martedì 30 gennaio 2024

Gli scritti di San Paolo — LA SECONDA EPISTOLA AI CORINZI (SUPPLEMENTI)

 (segue da qui)


SUPPLEMENTI 

1. La dolcezza e la bontà del Cristo.

Il primo supplemento si trova in 10:1. Esso consiste nella proposizione: «Io vi prego per la dolcezza e la bontà del Cristo». Quella interpolazione, il cui scopo è presentare un Cristo ideale e sovrumano, introduce un'inesattezza sintattica che spesso è nascosta nelle traduzioni ma che si manifesta in greco dove il pronome relativo «che» è bruscamente separato dal suo precedente che vuole seguire immediatamente. Si leggeva nel testo primitivo: «Io Paolo, che davanti a voi sono umile, ma da assente sono audace».

2. Le armi di Paolo

Il secondo supplemento comprende il brano 10:2b-6 dove l'apostolo accusato di camminare secondo la carne risponde che non si serve di armi carnali, ma che vuole distruggere tutto ciò che si esalta «contro la conoscenza di Dio». Il programma di Paolo, così come lo espongono le epistole ai Romani [1] e ai Galati, non è di procurare la conoscenza di Dio ad ebrei di origine o di istruzione che già conoscevano Dio. Il suo obiettivo è insegnare a gente che ha sentito parlare della promessa fatta ad Abramo che quella promessa sarà realizzata dal Cristo, e che ne beneficeranno solo coloro che sono figli di Abramo per mezzo della fede nel Cristo. Il brano 10:2b-6 è fuori dall'orizzonte di Paolo. Quella impressione è rafforzata dalla fine del brano in cui l'autore dichiara di voler sottoporre ogni pensiero all'obbedienza del Cristo e si prepara ad agire contro ogni disobbedienza quando l'obbedienza dei Corinzi sarà completa. L'obbedienza che ha in vista è l'obbedienza dell'intelligenza, quella che consiste nell'adesione della mente, vale a dire nella fede. Ma quella obbedienza i Corinzi la praticano. La disobbedienza di cui fanno mostra consiste nell'oblio delle regole della decenza e della dignità della vita (12:20-21); essa è di natura morale. L'autore dell'interpolazione la presuppone di natura intellettuale. Prende come punto di partenza delle sue speculazioni un fatto storico che ha precedentemente distorto. 

3. Coloro che si gloriano delle fatiche altrui

Il terzo supplemento va da 10:12 a 11:6. Paolo comincia col dire che non vuole paragonarsi a certi personaggi che si fanno sembrare degni. Ma non tarda ad accorgersi che egli parla ironicamente, perché aggiunge con disprezzo, 12b: «Non capiscono che si servono del proprio giudizio per magnificare sé stessi». Questi personaggi sono quindi degli sbruffoni. Hanno ancora un altro difetto che menzionano i versetti 13-15 dove leggiamo: «Noi non oltrepassiamo la misura, cosa che avrebbe luogo se ci glorificassimo delle fatiche altrui...» Paolo, che si limita a dire qui ciò che lui e i suoi compagni non fanno, conta proprio che completassimo noi stessi il suo pensiero. Completiamo quindi la frase che egli ha voluto lasciarci intuire. che voleva farci indovinare. Ecco ciò che vuol dire: «Loro si gloriano di fatiche che non hanno compiuto, che sono state compiute da altri; essi esagerano la loro attività; pretendono di avere portato il vangelo tra voi, il che non è vero poiché siamo noi ad essere venuti tra voi. In una parola, questi vanagloriosi sono dei ciarlatani che mettono sul loro conto le fatiche evangeliche di cui i miei discepoli e io siamo gli autori». Siamo qui in presenza di misteriosi predicatori che rassomigliano alla ghiandaia della favola che si adorna delle piume del pavone, che si attribuiscono le fatiche di Paolo. Chi sono dunque, tra i contemporanei dell'Apostolo, gli uomini che hanno espresso pretese così mendaci, così stravaganti? Si perderebbe il proprio tempo a cercarli. Non sono esistiti. Paolo non è stato affatto spogliato delle sue fatiche dai cristiani del suo tempo. E, di conseguenza, la denuncia espressa qui non deriva da lui.

Ma quella denuncia è un'eco. Un giorno si sono incontrati degli uomini che hanno accusato i loro avversari di rubare a Paolo il merito delle sue conquiste per riportarlo ai rivali, in altri termini di falsificare la storia delle origini cristiane. Chi erano questi rivali a vantaggio dei quali la falsificazione era stata commessa? Due testi della grande apologia di Giustino ci forniscono qui una luce preziosa. Nell'uno (39:3) leggiamo: 

Dodici uomini usciti da Gerusalemme sono andati nel mondo. Erano semplici e non sapevano parlare. Ma, per la potenza di Dio, hanno annunciato a tutto il genere umano che essi erano inviati dal Cristo per annunciare a tutti la parola di Dio.

E l'altro (45:3) ripete la stessa cosa in termini un po' diversi.

Gli apostoli uscendo da Gerusalemme hanno predicato dappertutto la parola di Dio.

Giustino ci informa qui che il mondo è stato evangelizzato dagli apostoli partiti da Gerusalemme, dai Dodici, vale a dire dai discepoli immediati di Gesù. Una decina d'anni prima di lui (intorno al 140) la stessa dottrina era stata messa sulla bocca del Cristo con queste parole famose (Matteo 28:19): 

Andate, insegnate le nazioni, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho prescritto. Ecco che io sono con voi fino alla fine del mondo.

Giustino non fa che tradurre in linguaggio storico ciò che, in Matteo, è reso in oracolo. 

Ecco la concezione della storia contro la quale Paolo, un Paolo fittizio, protesta. Illuminata da Giustino, la sua denuncia vuol dire: «Quella pretesa evangelizzazione del mondo da parte dei Dodici è una macchina da guerra diretta contro di me. Sono io ad essere venuto tra voi, Efesini, e non Giovanni. E voi, Romani, è me che avete visto e non Pietro. I Dodici si attribuiscono le mie fatiche; io sono spogliato dai Dodici». E quella denuncia, di cui i testi di Giustino ci danno la chiave, ci spiega a sua volta il vero obiettivo della leggenda che attribuisce l'evangelizzazione del mondo ai Dodici. Ci insegna che quella leggenda vuole demolire Paolo, il Paolo storico, a vantaggio dei Dodici e che il suo significato è questo: «L'infame Marcione pretende che Paolo sia stato il solo operaio del Cristo. Non lo credete. I veri operai del Cristo sono i Dodici. Sono loro che hanno convertito il mondo alla religione del Cristo. Sono loro d'altronde che il Cristo ha incaricato di quella missione quando ha detto: Insegnate tutte le nazioni».

 4. I superapostoli.

Se restasse un dubbio sulla validità di queste conclusioni esso svanirebbe dinanzi a 11:5 dove leggiamo: 

Credo di non essere inferiore in nulla ai superapostoli, tôn uperlian apostolôn

Eccoli, i Dodici con i loro capi Pietro, Giacomo e Giovanni. Si può dire che siano indicati qui per nome, talmente è impossibile fraintendersi sul significato del testo. L'espressione: «superapostoli» era chiaramente impiegata dagli avversari di Paolo per valorizzare il prestigio dei Dodici. Paolo se ne impadronisce e dice: «Questi superapostoli, come voi amate chiamare i Dodici, sappiate dunque che io lo sono quanto loro». Ora che lo sentiamo  porsi fieramente da eguale dei Dodici, come dubitare che questi stessi Dodici fossero anche i personaggi ai quali poco prima affermava ironicamente di non osare paragonarsi e di cui dichiarava nello stesso tempo di aver da lamentarsi? Quindi, senza contestazione possibile, sono proprio i Dodici che, in 10:12-18, hanno spogliato Paolo delle fatiche del suo apostolato. In 11:1-5 un nuovo misfatto è rimproverato loro. Essi sono accusati di aver alterato il vangelo e di aver predicato un Cristo menzognero al quale i Corinzi non hanno saputo sfortunatamente rifiutare la propria adesione. Noi che sappiamo che, dietro Paolo, si nasconde qui un discepolo di Marcione, non siamo sorpresi da questo atto d'accusa. Ne sveliamo il senso che è questo: «Io vi avevo predicato un Cristo spirituale, vale a dire il Dio buono disceso dal cielo e venuto sulla terra per liberare gli uomini dal giogo del Creatore. Ma come Eva all'origine dei tempi, voi vi siete lasciati sedurre dai servi del vostro tiranno, i quali, nella circostanza, sono stati i Dodici. Questi individui vi hanno predicato un Cristo carnale che aveva per missione di fondare un regno terreno. E voi li avete creduti sulla parola col pretesto che fossero i superapostoli. Io vi dico che io lo sono tanto quanto loro».

Ecco come intendo questo passo. Quanto ai commentatori, essi sono allo sbando completo. La maggior parte di loro pretendono che Paolo non prende affatto di mira gli apostoli propriamente detti, ma unicamente i predicatori giudaizzanti che pretendevano a torto di essere apostoli. Alcuni però, pur affermando che i giudaizzanti coi quali Paolo ha a che fare qui non siano gli apostoli, concordano sul fatto che Paolo fa loro una risposta nella quale gli apostoli sono alquanto ridimensionati. Alcuni dicono che «i superapostoli» non sono i Dodici, ma i giudaizzanti sconosciuti che operavano a Corinto e che Paolo magnifica per deriderli. Altri, invece, riconoscono che questi superapostoli devono essere i Dodici, ovvero Pietro, Giacomo e Giovanni; ma, secondo loro, i predicatori giudaizzanti che combattono Paolo e che Paolo combatte non rappresentano i Dodici. Tutti questi espedienti sprovvisti di coerenza si infrangono davanti alle osservazioni seguenti: a) Paolo impiega l'espressione «i superapostoli» solo perché i Corinzi gliela hanno sbattuta in faccia; ma non si riesce a concepire che i Corinzi abbiano indicato così dei predicatori diversi dai Dodici; b) Nell'ipotesi in cui i predicatori giudaizzanti avrebbero preteso a torto di essere i Dodici, Paolo avrebbe dovuto rispondere loro: «Voi non avete il diritto di pretendervi i Dodici, voi non li rappresentate; il Cristo che voi predicate non è quello dei Dodici»Ma egli accusa proprio certi misteriosi predicatori di predicare «un altro Cristo», ma si limita in seguito ad aggiungere che non è inferiore ai superapostoli, vale a dire ai Dodici. Da ciò che dice e da ciò che non dice si deve necessariamente concludere che questo «altro Cristo» è predicato dai Dodici; c) L'argomentazione di 11:1-6 è comprensibile quando la si mette in bocca a un Paolo fittizio che combatte, intorno al 140, i vescovi cattolici che si appellano ai Dodici; ma essa è sprovvista di qualsiasi particolare significato quando la si attribuisce al Paolo della Storia che si rivolgeva intorno all'anno 56 ai Corinzi. 

5. Ancora i superapostoli.

Il quarto supplemento, il più lungo di tutti, va da 11:12b a 12:12. In una pagina animata da un soffio potente e che si conta tra le più belle del Nuovo Testamento, Paolo vi fa la sua apologia. Sa che gloriarsi è l'atto di uno stolto. Ma commettendo per primi i suoi avversari questo atto, lo hanno costretto a commetterlo a sua volta. Egli fa dunque lo stolto. Ciò gli costa enormemente. Ma infine lo fa: si gloria. Di cosa? Innanzitutto dei vantaggi della carne. I suoi avversari si vantano di essere figli di Abramo. Ebbene, lo è, anche lui, figlio di Abramo. Di cosa ancora? Delle fatiche compiute per il Cristo. I suoi avversari si vantano di essere gli operai del Cristo. Ebbene, egli è, più di loro, l'operaio del Cristo. Egli ha lavorato più di loro, ha sofferto più di loro per la causa del Cristo, senza contare che egli ha la cura di tutte le chiese. Di cosa va ancora a gloriarsi? Della sua debolezza. A Damasco è scampato alla morte solo scendendo da una finestra in una cesta lungo le mura della città. E dopo ciò? Egli è stato rapito, non sa come, nel terzo cielo, nel paradiso. E lì ha udito parole ineffabili. Ma per non esserne gonfio di orgoglio, ha ricevuto una spina nella carne; un angelo di Satana lo ha colpito. Questa è l'apologia che Paolo fa di sé stesso. Essa si conclude con quella dichiarazione che abbiamo già ascoltato in 12:11: «Io non sono stato inferiore in nulla ai superapostoli».

Se gli slanci retorici pesassero qualcosa sulle bilance della critica, quella di cui si è appena letto una pallida analisi avrebbe un peso immenso e otterrebbe la nostra adesione con una vittoria schiacciante. Tutte le letterature della terra riunite assieme contengono, infatti, pochi accenti di un'eloquenza più trascinante. Ma quella fanfara sonora non può lo stesso farci dimenticare la domanda fondamentale che è questa: Chi sono questi uomini che si vantano di essere i figli di Abramo, di essere gli operai del Signore, che calpestano Paolo con il loro disprezzo, che con le lodi di cui si ricoprono fanno gli stolti che hanno costretto Paolo alla necessità di vantarsi a sua volta e di dire loro: «Io sono quanto voi, io sono più di voi»? Vediamo dove porta il panegirico dell'apostolo. La sua conclusione è in quella frase finale: «Io non sono stato inferiore in nulla ai superapostoli». Percepiamo bene d'altronde che vi sia qui ciò che la retorica definisce una litote e che il vero pensiero di Paolo sia questo: «Voi mi parlate sempre dei vostri superapostoli; sappiate dunque che io lo sono più di loro». Ma ciò è un dettaglio. Si è appena visto che «i superapostoli» sono i Dodici, devono necessariamente essere i Dodici. La veemente apologia di 11:13, 12:12 è dunque diretta contro i Dodici. È ai Dodici che essa rimprovera di essere vanitosi. Se solo avesse espresso contro di loro soltanto questa denuncia! Ma ne formula un'altra incomparabilmente più grave, un'altra di cui non ho ancora parlato e che è tempo ora di menzionare. Si legge in 11:13:

Questi uomini sono falsi apostoli, operai fraudolenti che si travestono da apostoli del Cristo. E ciò non deve sorprendere; perché Satana stesso si traveste da angelo di luce. Non sorprende quindi che i suoi ministri si travestano da ministri di giustizia. Ma la loro fine sarà secondo le loro opere. 

Ecco i Dodici, in particolare Pietro, Giacomo e Giovanni, trattati da ministri di Satana! Che si vuole di più per concludere che il Paolo che parla qui è un Paolo fittizio?

L'apologia di 11:13-12:12 è un'interpolazione come quella che abbiamo constatato in 10:12-11:6. Questi due brani hanno la tessa origine, perseguono lo stesso scopo. Aggiungo qui che sono intimamente legati l'uno all'altro e che il secondo è il seguito del primo. Siamo intorno al 140. Marcione che predica un Cristo spirituale, ha posto questo Cristo sotto il patrocinio di Paolo, ha fatto di Paolo il dottore della religione marcionita. Egli ha decretato che il cristianesimo volgare — quello che solo esisteva quando lui, Marcione, ha fatto il suo ingresso sulla scena — è un travestimento della dottrina portata da  Gesù, e ha reso i Dodici responsabili di questo travestimento. I vescovi cattolici hanno risposto che Paolo non era affatto presso i Dodici che avevano vissuto in compagnia di Gesù e a cui peraltro era dovuta l'espansione del movimento cristiano nel mondo. Paolo interviene allora di persona e alla difesa dei Dodici oppone la propria difesa. In 10:12-11:6 egli ha detto: «Non sono i Dodici che hanno convertito il mondo; sono io. E i Dodici, attribuendosi l'espansione del cristianesimo, mi spogliano delle mie fatiche». Egli prosegue la sua campagna in 11:13-12:12 e dice: «I Dodici — Pietro, Giacomo e Giovanni in testa — sono gli operai del Creatore, gli operai di Satana. Essi si vantano di essere i figli di Abramo; io lo sono come loro. Io ho lavorato e sofferto per il Cristo molto più di loro. E poi, io sono stato — senza che io possa dire come — rapito al terzo cielo, al cielo dove risiede il Dio buono».

Paolo attacca i Dodici. Ma, intorno al 140, i Dodici non vantavano sé stessi; li si vantava. E i loro lodatori erano i vescovi cattolici che, presentandosi come gli eredi del pensiero dei Dodici, avevano interesse a valorizzare questi personaggi. Paolo tiene conto di quella situazione. Più solitamente egli si accanisce contro i Dodici; allora egli è ritenuto scrivere ai Corinzi dell'anno 56. Ma qua e là egli si ricorda che il suo intervento ha luogo in realtà intorno al 140 e che si rivolge a tutti i cristiani della metà del secondo secolo. Allora egli assesta delle randellate ai vescovi e rimprovera ai fedeli di lasciarsi guidare da questi individui che li sfruttano. Così si spiega 11:4 dove Paolo dice in sostanza questo: «Voi ascoltate il primo venuto che vi predica un altro Gesù diverso da quello che io vi ho predicato...»; così si spiega anche  11:19-20: «Voi sopportate se vi si riduce in schiavitù, se vi si divora, se si dispone di voi, se ci s'innalza sopra di voi...» Coloro che «divorano» i Cristiani sono i vescovi del 140 che sanno già che una delle tattiche principali del pastore è di tosare il proprio gregge. [2] E coloro che si elevano al di sopra dei cristiani, sono gli stessi vescovi che, a detta di Erma, si riservano il primo posto e si iniziano all'arte della sfilata.  

Ancora una parola sull'apologia 11:13-12:12. L'autore ha aggiunto al testo — autentico — 11:12 dove Paolo, che si è appena vantato di non essere mai stato a carico dei Corinzi, dichiara che non sarà mai più a carico loro. Il lettore, che ha ascoltato Paolo fare il suo panegirico, vede senza sorpresa questo panegirico continuare, e passa senza accorgersi dall'apologia storica all'apologia fittizia. La transizione è quindi condotta abilmente. Non così abilmente però che un raccordo non abbia dovuto essere fabbricato. Ciò è dovuto al fatto che il nostro brano la cui essenza è apologetica esordisce con un attacco violento contro i Dodici: «Questi uomini sono falsi apostoli». Questo esordio non ha alcun punto di contatto con il testo di Paolo che spiegava perché egli non sarà mai a carico dei Corinzi, dice: «Agirò così per togliere ogni pretesto a coloro che cercano un pretesto per gloriarsi di me». Per creare questo punto di contatto l'interpolatore ha modificato il testo e vi ha aggiunto queste parole: «Affinché siano trovati come noi». Così facendo non ha ottenuto altro risultato che mettere i commentatori in una difficoltà inestricabile, perché questa parte della frase non ha alcun significato plausibile. Siamo quindi in presenza di un tentativo che non ha avuto successo.

6. L'etnarca di Areta

Nel corso della sua apologia Paolo ci informa sulla sua vita. Le informazioni che fornisce aggiungono a quelle che ci provengono dagli Atti precisazioni di cui due soltanto possono essere verificate. Diciamo fin da subito che la verifica non è favorevole. Paolo ci dice che egli scappò da Damasco per sfuggire all'etnarca del re Areta. Ma Damasco sembra essere stata per tutto il primo secolo dell'era cristiana sotto il potere romano. In ogni caso, a supporre che il re arabo Areta IV ne sia stato il padrone, ciò ha potuto accadere solo dopo la morte di Tiberio, vale a dire al più presto nell'anno 37. E siccome il viaggio di Paolo a Damasco — viaggio menzionato negli Atti — deve essere collocato prima di quella data, non si vede come l'apostolo sarebbe stato costretto ad abbandonare Damasco per sfuggire alla polizia di Areta. Loisy, Les Actes des apôtres, a pag. 420 congettura che questo re avesse, con il consenso dei Romani, un rappresentante a Damasco incaricato di mantenere l'ordine nel quartiere arabo di quella città. Ma quella ipotesi, immaginata unicamente per salvare il nostro testo, è proprio improbabile. Il sistema delle polizie multiple, laddove ha funzionato, ha sempre favorito i malfattori che, se perseguiti in un quartiere, si rifugiavano nell'altro. Esso è stato imposto talvolta a governi deboli che lo hanno subìto malgrado loro. Ma i Romani, a cui Areta non era in condizioni di imporre la legge, non hanno potuto ingegnarsi essi stessi a rendere inefficiente la polizia di Damasco. D'altronde cosa si guadagna a supporre che il potere romano abbia lasciato ad Areta la responsabilità di far sorvegliare il quartiere arabo di Damasco! Paolo, che faceva la sua propaganda presso ebrei di origine o di istruzione, non aveva l'occasione di recarsi nel quartiere arabo. E se, per caso, vi si fosse avventurato, avrebbe potuto, al primo allarme, passare rapidamente nel quartiere romano senza essere indotto a scendere attraverso un'apertura scavata nelle mura della città. Insomma, nulla si oppone al fatto che il racconto degli Atti 9:21 sia storico. E la precisazione che aggiunge 2 Corinzi 11:33 è un artificio che simula le informazioni personali per imporle a noi.

7. Data della visione di Paolo

La stessa osservazione vale per il testo di 12:2. Paolo che ci intrattiene qui con una visione da cui è stato favorito, ci tiene a farci sapere che, da allora, quattordici anni sono trascorsi. Quella preoccupazione cronologica ci avverte che siamo di fronte ad un evento che è stato fondamentale nella vita dell'apostolo. Nulla del genere ha avuto luogo da quella data; neppure nulla di simile aveva avuto luogo prima. Quella visione è una vetta unica sulla quale si arresta immediatamente lo sguardo di Paolo non appena si volge verso il passato. Ma gli Atti riportano che Paolo ebbe una visione quando fu colpito sulla via di Damasco. Quel favore celeste ebbe, nella vita dell'apostolo, un'importanza alla quale nulla può essere paragonato, poiché è essa che cambiò Paolo, che spostò l'asse della sua mentalità, della sua attività. Concludiamo che l'autore di 2 Corinzi 10:2 si riferisce alla visione riportata dagli Atti. Vi si riferisce; ma aggiunge che quattordici anni sono trascorsi da questo fatto meraviglioso. Qui egli si sbaglia, perché, tra il dramma della via di Damasco e la seconda epistola ai Corinzi, più di quattordici anni sono passati. E siccome Paolo non ha potuto commettere un simile errore, non possiamo sfuggire a quella conseguenza, che il Paolo che si pone qui sulla scena è un Paolo fittizio. Noi siamo già arrivati più volte a questo risultato; il testo 12:2 ci riporta lì ancora una volta.

NOTE

[1] Si veda l'Epître aux Romains, pag. 13.

[2] Si veda La première épître aux Corinthiens, apg. 59. Montano elevò all'altezza di una istituzione apostolica e organizzò una pratica che, da molto tempo, era corrente. 

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