venerdì 22 settembre 2023

La «Prima Petri» e il motto «Tu es Petrus»

 (segue da qui)

§ 77) La «Prima Petri» e il motto «Tu es Petrus». — Ultimi argomenti che i tradizionalisti invocano a sostegno del viaggio a Roma di Pietro sono: la prima lettera di Pietro, e il noto passo di Matteo «Tu es Petrus».

a) Circa la lettera di Pietro si afferma che dal momento che in tale scritto, inviato ocme circolare a tutte le comunità cristiane dell'Asia, si mandano ai destinatari i saluti della Chiesa ch'è in Babilonia, poiché Babilonia era allora chiamata, con linguaggio biblico, la capitale dell'Impero, non sarebbe dubbio che proprio da Roma sarebbe stata mandata quella lettera. In conseguenza non dovrebbe dubitarsi che Pietro fosse stato a Roma, a capo di quella comunità, dato che soltanto di là egli aveva mandato la sua «epistola».

Senonché occorrerebbe provare anzitutto l'autenticità di quella lettera, mentre la forma piuttosto elaborata, ed il fatto ch'essa presuppone l'esistenza di tante altre comunità già costituite, ci rivela apertamente che trattasi di uno scritto posteriore anche a Clemente Romano. D'altra parte è notorio che gli scritti non autentici pullulavano nei primi secoli, specie dopo il secondo secolo, tanto che le stesse autorità ecclesiastiche, quando — assoggettato ormai all'idea il mondo romano — dovettero scegliere i testi canonici da consacrare come basi della nuova dottrina, dovettero fare una cernita tra un numero rilevante di opuscoli, scegliendo per altro non in base alla storicità di ciascuno, ma in base all'elemento «ispirazione», che da ciascuno si riteneva emanasse. E se si pensa che i cosiddetti «Vangeli», che a quei tempi andavano per le mani dei fedeli, ascendevano a qualche centinaio, si può arguire a quante centinaia dovevano ammontare le «epistole», che tutte le comunità cristiane tiravano fuori, per vantare antichi rapporti cogli apostoli.

Difatti il poter dimostrare, a vittoria conseguita, che la propria Chiesa avesse avuto rapporti con un apostolo, fruttava privilegi sostanziali. Si capirà quindi facilmente a quali artifici saranno ricorse le prime comunità cristiane per fabbricare documenti, che tale titolo di nobiltà della loro chiesa avessero consacrato. Più di frequente però accadeva che vecchi documenti di mittenti sconosciuti venissero attribuiti ad apostoli o martiri divenuti celebrei, interpolandosi qualche frase o qualche passo che avesse confermato la nuova attribuzione. Fu così che all'epistola in parola sarà stato mutato il primo versetto, in modo da farla attribuire all'apostolo Pietro.

Del resto sappiamo da Eusebio che ancora ai suoi tempi erano contestate dalla Chiesa la seconda lettera di Pietro, la lettera di Giacomo, la lettera di Giuda e le due ultime lettere di Giovanni, [1] documenti questi che più tardi furono raccolti nel canone. Ora, se ancora nel 4° secolo si ritenevano dalla stessa Chiesa ufficiale contestabili quasi tutte le lettere del nuovo testamento, all'infuori di quelle di Paolo, vuol dire che solo Paolo, uomo di greca cultura, aveva usato il metodo epistolare, seguito più tardi dai Vescovi, mentre tale metodo era rimasto sconosciuto agli anziani di Gerusalemme.

b) Si sostiene inoltre che avendo Gesù — come risulterebbe da Matteo — confidato a Pietro l'incarico di costituire la Chiesa, trattandosi di Chiesa a carattere universale, in nessun luogo se non a Roma avrebbe potuto risiedere Pietro, quale capo della religione universale, perché era proprio Roma la capitale dell'Impero Universale. Senonché — a parte gli evidenti artifici di un simile ragionamento — sta di fatto che il passo di Matteo, laddove si parla della preminenza di Pietro sugli altri apostoli, deve ritenersi estraneo al testo originario, ed interpolato in epoca tarda.

Recita così il passo controverso: [2] «Poi Gesù domandò ai suoi discepoli: “Chi dicono gli uomini che io mi sia?» ed essi risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia; altri Geremia, o un altro dei profeti”.

Ed egli chiese loro: “E voi dite che io sono?” E Simon Pietro rispondendo affermò: “Tu sei il Messia, figliuolo del Dio vivente”. E Gesù rispondendo disse: “Tu sei beato, o Simone figlio di Giona, conciossiacché la carne ed il sangue non ti abbiano rivelato questo, ma il Padre mio che sta nei cieli. Ed io altresì ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non la potranno vincere: ed io ti darò le chiavi del Regno dei Cieli, e tutto ciò che tu avrai legato in terra sarà legato nei Cieli, e tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto nei Cieli”. Ed allora egli ingiunse ai suoi discepoli di non dire ad alcuno ch'ei fosse Gesù Cristo».

Un esame di questo passo, in relazione a tutto il Vangelo di Matteo, non può non convincerci che i versetti 17, 18, 19 sono dovuti ad opera di interpolatori tardivi. Specialmente le parole «la carne ed il sangue» non possono essere di Matteo; si sente il mutamento di stile, come lo si sentirebbe se in un passo del Boccaccio si intercalasse un periodo del Carducci. Non è possibile, dal punto di vista formale, ritenere tutto intero quel passo sgorgato dalla stessa mente. Si aggiunga che il bisticcio tra petra e Petròs (a parte il fatto che Simone assunse il nome di Pietro dopo morto il Maestro, § 84) era possibile se Gesù avesse parlato la lingua greca. Gesù invece aveva parlato l'aramaico.

Comunque non si capirebbe perché Matteo abbia presentato in quel modo l'episodio, mentre gli altri evangelisti, che pure riferiscono il medesimo fatto quasi colle stesse parole, nulla dicono della pretesa risposta di Gesù, ma solo riportano il divieto fatto dal Maestro di divulgare la voce che egli fosse il «Cristo».

Difatti in Marco così ci viene presentato lo stesso episodio: [3] «Poi Gesù domandò ai suoi discepoli dicendo loro: “Chi dicono gli uomini che io sono?”. Ed essi risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, ed altri uno dei profeti”. Ed egli disse loro: “E voi chi dite che io sono?”. E Pietro rispondendo disse: “Tu sei il Cristo”. Ed egli divietò severamente che a niuno dicessero ciò di lui»

Ed ancora leggiamo in Luca: [4] «I discepoli erano con lui ed egli li interrogò: “Chi dicono le turbe che io sono?”. Ed essi rispondendo dissero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, ed altri uno dei profeti più antichi che è risuscitato”. Ed egli disse loro: “E voi chi dite che io sono?” E Pietro rispondendo disse: “Il Messia di Dio”. Ed egli divietò loro strettamente che nol dicessero ad alcuno». [5

Dalle suddette versioni dello stesso episodio si ricava che tutti i tre evangelisti narrano il fatto allo stesso modo, se si esclude il passo interpolato di Matteo. Ora, se non si trattasse di uno di quei passi ripetuti nei sinottici quasi colle stesse virgole, potremmo pensare a qualche circostanza nota ad uno ed ignota agli altri; ma qui è proprio lo stesso episodio che è riportato, colle medesime parole: ìndice sicuro quindi, che la fonte era stata unica. È naturale pertanto che si debba ritenere effetto d'interpolazione quella parte del passo di Matteo, che non risulta confermata dagli altri Vangeli. 

Ma anche dal contesto del discorso si manifesta essere stato quel passo incastrato tardivamente tra i due periodi originari. È verosimile difatti che il «Maestro» si fosse accorto del molto seguito ch'esso aveva ottenuto, e del risveglio di speranze messianiche che la sua predicazione aveva suscitato. Volendo quindi evitare che tali voci fossero propagate, per tema di complicazioni, vietò ai discepoli di divulgarle. Ciò posto, ognun vede come la digressione in favore di Pietro, quale si legge in Matteo, non ha nulla a che vedere colla prima domanda del Maestro, e col divieto di propagare quanto quelli avevano detto in risposta.

E che i tre versetti, relativi alla supremazia di Pietro, debbano ritenersi interpolati tardivamente nel testo di Matteo, risulta in modo inconfondibile dalla prova filologica. Leggiamo infatti in quel passo: «Le porte dell'inferno non la potranno vincere». Ora è risaputo che il concetto di inferno, quale in seguito si è venuto formando, non esisteva presso i primi cristiani, tanto è vero che noi non lo troviamo in Paolo, e non lo troviamo neppure nei Vangeli. Gli stessi evangelisti, per esprimere il concetto che più tardi i latini espressero colla voce «inferno» adoperarono sempre la parola «Geenna».

Specialmente in Matteo la parola «Geenna» viene usata più di frequente. Così, è nella Geenna che si è gettati quando si è peccato; [6] è nella Geenna in cui si può perdere l'anima ed il corpo; [7] ed è ancora la «Geenna del fuoco» che deve castigare il peccatore. [8]

Se dunque l'evangelista ha parlato sempre di Geenna, o Geenna del fuoco, [9] quando ha voluto esprimere quel concetto, che più tardi la Chiesa cristiana (in conformità colle misteriosofie, delle quali veniva assimilando la dottrina) esprimerà colla parola inferno, ciò costituisce prova inconfondibile, per dedurre che il passo controverso è stato interpolato tardivamente, quando cioè la parola «inferno» — presa a prestito dal paganesimo — entrò nell'uso presso i cristiani (§ 89). Matteo non avrebbe potuto adoperare la parola «inferno», perché Matteo (o meglio, il compilatore che ne assunse il nome) conosceva soltanto la parola «Geenna». [10]

L'interpolazione quindi non potrebbe emergere più chiaramente. E poiché una volta chiarito questo passo di Matteo, agevolmente possono comprendersi tutti gli altri equivoci, originati dal passo stesso, facile sarà dedurre come di nessuna rilevanza debbano essere ritenute le leggende, più tardi formatesi in base al passo medesimo, circa un apostolato di Pietro in Roma.

c) Per chiudere questa parte, non è inutile ricordare che dei discepoli prediletti, colui che aveva goduto di maggiore autorità presso il Maestro, succedendogli poi nella direzione della «scuola» (la quale avrebbe dovuto avere, ed ebbe inizialmente a propria sede-madre, soltanto Gerusalemme) non era stato Simone, bensì Giacomo. Ciò si desume sia dagli Atti (XII, 17), laddove si parla di «rapportare» a Giacomo, come al Capo della comunità; sia dal fatto che Paolo, parlando dei tre discepoli, elenca per primo Giacomo; [11] sia, da ultimo, dal timore che manifesta Pietro in Antiochia, al sopraggiungere dei messi di Giacomo stesso; [12] timore che non si potrebbe spiegare, se il Capo e Gerarca Supremo della comunità, dopo morto il Maestro, non fosse stato Giacomo. Solo più tardi, quando — morti ormai da tempo i primi apostoli — la corrente conciliatrice tra i principi estensivi di Paolo e i principi restrittivi di Giacomo ebbe a trionfare, i giudeo-cristiani portarono avanti e valorizzarono la modesta figura di Pietro (che aveva patrocinato quella conciliazione), in opposizione alla preminente figura di Paolo, al quale invece andava di fatto attribuito il merito di tutta la costruzione cristiana. 

NOTE

[1] Eusebio, Hist., lib. III, c. 25.

[2] Matteo, XVI, 13-20.

[3] Marco, VIII, 27-30.

[4] Luca, IX, 18-21.

[5] Cfr. anche Giovanni, I, 42; VI, 69.

[6] Matteo V, 29.

[7] Matteo, V, 28.

[8] Matteo, V, 22; XVIII, 9.

[9] Perché si abbia un concetto esatto della «Geenna» nel senso in cui il termine venne adoperato a suo tempo dagli Ebrei, è bene ricordare qui che il nome «Geenna» il cui significato è «Valle di Ennam», deriva da una valle posta a sud-est di Gerusalemme. Questa valle, durante il regno di Manasse (nel quale periodo, essendo stato sconfessato il culto di Jahvé, si erano introdotti i culti assiri), era divenuta la sede del culto di Marduk (Moloch), ed ivi veniva alimentato continuamente il fuoco sacro, attraverso il quale dovevano essere passati i bambini per l'iniziazione in quella fede. Si trattava in sostanza di un fuoco purificatore, come è purificatore il rito attuale del battesimo. Mutare però le direttive politico-religiose sotto i successori di Manasse, Giosia segnò l'anatema della valle; la quale fu quindi adoperata quale scarico per tutti i rifiuti e le immondizie della città. Anche questo nuovo uso però implicava l'esistenza continua del fuoco nella Valle, per bruciarvi, a scopo d'igiene, i detriti infetti ivi portati; dal che nacque il detto «buttare nella Geenna» e «bruciare nella Geenna». Sull'argomento dettaglieremo in Storia d'Israele.

[10] A maggiore conferma ricordiamo che anche nel Corano, la cui concezione escatologica deriva dall'idea giudeo-farisaica, il concetto d'inferno viene indicato colla parola «Geenna» (XV, 43-44; X, 4-52). Notare poi che la parola «inferno» (ade) si trova bensì nei Settanta (cfr. Isaia, XIV, 9, 11, 15 ecc.), ma col significato di sheòl (cfr. il § 104). 

[11] Galati, II, 9.

[12] Galati, II, 12.      

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