martedì 29 agosto 2023

Le circostanze d'azione: la dottrina

 (segue da qui)

§ 52) Le circostanze d'azione: la dottrina. — Venendo alla dottrina di Giuda Galileo, la stessa viene sintetizzata da Giuseppe Flavio in più punti della sua storia. Si legge in Guerra (II, VIII, 1): «Trasformato in provincia il regno di Archelao, fu mandato a reggerla, in qualità di procuratore, certo Coponio. Nel tempo del suo governo un certo Galileo, che aveva nome Giuda, eccitò a ribellione i Giudei, qualificandoli vigliacchi (ignavos) qualora avessero accettato di pagare il tributo ai romani, ed avessero riconosciuto, oltre a Dio, padroni mortali. Era egli infatti maestro di una scuola tutta sua speciale». Ed in Antichità (XVIII, 4) così lo stesso storico completa il suo concetto, dopo aver chiarito che tre erano state, prima di Giuda Galileo, le «scuole» che raccoglievano il pensiero dei Giudei: «La quarta delle scuole che racchiudono il pensiero giudaico ebbe per suo primo maestro Giuda Galileo. Nel complesso essa segue il modo di pensare dei Farisei; ma ha di proprio un amore ardentissimo di libertà, per cui i suoi seguaci non riconoscono nessun padrone e signore all'infuori di Dio, padrone supremo, e piuttosto che chiamare padrone alcun uomo, preferiscono vedere se stessi in pericolo di morire cento volte, e vedere congiunti ed amici straziati ed uccisi. Ma sapendo io che molte persone hanno già avuto prove sufficienti di questa loro incrollabile fermezza, eviterò di parlarne più a lungo ... Appunto di questa pazzia cominciò la nazione tutta a contagiarsi: a tal punto che, quando più tardi si sono aggiunte le pretese smodate del governatore Gessio Floro (a. 66 E.V.), i Giudei decisero di ribellarsi a Roma». E la narrazione viene proseguita da Giuseppe in Guerra, esponendosi le vicende della «scuola» di Giuda, fino ad Eleazaro di Giairo, ultimo suo esponente in Giudea.

I passi che abbiamo trascritto sintetizzano il «punto» sul quale tutte le vicende messianiche ebbero a svolgersi. Tali passi non avevano bisogno di chiose al momento in cui lo storico li dettava in Roma (71-75 circa E.V.), perché i fatti in essi accennati erano allora a conoscenza di tutti, e si sapeva da tutti che oltre ai tre partiti storici di Giudea, quali erano stati quello dei Sadducei, quello dei Farisei, e quello degli Esseni, si era aggiunto, ultimo e quarto, il partito dei Messianici di Giuda Galileo, ai quali era dovuta l'iniziativa della guerra contro Roma. I passi stessi però hanno bisogno di essere chiosati oggi, perché ormai nessuno — senza una meditazione profonda e soprattutto senza una ambientazione sufficiente — sarebbe in grado di leggerli nello spirito dell'epoca.

Ed anzitutto bisogna tener presente che per Giuseppe Flavio, parlare — in Roma, dove allora si trovava — del moto messianico facente capo a Giuda Galileo, era come parlare di corda in casa d'impiccati. Giacché anche Giuseppe Flavio era stato contagiato da quella che egli chiama «pazzia»; ed anch'esso aveva mostrato un «desiderio ardentissimo di libertà». Apparirà comprensibile pertanto l'esitanza, e — diciamo quasi — l'artifizio mostrato di Giuseppe, nel dover parlare dell'Uomo, nella cui missione salvatrice aveva pur creduto, ed il cui movimento aveva da ultimo abbandonato. Da ciò il linguaggio quasi tronco che egli tiene quando parla di Giuda Galileo.

Nei passi sopra riportati viene sintetizzata tutta l'azione, diretta ed indiretta, del Rabbi Galileo. Si comincia col rilevare che il Rabbi, durante il censo eseguito in Giudea da Cirenio e Coponio, era stato il creatore di un vasto movimento di ribellione contro Roma, avendo egli invitato i connazionali a restituirsi in libertà, rifiutando il «censo» a Cesare. Dopo questo primo accenno (dietro a cui il lettore orientato si rappresenta la visione della prima ribellione dell'anno 7 e conseguente reazione, pure descritta dallo stesso storico), Giuseppe Flavio accenna alla «scuola» del Rabbi Galileo, precisando che i seguaci di tale scuola rifiutavano di riconoscere altro signore diverso da Dio, e, piuttosto che lasciarsi costringere a riconoscere padroni mortali (quali erano gli imperatori romani davanti alla cui statua occorreva bruciare incenso), erano prontissimi ad affrontare la morte insieme coi loro familiari ed amici. Al quale proposito non possiamo non ravvisare lo sprezzo della vita, o meglio l'odio della vita, che rivelavano i seguaci di Giuda Galileo, quando si trattava di farne getto, pur di non sottostare ad un capo straniero. Da ultimo, Giuseppe analizza la storia del movimento iniziato dal Rabbi, e terminato colla guerra di distruzione, mettendo in rilievo che Eleazaro di Giairo, ultimo dei discepoli di Giuda, per incitare i compagni a sopprimersi dopo la sconfitta, allo scopo di non servire a padroni mortali, così enuncia l'escatologia galilea: «Perché una miseria è per l'uomo il vivere, non già il morire; giacché la morte, mettendo le anime in libertà, lascia che le stesse si ritirino nel luogo purissimo che loro è proprio» (§ 20). 

Dalla suddetta sintesi il lettore ricaverà che i seguaci del Rabbi Galileo erano allora noti in Roma, perché affrontavano volentieri la morte, piuttosto che accettare di riconoscere a padrone l'Imperatore. E come chiamiamo noi quegli uomini, i quali affrontano volentieri la morte, per tener fede alla propria ideologia? «Martiri» li chiamiamo. Né vale rilevare che coloro i quali sono martiri per gli uni, sono pazzi per gli altri. Giacché proprio per questo Giuseppe Flavio, quando credette che non era il caso per lui di diventare «martire», cominciò a chiamare «pazzi» quelli che fino ad allora aveva chiamato «compagni».

Ma anche i seguaci del Gesù Galileo erano noti in Roma, perché piuttosto che lasciarsi costringere a bruciare incenso davanti alla statua dell'Imperatore, preferivano la morte. Ed anche questi ultimi furono considerati «martiri». Ora, i martiri «Galilei» di cui alla storia di Giuseppe Flavio, ed i martiri «galilei», di cui alle tradizioni cristiane, non sono forse i medesimi uomini?

Va notato che allo stesso modo che i seguaci del Giuda Galileo storico, anche i seguaci del Gesù Galileo evangelico pronunziavano l'anatema contro coloro i quali si prostravano davanti alla statua degli imperatori. Ed al proposito abbiamo visto, per quanto alla dottrina del Galileo evangelico, la norma drastica predicata dall'Apocalisse: «Non abbiano tregua, notte e giorno, gli adoratori della Bestia» (§ 45). Ora, per quanto alla dottrina del Galileo storico, abbiamo pure constatato, riportando il discorso di Eleazaro, come lo stesso incitasse i compagni a fare getto della vita, per non sottostare ai romani.

I Romani bruciavano incenso davanti alla statua degli imperatori, sia in segno di omaggio, sia in segno di adorazione alla divinità del capo. I Messianici di Giuda Galileo, piuttosto che fare omaggio agli imperatori, rinunziavano alla vita, con un fanatismo, che Giuseppe Flavio presenta in forma raccapricciante. Lo stesso fanatismo però lo attuarono i primi cristiani, anch'essi per non bruciare incenso davanti agli imperatori. Difatti abbiamo constatato da Plinio (§ 45), che allorquando lo stesso ebbe a ricevere una denunzia anonima contenente un elenco di persone indiziate quali cristiane, egli, per accertarsi se le stesse fossero cristiane, fece portare davanti al tribunale la statua dell'imperatore, invitando gli accusati a fare atto di adorazione davanti a quella statua. Egli sapeva — come nella lettera è chiaramente espresso — che nessun cristiano avrebbe accettato di prostarsi davanti all'effigie dell'imperatore (di adorare la «Bestia» cioè, o «la sua immagine», come si esprime l'Apocalisse), preferendo piuttosto la morte. Senonché l'ordine di non prostrarsi davanti alla statua degli imperatori fu dato proprio da Giuda Galileo ai suoi discepoli, e fu sempre dai discepoli tenuto desto. Non dovrebbe dubitarsi pertanto che una medesima origine abbiano avuto la dottrina tragica esposta da Eleazaro di Giairo a Massada, e la dottrina tragica presentata dall'Apocalisse di Giovanni. Giacché anche le parole di Eleazaro più sopra riportate, quale sintesi dell'escatologia galilea (credenza in una vita oltretomba) sono le medesime che il Cristianesimo ha affermato, quale sintesi dell'escatologia propria. [1 

È utile adesso aggiungere, a conclusione, che la critica più acuta ha visto sempre l'affinità, e, diciamo anzi, la perfetta aderenza tra il Galileo storico ed il Galileo evangelico; non ne vide l'identità per l'avvenuta interpolazione, in mezzo ai «Fatti del Gesù», dei «Fatti del Battista», e specialmente per l'avvenuta interpolazione dell'episodio di Pilato. Una volta però risolta, come fu da noi risolta, la questione di Pilato, i rilievi dei principali critici acquistano sapore di divinazione, ed al proposito, avendo già accennato all'opinione di Renan, vogliamo qui ricordare l'opinione del Loisy, il quale così ebbe ad esprimersi (Origini del Cristianesimo, trad. it. Torino 1944, p. 55): «Giuda Galileo non fu certo un maestro di filosofia religiosa o di vita ascetica. Storicamente fu soltanto un capo di bande, o, piuttosto, di briganti; ma costituisce l'esempio tipico di una mentalità comune: della fede cieca cioè ed assoluta, aspirante a realizzare nella sua pienezza l'idea del regno di Dio. Il principio ispiratore degli Zeloti era che gli Israeliti, popolo figlio di Dio, non avevano sulla terra altro sovrano legittimo che il Signore del Cielo; la dominazione romana quindi era sacrilega, il suo esercizio un'usurpazione empia, e bisognava rifiutare il tributo a Cesare. La rivolta contro l'Impero idolatra era pertanto il più sacro dei doveri, e poiché la potenza romana era quello che sappiamo, tale dovere, così semplice, costituiva la suprema follia».

Secondo Loisy dunque, Giuda Galileo avrebbe lasciato colla sua scuola un esempio tipico della «fede cieca ed assoluta, aspirante a realizzare nella sua pienezza il regno di Dio». Senonché non è chi non riconosca come questa «fede cieca e assoluta» sia stata proprio quella dei primi cristiani. L'identità quindi tra il moto facente capo a Giuda, del quale alle fonti storiche, ed il moto facente capo a Gesù, del quale alle fonti evangeliche, non potrà più essere misconosciuta. Giacché sarebbe troppo strano che due persone distinte fossero esistite, aventi lo stesso nome, nate e morte sotto la stessa data, predicanti la stessa dottrina, ed aventi — come constateremo al Capo V — i medesimi discepoli.

NOTE

[1] Il Renan vide perfettamente questa identità d'idee tra il Gesù evangelico ed il personaggio storico. Giacché al Capo XIV della sua Vita di Gesù così scrive: «Il giovane democratico ebreo (Gesù), fratello in questo di Giuda Galileo, non ammettendo altro Signore che Iddio, forse si sentiva offeso degli onori che circondavano la persona dei sovrani, pei titoli sovente bugiardi che si davano loro». A questo passo però contraddice lo stesso Renan al Capo V, laddove scrive: «Gesù non sarà un patriota come i Maccabei, né un teocrate come Giuda il Gaulonita. Il Gaulonita diceva doversi morire anziché dare ad altri che a Dio il nome di Padrone, Gesù lascia questo nome a chi vuol prenderselo». Ma se, in conformità col passo precedente, Gesù non ammetteva altro Signore che Iddio, come poteva egli lasciare il titolo di padrone ossia signore, a chi avesse voluto prenderselo? Pertanto Renan o sbagliò prima, o sbaglio poi.

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