mercoledì 10 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — L'EPISTOLA AI ROMANI (VISIONE GENERALE)

 (segue da qui)

VISIONE GENERALE

Paolo, che ha gravi problemi con i giudeocristiani di Gerusalemme, ha appreso che la colonia ebraica di Roma contiene un gruppo di cristiani. Egli scrisse a questi fratelli sconosciuti, nella speranza di conciliarsi le loro simpatie e di ottenere il loro appoggio contro i suoi avversari.

Sapendo che per raggiungere uno scopo bisogna averne i mezzi, adula i Romani e menziona con compiacimento la ricerca che ha organizzato a favore dei «santi» di Gerusalemme.

Ovviamente non può non parlare del disaccordo che ha con questi «santi». Loro pretendono che, per partecipare alla promessa fatta ad Abramo, bisogna essere figli di Abramo, in senso letterale, vale a dire discendere da questo patriarca per via di generazione. Lui riconosce che solo i figli di Abramo parteciperanno alla promessa di cui questo grande patriarca è stato beneficiato da Dio; ma ritiene che il diritto al titolo di figlio di Abramo poggi sulla fede nella resurrezione del Cristo e non sulla generazione carnale. Egli prova, inutile dirlo, che solo lui ha ragione, e che i suoi avversari si ingannano completamente sulle condizioni richieste per partecipare alle promesse fatte ad Abramo.

Notiamo a questo proposito che la promessa fatta ad Abramo, il suo contenuto così come la sua esistenza, sono al di fuori del conflitto. Da una parte e dall'altra si è d'accordo nel credere che il padre comune degli Israeliti sia stato beneficiato da una promessa divina; da una parte e dall'altra si è anche d'accordo sul suo contenuto. Il conflitto comincia solo allorché si tratta di precisare le condizioni richieste per partecipare al beneficio promesso ad Abramo. E poiché solo queste condizioni hanno provocato il disaccordo, Paolo si occupa solo di esse e quasi si dimentica di informarci sul contenuto della promessa.

Molto fortunatamente, il suo oblio non è completo. Ci informa che Dio ha promesso ad Abramo l'impero del mondo. Ci informa allo stesso tempo che il Cristo, incaricato di realizzare quella promessa, ha per missione di schiacciare i nemici di Dio, e di fondare sulla terra il regno di Israele, del vero Israele, di cui saranno membri tutti coloro che credono alla sua resurrezione. Questa è in sostanza la lettera di Paolo, che si conclude con la raccomandazione di Febe alla quale sono allegati i saluti inviati dal gruppo di Paolo.

La lettera ai Romani restò in questo stato per circa ottant'anni. Intorno al 140 i marcioniti se ne impadronirono e ne diedero un'edizione ampliata nella quale si trovavano i pensieri seguenti: «In seguito al peccato del primo uomo, tutti gli uomini erano peccatori; al punto che il loro corpo era un corpo di peccato, una macchina dedita a peccare. Essendo peccatori erano soggetti alla morte e nemici di Dio. Ma Dio ha amato gli uomini anche quando essi erano suoi nemici; e ha deciso di sottrarli alla loro disgrazia. Per realizzare questo disegno ha inviato sulla terra Figlio nella rassomiglianza della nostra carne peccatrice. Questo Figlio ha subìto una rassomiglianza di morte; ma è riapparso pieno di vita. Ed ecco ciò che accade ora. Per mezzo del battesimo il cristiano è innestato sul Cristo, partecipa alla morte del Cristo, alla resurrezione del Cristo. Egli muore; dunque paga il tributo che doveva come peccatore alla morte; non è più soggetto alla morte poiché ha saldato il suo debito. Egli risorge, ma in una vita nuova, in una vita che non ha nulla in comune con quella che gli procurava il corpo di peccato. Sta a lui conservare fedelmente quella vita, sta a lui ricordarsi che il suo corpo di peccato è morto e non esserne più schiavo. Se segue quella linea di condotta, sarà un giorno liberato dal suo corpo, e allora otterrà la filiazione divina, quella filiazione che è oggetto dei sospiri della creatura sottoposta alla vanità per la volontà di colui che l'ha sottoposta».

Arricchita di quella elevata teologia, la lettera ai Romani non ha più per destinatari i giudeocristiani di Roma, ma i cristiani di origine pagana. Per mostrare l'importanza dei suoi insegnamenti, li presenta come la rivelazione del tutto nuova di un mistero nascosto da tutta l'eternità; e quella nota è la sua conclusione, conclusione più degna di una lezione dogmatica rispetto ai volgari saluti che la terminavano primitivamente.

Aggiungiamo che il suo Cristo è il Dio supremo che è venuto lui stesso sulla terra per liberare gli uomini. Perché dunque è detto Figlio di Dio? Per rispetto per la tradizione. Da molto tempo Gesù era comunemente chiamato il Figlio di Dio. La scuola marcionita non poteva insorgere contro l’uso universale. Ha quindi mantenuto l'appellativo ricevuto. Soltanto lo ha mantenuto solo al prezzo di una difficoltà inestricabile. Il Cristo della tradizione, semplice mortale come noi, ma investito da Dio della missione di restaurare il regno d'Israele, era, secondo gli uni, Figlio di Dio alla stessa maniera del principe maccabeo a cui Dio dichiara nel salmo 2: «Tu sei mio figlio». Per altri, egli doveva la sua filiazione al suo concepimento divino. L'una e l'altra di queste due interpretazioni offriva un significato chiaro alla mentalità dell'epoca. Ma come comprendere che il Dio supremo diviene Figlio di Dio venendo sulla terra? Con il suo Dio supremo, Figlio di Dio, la scuola marcionita ha introdotto nella teologia un enigma che precipiterà i dotti in un abisso di confusione e di insensate puerilità. La sua soluzione fu che il Figlio di Dio era costituito dal corpo etereo di cui Dio si era rivestito per venire sulla terra.

L'edizione marcionita, con un potente colpo d'ali, trasportò la lettera ai Romani nelle regioni celesti, e, di un manifesto politico, ne fece un trattato di edificazione e di pietà. D'altro canto, essa gestiva con cura i pregiudizi dell'opinione comune e lasciava discretamente nella penombra il Dio malvagio di cui denunciava i misfatti. Essa penetrò nella liturgia cattolica.

Fu pochi anni più tardi, dopo che il marcionismo era stato condannato, che la pericolosità di certi suoi testi apparve e che spiegazioni parvero necessarie.

L'edizione cattolica si impegnò in quest'opera di chiarificazione, che compì per mezzo di glosse gettate qua e là nel testo senza alcuna preoccupazione per la coesione delle idee. Se fosse stata fatta d'un fiato, quell'opera di interpretazione non fu che uno dei suoi molteplici obiettivi, poiché è da essa che derivano i testi montanisti, le dissertazioni sulla corruzione dei pagani, sui giudeocristiani, sui cattivi cattolici, sulla pasqua, sul rispetto dovuto ai magistrati.

Ma è probabile che l'edizione cattolica, come l'abbiamo oggi, sia il risultato di diverse redazioni successive. La prima non avrebbe avuto altro scopo che quello di interpolare l’edizione marcionita in maniera tale da neutralizzarla. Le dissertazioni e il contributo montanista apparterrebbero a uno o due redazioni posteriori.

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