martedì 10 ottobre 2023

I Vangeli canonici e gli apocrifi

 (segue da qui)

§ 94) I Vangeli canonici e gli apocrifi— Tutti i Vangeli, canonici ed apocrifi, sono stati scritti esclusivamente in lingua greca (eccetto qualche apocrifo in lingua siriaca). Si discute solo dai dotti ecclesiastici circa il Vangelo di Matteo, che si affermò essere stato inizialmente scritto in ebraico, con un misto di siriaco, e più tardi tradotto in greco. [1] Questa affermazione però è rimasta e rimarrà sempre sfornita di prove. Giacché — come altrove rilevato — il cristianesimo, come tale, nacque nell'oriente greco, per cui la sua lingua non poteva essere che la lingua greca.

Che i «Vangeli» siano stati molti, e non soltanto i quattro trasmessi dal canone neo-testamentario, è un fatto notorio: basti dire che anche di recente sono state fatte raccolte di Vangeli, mentre il più gran numero di essi deve ritenersi perduto. Del resto tutto questo è ammesso dagli scrittori ecclesiastici, ed è riconosciuto dal Vangelo di Luca, [2] per cui è superfluo argomentare più oltre.

Molti dunque erano gli scritti che, sotto il nome generico di Vangeli, a suo tempo giravano per le mani dei fedeli. Verosimilmente anzi ogni comunità aveva il suo «Vangelo», che era un'elaborazione tutta propria della «buona novella», e della biografia attribuita al «Maestro». Solo dopo il secolo IV le gerarchie cattoliche, ovverossia atanasiane [3] — la cui concezione era rimasta vittoriosa sulle opposte concezioni (specie l'ariana) — per impedire il moltiplicarsi degli scismi e delle sette, ciascuna delle quali fondava la propria credenza sopra un proprio vangelo, cominciarono a farne una cernita, e, scelti alla fine quattro dei tanti vangeli conosciuti, li raggrupparono, insieme ad altri opuscoli minori, perché costituissero il canone fondamentale della nuova dottrina.

Il criterio poi che presiedette a tale selezione (la quale fu graduale e non ebbe luogo in un periodo determinato) è stato un criterio eminentemente giudaico: analogo cioè a quello che aveva in precedenza guidato i Sacerdoti e gli Scribi del Tempio, nella cernita dei componimenti da ammettere, o da escludere dal canone biblico. Furono quindi esclusi tutti quegli opuscoli che non riflettevano opinioni perfettamente consone coi principi della fazione cattolica vittoriosa, e furono esclusi altresì i componimenti più antichi, che, riflettendo l'aspetto originario del fenomeno, non comprendevano gli sviluppi ulteriori che l'idea aveva assimilato.

Un tale fatto, insieme colla perdita conseguente dei vari componimenti esclusi, rese difficile più tardi l'analisi del processo di formazione dell'idea embrionale. Tuttavia, anche considerando soltanto i quattro Vangeli canonici sotto l'aspetto cronologico, essi ci rivelano ugualmente l'evoluzione che ebbe a compiere l'idea: dall'immanentismo di Matteo, la cui raccolta originaria (Proto-Matteo) deve aver avuto inizio [4] nel periodo di Paolo 35-45 E.V.), al trascendentismo di Giovanni, la cui compilazione risale almeno alla fine del secondo secolo.

Troviamo in Matteo — esclusa la parte aggiunta ed i passi interpolati, facilmente individuabili — la tradizione originaria e prettamente giudaica dell'idea. In Matteo difatti «Gesù» è un «Rabbi»: [5] un dottore della legge cioè, come ne esistevano tanti, specie tra i farisei. Egli è Maestro di una scuola prettamente israelita, e la predicazione di lui non si interessa che dei figli d'Israele. Gli stranieri, per il «Gesù» di Matteo, non contano; [6] mentre la predicazione del Gesù di Matteo — come già la predicazione dei profeti maggiori — è prepotente, totalitaria, esclusiva. «Chi non è con me è contro di me, e chi non semina con me sparge», [7] è il programma del Gesù di Matteo. E non è chi non veda in questi concetti il programma politico e totalitario di Giuda Galileo. Tutto quello che esula da tale concezione, od è in contrasto colla stessa, è interpolazione tardiva, frutto cioè delle ulteriori elaborazioni della leggenda, tendenti a descrivere un «Gesù», quale il pensiero se lo era venuto raffigurando, dopo che l'immagine mite e rassegnata di Gesù d'Anano, portata nei territori della diaspora greca, si era sostituita, nelle menti dei fedeli, all'immagine energica e volitiva del filosofo galileo.

In Marco invece troviamo una prima trasformazione del pensiero messianico. Il Gesù di Marco non è più il terribile Gesù di Matteo «venuto a portare la guerra»; [8] ma è già un essere più mite: «Chi non è contro di noi è con noi» [9] egli proclama, il che rivela che al momento in cui la raccolta, o meglio, l'elaborazione di questo vangelo fu iniziata, la corrente zelota, intollerante e totalitaria, aveva cessato di esistere, assorbita dalla corrente prettamente mistica. È insomma il concetto mistico di Paolo, più che del Maestro Galileo, che prevale nel Vangelo di Marco; il che ci rivela che Gerusalemme era già caduta (anno 70 E.V.). In altri termini, mentre il Vangelo di Matteo ci rivela che la parte originaria di esso (Proto-Matteo) era stata raccolta quando la corrente zelota contava ancora di riuscire colla forza ad ottenere l'avveramento messianico, il Vangelo di Marco ci manifesta che all'epoca della sua compilazione ogni velleità zelota era stata abbandonata, e tra gli adepti si coltivava ormai soltanto l'aspetto escatologico dell'idea del Maestro, trasformato e adattato alle nuove esigenze.

In Luca l'evoluzione e trasformazione dell'idea è ancor più avanzata, talmente che l'inclusione in esso di alcune frasi a suo tempo pronunziate dal Maestro di Galilea (XIV-26), fa ormai uno strano contrasto col contesto elaborato del libretto. Con Luca difatti ci troviamo in pieno periodo dottrinale, quando si ricostruisce la vita del Maestro in base alle profezie messianiche, ed in base a tutti gli apporti ulteriori della tradizione ormai completatasi. Il che ci porta ad un'epoca relativamente tarda: non prima cioè dell'anno 100-120 E.V.

Del resto si evince dal Terzo Vangelo che l'autore traccia la biografia del Maestro in base agli infiniti opuscoli che giravano per le mani dei fedeli, [10] ed elaborandone il materiale, in modo da farne un tutto, rispondente al concetto che ormai si era formato in mezzo ai fedeli, circa la missione del «Gesù». Sono attutiti insomma in Luca i contrasti di carattere, che si notano invece facilmente in Matteo, e che rivelano la mano interpolatrice. Luca è un tutto pressoché armonico, e preludia a quel capolavoro di misticismo teologico che sarà più tardi il Vangelo di Giovanni.

Mentre difatti in Matteo troviamo due distintive e diverse personalità del «Gesù», e cioè l'uomo sprezzante e battagliero nella parte originaria, e l'uomo mite e sopportevole nella parte sovrapposta; nei Vangeli di Marco e di Luca le due parti contrastanti si presentano quasi fuse e amalgamate. Troviamo infatti nei due ultimi pressoché una unicità di vedute, e troviamo molto attenuati [11] quei particolari, che nel «Gesù Galileo» di Matteo rivelano apertamente il «Giuda Galileo» di Flavio.

Quanto sopra ci fa intuire il processo trasformativo che lentamente aveva subìto la tradizione, e ci autorizza a fissare, sia pure per approssimazione, le date in cui i Vangeli furono raccolti. È per questo che mentre il Vangelo di Matteo è stato da noi riferito, per la sua parte primigenia (pura biografia), agli anni 35-40 E.V., il Vangelo di Marco deve fissarsi all'epoca dell'ultimo rifacimento di Matteo, dopo caduta Gerusalemme e dopo fallita l'ideologia zelota; verso l'anno 8090 circa pertanto; mentre il Vangelo di Luca non può essere anteriore al 100-120.

Da ultimo il Quarto Vangelo manifesta all'evidenza che all'epoca della sua compilazione il processo trasformativo dell'idea era già concluso. Il Cristianesimo costituiva ormai, a quell'epoca, una società organizzata, e le contestazioni già sorte coi seguaci delle altre credenze, nonché coi seguaci delle concezioni filosofiche collaterali, avevano affinato i successori di Paolo. Il Vangelo di Giovanni difatti appare un'elaborazione accurata della dottrina, quale si era venuta formando in base alle ultime evoluzioni del concetto paolista. E mentre le fonti cui avrà ricorso il compilatore per i riferimenti di fatto saranno state le molte raccolte, che ancora circolavano per le mani dei fedeli, il pensiero, dal compilatore attribuito al Maestro, può essere stato tratto dalla Didakè, dal Pastore di Erma, [12] e dagli altri opuscoli congeneri del primo periodo apologetico. In conseguenza, il Vangelo di Giovanni non può fissarsi prima del 150-180 E.V.


NOTE

[1] Per essere precisi riportiamo qui dalla Storia della Chiesa di Mons. Orsi, quella che è anche adesso l'opinione ufficiale dei cattolici: «Cristo Nostro Signore né scrisse la sua dottrina, le sue leggi, ed i suoi consigli, né domandò ai suoi discepoli di scrivere tali cose; ma d'insegnarle e predicarle alle genti. Niuno difatti s'era applicato a scrivere l'evangelo (Eusebio, lib. 3 Hist. C. 24), cioè la storia della scuola e della vita del divino Maestro, ma unicamente ad imprimere gli esempi di lui, le sue massime ed istruzioni, ed i suoi sentimenti negli animi dei fedeli. S. Matteo fu il primo a scrivere, prima di lasciare la Giudea e portarsi alle genti, questa divina storia. Né ciò egli fece di propria iniziativa, o perché giudicasse un simile lavoro di un'assoluta necessità, ma unicamente per condiscendere e compiacere alle istanze dei Giudei convertiti, che ardentemente desideravano di pascere e riempire i loro sensi di quelle divine immagini, che già avevano scolpite profondamente nei cuori. Perciò egli scrisse, come comunemente insegnano i padri, nel volgare ebraico idioma, mescolato allora di voci siriache e caldee, e intelligibile solo ai Giudei, e neppure a tutti, ma a quelli soli che dimorano entro gli angusti confini di Palestina. Allorché Marco e Luca e Giovanni scrissero i loro Vangeli in greco, la fede e la religione cristiana erano già penetrate, e ogni dì dilatavasi tra mille barbare genti». (G. A. Orsi, Storia Ecclesiastica, ed. Venezia, 1749, vol. I, XXXII).

[2] Sugli «apocrifi». — Per meglio ragguagliare il lettore circa questo interessante argomento riportiamo ancora ciò che scrisse Mons. Orsi sopra citato. Dopo aver egli rilevato che S. Giovanni Evangelista, secondo un'antica leggenda, aveva deposto un prete (presbuteros = anziano) dell'Asia, perché aveva scritto e pubblicato sotto il nome di S. Paolo la relazione dei suoi viaggi, aggiunge: «Non fu però solo quel prete asiatico, in questi primi tempi del Cristianesimo, reo di una siffatta temerarietà, vi furono altri, non solo tra gli eretici, ma anche tra i cattolici, alcuni dei quali furono così arditi da pubblicare sotto i nomi venerabili degli Apostoli, i parti del loro ingegno. Facendo Eusebio (lib. 3, Hist., c. 25) la numerazione dei libri sacri del Nuovo Testamento, osserva che oltre a quelli i quali con unanime consenso erano ricevuti da tutti ed ammessi nel canone dei libri sacri come divinamente ispirati, altri a suo tempo ve ne erano i quali, benché fossero stati citati da alcuni antichi scrittori, non avevano però conseguito una certa e indubitabile autorità. Annoveransi tra questi in primo luogo l'epistola di S. Giacomo, quella di S. Giuda, la seconda del principe degli Apostoli, e la seconda e la terza di S. Giovanni; le quali poi da tutta la Chiesa sono state ammesse nel canone della scrittura. Indi nella medesima classe dei libri dubbi ripone gli atti di Paolo, il libro intitolato “Il Pastore”, l'Apocalisse o rivelazione di Pietro, l'epistola di Barnaba, le istituzioni degli Apostoli, e l'evangelo secondo gli Ebrei, del quale dice che sommamente si dilettavano quei Giudei, i quali avevano abbracciato la fede del Gesù Cristo. Finalmente nell'ultima classe descrive i libri che sotto il nome degli Apostoli erano stati dagli eretici divulgati, quali erano gli Evangeli di Pietro, di Tommaso, di Mattia e d'alcuni altri, e gli Atti di Andrea, di Giovanni e similmente di alcuni altri apostoli» (op. cit., vol. I, C. 44).

[3] Sul termine «cattolico». — Il termine «cattolico» nel senso di «universale», per designare la comunità cristiana rimasta vittoriosa sulle altre comunità aventi principi diversi, lo troviamo per la prima volta in una lettera della Chiesa di Smirne alla Chiesa di Dio che abita a Filomele, documento tramandatoci col titolo «Martirio di Policarpo» (perché ivi è narrata la fine di Policarpo già Vescovo di Smirne). In tale documento si manda un saluto a tutte le comunità della «Santa Cattolica Chiesa». Perciò tale documento dovrebbe essere il primo ad aver dato atto di una denominazione che assurse in seguito ad alta importanza. La critica moderna però ha ritenuto e ritiene che il termine «cattolica» di tale lettera sia stato aggiunto al documento in epoca posteriore, poiché all'epoca in cui la lettera fu scritta (155-156 E.V.) si riconosceva bensì che la Chiesa di Dio dovesse essere «cattolica», e cioè universale (cfr. Erma, Il Pastore, Sim. IX, 17), come era universale il concetto politico dell'impero, ma non c'era stata ancora nessuna comunità di un certo indirizzo, che si fosse arrogato quell'attributo, in opposizione alle altre comunità d'indirizzo diverso.

[4] Uno studio analitico del Vangelo di Matteo può condurci ad accertare con una certa approssimazione la parte originaria di esso (Proto-Matteo), scritta verso il 35-45 circa, e che ci dà del Maestro un'idea conforme a quella che la storia ci dà di Giuda Galileo, e la parte sovrapposta, risalente all'80 circa, e costituita dalle parabole e dai discorsi, nonché dagli episodi aggiunti al processo di Gesù.

[5] Matteo, XXVI, 25, 49.

[6] Matteo, XV, 26.

[7] Matteo, XII, 30.

[8] Matteo, X, 34.

[9] Non è inverosimile che il detto «chi non è contro di noi è con noi» sia entrato nella tradizione cristiana dal ricordo della lotta tra Pompeo e Cesare, per attenuare il detto totalitario del Maestro, quale si legge in Matteo: «Chi non è con me è contro di me».

[10] Luca, I, 1-2.

[11] Cfr. Matteo, X, 5-7 con Luca, X, 3-5; Matteo, X, 34-36 con Luca, XII, 51-53; ecc.

[12] La Didaché, o dottrina dei dodici Apostoli, è il primo tentativo sistematico di elaborare la dottrina cristiana quale si era venuta formando. L'epoca di sua compilazione è stata fissata dalla critica tra il 110 ed il 130 E.V. Il «Pastore» di Erma è un altro componimento col quale il suo autore, sotto forma di visioni e parabole, presenta una ulteriore elaborazione della dottrina. Esso risale al 150 circa E.V. Cfr. l'edizione S.E.I., 1954, SS. Patrum Apostolicorum opera.  

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