroso adempimento della Torà di Jahvé. Similmente in 6:13, “Voi vi compiacete di Lo-debar”, sia che si tratti di “cose da nulla” — cioè di un idolo — sia che si tratti di Maanaim (2 Samuele 9:4; 17:27), un luogo di culto idolatrico. Pure in 8:14, il “peccato di Samaria” è il falso dio o il falso culto.
Anche nel più spirituale dei Salmi il caso non è diverso. In 51 il poeta (che sembra essere nient'altri che il popolo d'Israele in esilio) si lamenta del suo apparente rifiuto da parte di Dio, che può intendere solo come una punizione per i propri peccati (quelli del popolo). Ma tutto il peccato era contro Dio e solo contro Dio: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto”; cioè esso non era etico, ma religioso. Egli prega ardentemente per riottenere il favore divino, nel qual caso convertirà i peccatori e “insegnerà ai trasgressori le tue vie”; cioè, propagherà il monoteismo e la Legge. È vero, è detto ai versetti 16 e 17: “Poiché non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi”. [2] E naturalmente, poiché in esilio queste forme di culto erano impraticabili; la volontà doveva essere impiegata per l'azione; ma non appena “le mura di Gerusalemme” saranno ricostruite, “allora gradirai sacrifici di giustizia, olocausti e vittime arse per intero; allora si offriranno tori sul tuo altare”. Sappiamo tutti che il riferimento di questo Salmo a Davide è del tutto impossibile. L'apice del merito poetico e filosofico è raggiunto nel Salmo 139; tuttavia i versetti conclusivi (19-24) mostrano che la filosofia e l'etica dello scrittore sono ancora strettamente religiose, che egli odia, perfino con odio sincero, tutti coloro che non adorano con lui il Dio Unico dell'universo.
Lo stesso vale per Isaia, anche per il Deutero-Isaia. Per quanto abbia un cuore grande e sia orientato alla spiritualità, nondimeno prima di ogni altra cosa egli è un religioso, un adoratore di Jahvé, solo secondariamente un moralista. Questa tesi può essere verificata e dimostrata da innumerevoli versetti. Considera il Grande Discorso (capitolo 1). Nonostante i versetti come 17, il peccato del popolo è l'apostasia (5), è la defezione da Jahvé (4), è l'idolatria (21, 29). In 2:9, 18, 20, 22, la terra è piena di “idoli”, contro i quali il profeta inveisce con passione. In 5:24, il peccato è lo stesso. In 10:10, 11, gli “idoli” ricorrono di nuovo, e così via fino alla fine. L'intero libro è intensamente religioso, il profeta difende senza sosta il culto di Jahvé e la sua etica veramente elevata è una derivazione della sua religione. Di Michea e degli altri non c'è bisogno di dire molto. Da 1:6 e seguenti, 3:5, 4:5,5:13 e seguenti, 6:16, e passi simili, è chiaro che questo profeta era dello stesso spirito, che anche per lui la moralità era un corollario del culto di Jahvé. Anche nei Vangeli il caso non è veramente diverso. Il primo comandamento è ancora lo Shema, con la richiesta di un culto intenso ed esclusivo del Dio Unico Jahvé. L'amore per il prossimo è il secondo comandamento, molto meno enfatico (Marco 12:28-34).
Ripetiamo, quindi, che il grido profetico Šûbû significa sempre una, e una sola, cosa: “Voltatevi” dagli idoli a Dio; il suo contenuto è innanzitutto sempre religioso, mai etico. L'aramaico preferisce l'espressione tardiva tûb, “tornate”, ma il contenuto rimane lo stesso. Più volte il Šûb dell'Antico Testamento è reso con ἐπιστρέφω (convertitevi) nel Nuovo Testamento, ed è poi reso generalmente in siriaco con tûb. Pentimento e conversione furono quindi essenzialmente la stessa cosa nella coscienza apostolica; si riferirono principalmente all'allontanamento dagli idoli verso l'unico Dio vivente. Ciò è espresso chiaramente in Atti 20:21 — “Penitenza verso Dio”, — dove va intesa conversione a Dio. Naturalmente non si afferma che il pentimento non significhi e non possa mai significare altro rispetto a questa conversione, ma solo che come slogan della predicazione primitiva esso non significò, e non poté significare, nient'altro che la conversione.
NOTE
[1] μετάνοια.
[2] Anche se certi critici avessero ragione nel ritenere che il Salmista abbia qui raggiunto una prospettiva strettamente “evangelica”, i risultati appena esposti non ne risentirebbero; perché si tratterebbe solo di un'eccezione individuale degna di nota, che potrebbe facilmente verificarsi senza alterare lo stato generale del caso — e i versi finali sarebbero allora intesi come un'aggiunta consapevolmente correttiva (Kautzsch).
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