(segue da qui)
ADDENDUM II.
In vista della grande importanza legata ad una corretta interpretazione dell'episodio del Ricco, può essere opportuno esaminare il racconto più da vicino di quanto non sia già stato fatto (pag. 98 e seguenti), anche a costo di una certa ripetizione. Esso è trovato in Marco 10:17-31; Matteo 19:16-30; Luca 18:18-30. Osserva innanzitutto che l'episodio avviene proprio quando Gesù entra in Giudea. Arriva Uno di corsa, cade in ginocchio (in adorazione) e chiede: “Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Ciò sembra implicare, come minimo, che quest'Uno sapesse bene a proposito del Gesù e riconoscesse in lui una conoscenza sovrumana, una personalità che esigeva adorazione. Ma ciò sembra quasi impossibile su qualsiasi ipotesi probabile del Gesù umano. Infatti, egli non era stato in Giudea e difficilmente possiamo credere che la fama delle sue gesta avesse eccitato così tanto l'immaginazione degli ebrei più pii da suscitare una tale adorazione e una tale domanda. Osserviamo inoltre che quest'Uno non soffre di alcuna malattia. Sembra essere in perfetta salute, egli si affretta, laddove i Galilei furono praticamente tutti invalidi: “E lo seguivano in molti, ed egli li guarì tutti” (Matteo 12:15). Né il Gesù trova lebbrosi o indemoniati o altri malati in Giudea, tranne il mendicante cieco Bartimaios (figlio di Timaios). Perché questo? La salubrità della Galilea non fu forse uguale, se non addirittura superiore, a quella di Giudea? Perché tutte le malattie e le miserie svaniscono, lasciando dietro di sé solo salute e ricchezza, non appena attraversiamo il confine di Giudea? Non sembra esserci che un'unica risposta. L'unica malattia che, sotto una “legione” di nomi, afflisse la Galilea dei Gentili fu il falso culto, la falsa religione. Su quella soltanto l'Evangelista ha puntato lo sguardo; quella soltanto fu distrutta dall'introduzione del culto di Gesù. Ma in Giudea, dove prevalse il vero culto, era del tutto impossibile che si compissero miracoli per guarire l'errore pagano. Nondimeno, ci fu cecità in Giudea, sia tra i Giudei veri e propri che tra i proseliti, nessuno dei quali riconobbe il culto di Gesù al suo arrivo. Alcuni dei più umili furono guariti da questa cecità e divennero suoi seguaci. Ciò sembra essere, in generale, il significato del miracolo di Gerico, anche se sui dettagli le opinioni possono essere molto discordanti.
Sembra difficile ragionare con chi, come l'erudito Keim (Jesus von Nazara, iii, 53), pensa che “le ragioni propendono a favore della storicità di questo episodio”, e cerca di razionalizzarlo accumulando frasi altisonanti circa il “Wogen e Wallen dello spirito religioso” e “una fiducia che, con la sua tempestosa insorgenza, poteva potenziare direttamente le energie vitali e neurali del corpo e risanare la capacità di visione malata o distrutta per un tempo o per sempre”. Pagine come 51-53 costituiscono una lettura molto malinconica. Che il Cieco Bartimaios sia un simbolo sembra sicuro al di là di ogni dubbio. Lo testimonia il fatto che Matteo non esita a fare due di uno, probabilmente guardando a entrambi i mondi, quello gentile e quello ebraico. [1] Ma cosa simboleggia? Ciò non è così chiaro. L'ovvia allusione è il mondo ebraico, come indicato dalle circostanze di tempo e di luogo, dal “Rabbì” e dal grido ripetuto “Figlio di Davide”. Sembra strano, però, che l'ebreo sia simboleggiato da un mendicante, seduto lungo la strada. È più probabile che il convertito gentile al giudaismo fosse nel pensiero dello scrittore. Egli fu, infatti, un mendicante, seduto lungo la strada che conduceva al vero culto, a Gerusalemme, ai margini, alle porte della Terra Santa. Strabone (16:2) parla dell'amalgama egizio-arabo-fenicio a Gerico. Qui l'unica interpretazione plausibile del nome, come “Figlio dell'Impuro” (Bar-timai), corrisponde perfettamente; ma contro questa spiegazione sembra pesare il fatto che gli attributi “cieco” e “impuro”, sebbene ciascuno altamente appropriato al Gentile, non sono nondimeno rilevanti germani e non abbinano naturalmente. Mettendo da parte l'idea di alcuni lessicografi, sostenuta da Hitzig e adottata da Keim, secondo cui timai = samia = cieco, come l'arabo 'amiya, ci rimane solo la supposizione che Timaios sia greco, e che significhi altamente pregiato: un nome particolarmente adatto a Israele. Il testo siriaco recita Timai Bar Timai, e possiamo giustamente sospettare una qualche corruzione testuale. Un ibrido aramaico-greco, Bar-timaios, è molto più improbabile come nome storico che come nome allegorico. Origene sembra aver ritenuto che Timaios dovesse essere greco, non semitico, perché egli definisce Bartimeo “l'eponimo dell'onore”. Wellhausen, sebbene sia incline a considerare il nome “un patronimico”, nondimeno aggiunge: “Timai potrebbe essere un'abbreviazione di Timoteo, come Tholmai di Tolomeo”. In questo caso si tratterebbe di puro greco e significherebbe colui che onora Dio, designando chiaramente Israele. Quando Wellhausen aggiunge che “salvare ha qui il semplice significato di rendere integro” e che “seguire non è usato nel sublime significato religioso”, ci si può permettere di riservare il proprio giudizio, o persino di chiedere: “Ouare, commilito?”.
Se dunque il cieco Timeo Bartimeo simboleggi l'ebreo oppure il proselita si può lasciare in sospeso, anche se sembra certo che egli sia il simbolo dell'uno o dell'altro; ma nessuna incertezza siffatta sembra incombere sul Ricco dei versi precedenti. [2] A meno di errare totalmente nell'intendere la salute di Giudea e le malattie di Galilea — un errore che sembra molto improbabile — noi dobbiamo interpretare il Ricco come l'Israele fedele. Con ciò concorda perfettamente la risposta del Gesù: “tu conosci i comandamenti”. Ciò è vero per l'ebreo, e solo per lui. Similmente la sua risposta: “Tutto questo l'ho osservato fin dalla mia giovinezza”. Così poteva parlare solo l'Israele fedele. Abbiamo già visto come l'amore del Gesù sia l'amore di Jahvé per “Israele quando era giovane”. Ma arriva la famosa risposta: “Una cosa ti manca. Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Il resto lo conosciamo e lo abbiamo discusso. Osserva l'articolo prima di beni (τὰ χρήματα). Difficile, impossibilmente difficile, per “quelli che hanno i beni, entrare nel Regno di Dio”. Non viene accennata la ragione di questa difficoltà. I discepoli sono impressionati, e giustamente. Se il Ricco (l'Ebreo) non può entrare, chi può farlo? Tutti i tentativi (dalla prospettiva comune) di razionalizzare questo insegnamento sono falliti. Anche noi oggi siamo perplessi al pari dei discepoli. Non riuscendo assolutamente a comprenderlo, lo rifiutiamo oppure travisiamo la spiegazione dell'antico copista: “quelli che confidano nelle ricchezze”. Eppure il caso è abbastanza semplice. Il Ricco è Israele — ricco di promesse, di privilegi, di prerogative, della Legge, dei Profeti, degli Oracoli, di molti beni. I poveri sono i Gentili, il disprezzato Lazzaro. La particolarità dirompente del culto di Gesù fu il suo universalismo. Esso ammise nel Regno ebrei e gentili in condizioni di parità. Il primo fu chiamato a rinunciare alle sue elevate prerogative, a condividere con il secondo i suoi privilegi divini. Non innaturalmente, egli esitò, egli rifiutò; con lo sguardo abbassato si allontanò dal Gesù, profondamente addolorato, perché i suoi beni erano preziosi. È in loro che ripose la sua speranza; e il revisore del testo ebbe un'intuizione giusta e non ha affatto “rovinato tutto”, come pensa Wellhausen (Ev. Marci, pag. 87), quando egli aggiunse (al versetto 24) “per quelli che confidano nelle ricchezze”: una frase che descrive chiaramente gli ebrei. Lo stupore dei discepoli appare ora perfettamente naturale: se gli ebrei non potevano entrare nel Regno, loro per i quali il Regno era principalmente destinato, il caso sembrava disperato. Chi poteva entrare? La risposta del Gesù esprime la fede costante dei primi cristiani che, nonostante l'allontanamento quasi unanime di Israele, del suo “indurimento” temporaneo, esso sarebbe comunque entrato nel Regno in pieno trionfo e gloria. Agli uomini la sua salvezza poteva sembrare impossibile, ma non a Dio, presso cui tutto era possibile, perché avrebbe operato qualche miracolo in suo favore. L'onore dell'Onnipotente era promesso per l'esaltazione e la glorificazione del suo Popolo Eletto. Proprio nello stesso spirito l'“Apostolo” (Romani 9-11) riversò su questo paradosso supremo del cristianesimo il pieno vigore della sua dialettica rabbinica. Sicuramente la contraddizione presentò un problema degno dei suoi massimi poteri. La sua soluzione concorda proprio con quella del testo marciano. Apparentemente impossibile, la salvezza dell'ebreo è nondimeno una necessità divinamente logica, “perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (11:29). Per un certo periodo, infatti, egli può essere parzialmente indurito; ma solo “finché sarà entrata la pienezza dei gentili”. Allora anch'egli entrerà nello splendore meraviglioso della redenzione: “allora tutto Israele sarà salvato”, grida l'Apostolo (11:26); e, stupito dalla meravigliosa inversione della salvezza, egli prorompe nel nobile appello: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” L'approccio mentale dell'Evangelista è esattamente lo stesso, ma, naturalmente, espresso nella sua maniera sottile ed esoterica. Egli assiste alla sorprendente inversione: i gentili si affollano nel Regno, mentre “i figli del Regno saranno cacciati fuori nelle tenebre” (Matteo 8:12); ma non può dubitare della salvezza finale anche dei più recalcitranti, e riassume la sua fede nell'aforisma: “Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi”, dove l'allusione a ebrei e gentili sembra fin troppo ovvia per essere discussa.
Questa interpretazione del famoso episodio evangelico sembra quindi essere pienamente soddisfacente in ogni dettaglio; per di più questi dettagli sono così tanti che appare in ultima istanza improbabile che un'interpretazione radicalmente sbagliata possa adattarsi così perfettamente ad ogni punto. Sarebbe quasi miracoloso se un semplice episodio storico, narrato ad arte, si prestasse in così tanti e tali particolari a un'interpretazione simbolica. I segni dell'artificio sono fin troppi e fin troppo evidenti. D'altra parte, comprendere storicamente questo racconto è difficilissimo, se non addirittura impossibile. Chi può credere che un Ricco incontrasse lo sconosciuto Gesù mentre si avviava verso Gerusalemme, corresse verso di lui, cadesse in ginocchio ad adorare e chiedesse: “Che devo fare per ereditare la vita eterna?”. O che il Gesù gli chiedesse di vendere tutti i suoi beni e di darli ai poveri? Che cosa poteva fare di buono una siffatta follia? Oppure che il Gesù avrebbe dichiarato impossibile per ogni uomo ricco entrare nel Regno se non mediante un miracolo? La Storia non ha verificato, ma ha contraddetto nettamente, ripetutamente e continuamente un dictum siffatto in ogni epoca e in ogni contesto. E quale significato degno o adeguato si può dare ai Primi e agli Ultimi, invertiti in Ultimi e Primi, se non quello di ebrei e gentili? Sicuramente non quello di Loisy (Les Evan. Syn., ii, 20).
Dobbiamo quindi considerare la spiegazione simbolica di questo episodio provvista di un grado di probabilità tanto elevato quanto lo consente la natura di tali questioni; in altre parole, come virtualmente certa. Questo risultato non è solo importante e luminoso di per sé, ma la sua luce si riflette sull'intero corpo del Vangelo. Esso mostra con un esempio lampante come l'Evangelista pensò mentre scrisse, come desiderò che i suoi lettori lo capissero. Una volta che abbiamo guardato con attenzione nelle profondità del pensiero di Marco, l'enigma del Nuovo Testamento diventa un segreto di Pulcinella.
NOTE
[1] Proprio come, con un'analoga occhiata laterale all'ebraismo, egli presenta due indemoniati sulla costa dei Gadareni: non disposti a riconoscere nel Dio degli ebrei il vero Dio?
[2] Sembra quasi inutile, e forse non del tutto, osservare che qui non si può sollevare alcuna questione di ordine cronologico o topografico, siccome abbiamo a che fare non con eventi, ma con idee.
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