mercoledì 18 settembre 2024

ECCE DEUS — TESTIMONIANZA DEI VANGELI

 (segue da qui)

TESTIMONIANZA DEI VANGELI 

33. Ma qualcuno è pronto a fare l'obiezione: “I Vangeli, però, i Vangeli, sono ricolmi di questo essere umano; presentano un'immagine vivida di un uomo nobile, di un personaggio supremamente bello, unico, incomparabile, inimmaginabile, che i discepoli ignoranti non avrebbero mai potuto inventare, che essi hanno riprodotto solo inadeguatamente”. Qui, allora, la questione è affrontata nettamente. Io nego tutte quante queste fiduciose affermazioni, vecchie e consumate nel tempo. Su quasi ogni punto lo stato reale del caso è esattamente l'opposto. Non è vero che le più antiche narrazioni evangeliche descrivono un personaggio umano; al contrario, la personalità in questione è decisamente divina e non umana, nella raffigurazione più antica. Con il passare del tempo è vero che alcuni elementi umani si insinuano, in particolare in Luca e in Giovanni. In quest'ultimo, infatti, inizia quel processo di sensibilizzazione che è stato esasperato a tali estremi in quest'età moderna, e in particolare in quest'età recente. L'idea diffusa che nelle prime narrazioni marciane il Gesù sia nettamente umano e che il processo di divinizzazione sia compiuto in Giovanni, è proprio il contrario della verità. In Marco [1] non c'è affatto un uomo, il Gesù è Dio, o almeno essenzialmente divino, completamente. Egli indossa solo una veste trasparente di carne. Marco storicizza soltanto. Anche Matteo storicizza e umanizza lievemente. Luca umanizza più fortemente, mentre Giovanni non solo umanizza, ma inizia a sensibilizzare

34. Fin qui si tratta di semplici asserzioni, ma si basano su un'analisi accurata, che invero non può essere riprodotta qui nei dettagli. [2] Si possono presentare solo alcuni tratti salienti della situazione, e il lettore deve essere avvisato in anticipo che è il consenso generale degli indizi a costituire la forza della nostra posizione, e non due o una mezza dozzina di singoli indizi, fossero anche così diretti ed esplicativi. Siccome, allora, è proprio impossibile discutere in modo esauriente queste questioni minuziose, piacerà al lettore di prendere la questione seguente solo a titolo di esempio: 

(1) Marco non dice niente circa una storia iniziale del Gesù; apparentemente non sa di nessuna; infatti, è dimostrabile che i racconti sia di Matteo che di Luca sono pure fantasie. Ma il fatto che queste storie elaborate e completamente contraddittorie furono inventate prova che la fantasia giocò sul tema, che vi sorse una richiesta almeno di idee al riguardo; ma se ci fossero stati dei fatti nel caso, questi dovettero essere stati in qualche misura accessibili; che nessuno fosse stato accertato indica che nessuno era accertabile, che tali fatti non esistettero realmente. 

Per di più Marco non pretende di raccontare un resoconto storico; egli è interessato esplicitamente alla dottrina: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo” (1:1). Certamente dà a questa una forma storica; egli storicizza, ma non professa di scrivere Storia reale. 

Se il Gesù fu una personalità umana così impressionante, sembra strano che il narratore più antico pensi solo a un corpo di dogmi e per nulla affatto al carattere di quel meraviglioso essere umano. 

(2) Marco non applica da nessuna parte al Gesù alcun termine che indichi una personalità umana impressionante o anche solo amabile, oppure una personalità umana qualsiasi. Al contrario, i termini distintivi sono quelli che si userebbero naturalmente a proposito di un Dio, anzi a proposito di Jahvé, Geova, e non a proposito di un uomo. Le poche eccezioni apparenti serviranno a provare questa regola. 

(a) Tre o quattro volte (in Marco) è detto che il Gesù “ebbe compassione” del popolo (1:41; 6:34; 8:2; 9:22), in Matteo cinque volte, tre volte in Luca; questa “compassione” è uno dei due tratti principali di Gesù secondo Schmiedel, ed è forse il principale nella concezione generale. Sicuramente la compassione è il tratto più umano. Sì, ma è anche divino; infatti, è l'attributo particolarmente divino nella concezione orientale: “Allah, il Compassionevole, il Misericordioso”. E adesso valuta bene. La parola greca [3] non è usata idiomaticamente in questo senso; è una mera imitazione in greco dell'ebraico raham (rahamim = viscere di misericordia). Ma questo termine ebraico è usato continuamente e quasi esclusivamente (nell'Antico Testamento) a proposito di Jahvé o in relazione a Jahvé. Con poche eccezioni, è solo Jahvé a essere reso soggetto del verbo, e queste eccezioni confermano piuttosto che indebolire la regola. Possiamo dire, allora, che la parola greca, in quanto mera resa dell'ebraico, anche se potrebbe essere usata  proposito di un uomo, è molto più adatta quando applicata alla Divinità; è, infatti, identificativa non dell'uomo, ma di Dio; come si vede anche dal fatto che è usata solo a proposito del Gesù, con solo tre eccezioni apparenti in tutto il Nuovo Testamento: Matteo 18:27, dove “il Signore di quel servo” rappresenta Jahvé; Luca 10:33, a proposito del Buon Samaritano (che simboleggia un'Entità divina?); Luca 15:20, dove il Padre è Dio oppure il Gesù. La sua predicazione praticamente esclusiva del Gesù indica chiaramente, anche se non prova positivamente, che egli fosse concepito fin dall'inizio come Jahvé, o almeno come una Vice-Divinità.

(b) L'espressione “rimproverò” [4] è usata in Marco sei volte a proposito del Gesù (frequentemente anche negli altri Vangeli). È usata anche a proposito di altri (tre volte), e così negli altri Vangeli. Quindi anch'essa appare identificativa del Gesù. Ora, però, essa si limita a rendere l'espressione ebraica ga'ar, che, di nuovo, è usata espressamente, anche se non specificamente, a proposito di Jahvé (circa diciotto volte su ventiquattro). Qui, allora, l'indizio è lo stesso come nel caso precedente, anche se non così forte.

(c) L'espressione “fremere” [5] è usata quattro volte a proposito del Gesù (Marco 1:43; Matteo 9:30; Giovanni 11:33, 38), una volta a proposito dei discepoli (Marco 14:5). La parola è rarissima e sembra straordinaria se applicata a qualsiasi uomo, ma particolarmente sconcertante se applicata al mite Gesù, soprattutto perché è difficile trovare una buona ragione per questo “fremere”. Però la spiegazione non è difficile da trovare. La parola rende semplicemente l'espressione ebraica naharah (sbuffare, Geremia 8:16), o neshamah, usata regolarmente a  proposito del “soffio delle narici” di Jahvé. Qui, dunque, l'applicazione della parola ripugnante al Gesù appare naturale e quasi inevitabile, solo se il Gesù è pensato come simile a Jahvé, cosicché i predicati di quest'ultimo siano trasferiti al primo: altrimenti rimane confusa e offensiva.

(d) Ma non è detto forse che Gesù “amò” [6] il Ricco? Sì, infatti, in una pericope molto importante (Marco 10:21), l'unico in cui siffatto sentimento è attribuito al Gesù, al di fuori del sentimentalismo del Quarto Vangelo. Esaminiamo da vicino questo passo istruttivo. Questo amore per il Ricco appare umanissimo, eppure non è strano che un siffatto sentimento si manifesti solo una volta nella vita del Gesù dei Sinottici? Il fenomeno è certamente degno di una riflessione. Ora, in un altro contesto ho provato senza ombra di dubbio che il Ricco non è e non può essere altro che l'Israele Fedele; la misteriosa figura è puramente e unicamente simbolica. Una dimostrazione dettagliata non si può offrire qui, ma possono bastare chiari indizi. 

(1) Questo Ricco [7] incontra il Gesù proprio all'ingresso in Giudea (Marco 10:1, 17). È altamente improbabile che un singolo ebreo abbia incontrato il Gesù nella maniera descritta, mentre il tipico ebreo, il popolo ebraico, avrebbe potuto essere descritto così con grande bellezza e coerenza. 

(2) Gli aspetti del Ricco si adattano all'Israele Fedele; l'uso dell'articolo indeterminativo “Un” sembra degno di nota. 

(3) Finora in Galilea (dei Gentili) Gesù sembra aver incontrato solo moltitudini di invalidi, in particolare indemoniati; “Molti lo seguirono ed egli guarì tutti”. In Giudea non lo incontrano persone di tal fatta, solo il cieco Bartimèo costituisce un'eccezione che conferma la regola. Ma la Galilea era certamente salubre tanto quanto la Giudea.  Perché, allora, una folla così numerosa di malati in Galilea e nessuna in Giudea? Solo una risposta è possibile: le malattie di Galilea erano puramente spirituali; erano il paganesimo, il falso culto, il politeismo. Gli dèi e gli idoli, ecco le malattie che curava e i demoni che scacciava. La sua carriera in Galilea è solo un brillante quadro poetico del progresso del culto di Gesù. “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella”. Tutte queste opere sono in linea. Si tratta dello stesso grande atto espresso sotto sei forme: le conquiste del culto di Gesù tra i Poveri, i Gentili e gli ebrei gentilizzati. Ma in Giudea si adorava il vero Dio, prevaleva la vera religione. Perciò guarigioni come quelle operate in Galilea dei Gentili erano impossibili. Ma la cecità spirituale prevaleva, ahimè, perfino tra l'onoratissimo popolo di Dio; da qui la guarigione del cieco Bartimeo, che simboleggia il giudeo spiritualmente cieco. Se questa è l'interpretazione corretta di questi fatti, allora non c'è altra scelta: dobbiamo considerare questo Ricco, che incontra Gesù alla porta di Giudea, il simbolo del giudaismo. 

(4) Il fatto che lo scrittore stesse pensando veramente a Giacobbe l'eletto è evidente nel linguaggio usato a proposito del Ricco nel versetto 22: “Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto”; [8] confrontato con  Isaia 57:17: “Ed egli fu afflitto, e con sguardo tetro se ne andò per le sue vie”. [9] Ma il profeta qui parla di Israele, e solo di Israele, e sembra impossibile che lo scrittore marciano non stesse pensando a questo passo isaiano. Da notare soprattutto la parola στυγνάσας (“rattristatosi”), corrispondente all'espressione della Septuaginta “tetro” (στυγνός). Questo rarissimo στυγνάζω (ora scartato da Matteo 16:3) è una parola della Septuaginta che rende l'espressione ebraica  shôbab (avverso, apostata); al di fuori della Septuaginta sembra trovarsi solo una volta, in uno scolio su Eschilo, Persiani 470. [10] Possiamo dire con sicurezza allora che lo scrittore marciano avesse in mente la Septuaginta, o qualche traduzione simile, del versetto isaiano, e quindi dovette aver pensato a Israele. Infatti, sembra aver citato così da Isaia, per rendere chiaro e inequivocabile il proprio simbolismo. [11] 

(5) La richiesta di vendere tutti i beni e dare ai poveri è irragionevole e non giustificata da precedenti. Acquista senso e ragione solo se presa, nel suo giusto contesto storico, per la richiesta del culto di Gesù che Israele rinunci ai suoi “molti beni”, ai suoi privilegi e alle sue prerogative spirituali, e li condivida con i gentili ammettendoli a parità di condizioni nel Regno. Non meraviglia che esitò. 

(6) La conversazione riportata tra il Gesù e i discepoli va compresa solo in accordo con il preannuncio: “Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio! I discepoli si stupirono di queste sue parole”. Nota il linguaggio: “Coloro che hanno delle ricchezze”. [12] Sembra che si intenda una classe distinta e definita. E perché lo stupore dei discepoli? Non sembra esserci nulla di sorprendente nell'idea che per i ricchi sia più difficile che per i poveri entrare nel Regno. Quando sentono dire che è “più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”, essi esclamano: “Chi dunque può essere salvato?” Cioè: se l'ebreo non può; altrimenti la domanda non ha senso. Il loro atteggiamento sembra strano, così come quello del Gesù, se il ricco è inteso letteralmente. Il Gesù risponde: “Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio”. Questo significa, semmai, che la salvezza del ricco è davvero impossibile, se non per mezzo di un miracolo; applicato al popolo ebraico, sembra abbastanza ragionevole. Nota pure le parole conclusive: “Ma molti primi saranno ultimi e gli ultimi, primi”. Un'interpretazione perfettamente naturale riferisce ciò all'ebreo (naturalmente primo, in realtà ultimo, nell'accettare il nuovo culto, ossia il Regno) e al Gentile (naturalmente ultimo, in realtà primo). Quale altra degna interpretazione si è rivelata agli occhi del commentatore? 

(7) Infine, che questo sia davvero il pensiero dell'Evangelista è chiarito dal pensiero esattamente parallelo in Romani 9-11. Quale prodigioso rompicapo questa inversione di rapporti (tra ebreo e Gentile) nei confronti del Regno presentasse all'antica coscienza cristiana è chiaramente visibile in questa argomentazione elaboratissima sul paradosso del rifiuto ebraico e dell'accettazione gentile del Vangelo. Ma nota la conclusione. L'apostolo insiste, alla luce di tutti i fatti del caso, che il rifiuto non può essere reale e permanente e che l'onore dell'Onnipotente è legato alla salvezza — anzi, alla glorificazione — di Giacobbe, che l'irruzione dei Gentili è solo il prologo del dramma grandioso. “Così tutto Israele sarà salvato”, conclude (11:26); e, inebriato dalla splendida visione di tutti gli ebrei redenti, del popolo di Dio glorificato, prorompe nella magnifica apostrofe: “Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie!” Questa è proprio la visione dell'evangelista, ma adombrata dal simbolismo, non raccomandata da retorica appassionata. 

35. Il lettore noti il gran numero di segni con cui identifichiamo questo Ricco e determiniamo l'interpretazione dell'intero brano: non meno di sette, e alcuni di questi non sono singoli, ma molteplici. È molto improbabile che un'interpretazione così accuratamente coerente ad ogni punto possa essere errata. Se si monta una macchina molto complessa, come un orologio, in modo che funzioni perfettamente, puoi essere praticamente certo di averla montata bene, pur ammettendo l'astratta possibilità che il costruttore intendesse montarla diversamente. Ma la probabilità è la guida della vita. Possiamo sapere, infatti, a priori che questo rapporto paradossale tra ebreo e Gentile dovette aver turbato l'animo dei primi cristiani, proprio come è ora inspiegabile per coloro che trascurano l'ellenismo essenziale del cristianesimo; e sarebbe stato strano se non avesse ricevuto un trattamento nei Vangeli come pure nelle Epistole.

NOTE

[1] Naturalmente, in queste pagine il lettore non cercherà alcuna polemica con Weiss o Mueller o Wendling o Nicolardot o Loisy, circa la questione sinottica. Fortunatamente le grandi questioni qui sollevate non dipendono, per la loro soluzione generale soddisfacente, da delicate determinazioni di priorità e di dipendenza degli elementi sinottici.  Altrimenti esse dovrebbero essere rimandate dall'inizio alla fine del secolo.

[2] Lo scrittore ha completato nel settembre 1909 una minuziosa trattazione di Marco, versetto per versetto; da allora l'urgenza dei doveri professionali ha impedito la revisione finale e la preparazione per la stampa.

[3] σπλαγχνίζομαι, da σπλάγχνα = viscere.

[4] ἐπιτιμάω.

[5] ἑμβριμάομαι.

[6] ἠγαπησεν.

[7] εἶς.

[8] ὁ δὲ στυγνάσας ἐπὶ τῷ λόγῳ ἀπῆλθεν λυπούμενος. 

[9] καὶ ἐλυπήθη, καὶ στυγνὸς ᾿ πορεύθη  ἐν  ταῖς  ὁδοῖς  ἀυτοῦ.

[10] Il suo uso da parte di Eumazio (1100 E.C.?) conta poco.

[11] Confronta le dotte osservazioni di Abbott, Corrections of Mark [439]-[442].

[12] οἱ τὰ χρήματα ἔχοντες.

2 commenti:

Dieg ha detto...

Salve, secondo lei paolo di tarso è esistito? E i primi gnostici? Valentino, basilide... Grazie

Giuseppe Ferri ha detto...

Paolo non è mai esistito, ma è totalmente una creazione della scuola di Marcione, presso cui le stesse epistole originarie furono fabbricate:

«La sua discendenza dalla tribù di Beniamino, che l'autore della prima appendice al nucleo della lettera ai Romani (capitoli 9-11) gli attribuisce nel primo versetto dell'ultimo capitolo, gli conferisce la stessa posizione in relazione agli apostoli originari che il figlio di Giacobbe occupava tra i suoi fratelli in ordine di nascita. Egli è l'ultimo, l'inatteso, la conclusione, il prediletto figlio minore. Anche il suo nome latino, Paulus, esprime la piccolezza che i passi delle lettere sopra citati mettono in contrasto con la grandezza a cui la grazia lo elevò».
(Bruno Bauer, Cristo e i Cesari, pag. 381, mia traduzione)

Valentino probabilmente non è esistito: in latino Valens significa «forte», per cui i Valentiniani sono i «forti», inevitabilmente in opposizione a quelli (i giudaizzanti) che si impongono astinenze alimentari, ossia i «deboli».

Basilide probabilmente è esistito.