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§ 32) La lettera di Paolo a Timoteo. — In nessun documento dell'epoca, all'infuori dei Vangeli, si parla di Ponzio Pilato a proposito della morte di Gesù. Giacché tutti gli scritti, già affermati dell'epoca apostolica e sub-apostolica, nei quali si parlava di Pilato, o sono stati respinti come non autentici dalla Chiesa stessa, come deve dirsi per tutti i cosiddetti Apocrifi, [1] o sono stati riconosciuti non autentici dalla concorde critica aconfessionale, come deve dirsi per l'Epistola di Paolo a Timoteo.
Per vero l'unico documento neo-testamentario, nel quale si parla di Pilato, è la prima lettera di Paolo a Timoteo, nella quale al capo IV, versetto 14, così si legge: «Ti ordino davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, ed a Gesù Cristo che sotto Ponzio Pilato rendette testimonianza alla buona professione, che tu osservi questo comando immacolato, ecc.». Ora, se tale scritto dovesse ritenersi autentico, la testimonianza di Paolo in esso contenuta potrebbe apparire influente; perché Paolo poteva avere appreso dai vecchi compagni di Gesù i casi della morte di lui. Senonché tutti i critici aconfessionali, ed anche moltissimi dotti ecclesiastici, riconoscono che questa lettera non può attribuirsi a Paolo.
La questione è stata trattata dai critici in relazione a tutte le cosiddette lettere pastorali: le due lettere a Timoteo cioè, e quella a Tito. Tali tre lettere già nel periodo delle origini erano state rigettate come spurie da Marcione, una delle personalità più in vista del cristianesimo primitivo. Successivamente però la Chiesa Ufficiale le aveva ritenute autentiche, e come tali le aveva incluse nel canone. Senonché nell'epoca moderna, colla rinascita degli studi religiosi, nuovamente s'imprese a negare l'autenticità di tali scritti, specialmente in Germania. Ivi infatti fu primo Friedrich Schleiermacher, celebre filosofo e teologo protestante (1768-1834), che sostenne la non autenticità della prima lettera a Timoteo. Seguì Ferdinando Christian Baur, il fondatore della scuola di Tubinga, che negò l'autenticità di tutte le lettere pastorali; e dopo Baur tutti pressocché i critici, compreso l'Harnack, negarono l'autenticità della prima lettera a Timoteo.
Quanto a noi, riteniamo che un esame approfondito dell'epistola in controversia debba convincere chicchessia che la stessa non può attribuirsi a Paolo. Si afferma infatti dagli ecclesiastici che allorquando Paolo, dopo scritta da Efeso la prima lettera ai Corinti, si era allontanato di là (a causa del movimento suscitatogli contro dall'orefice Demetrio), avesse lasciato in Efeso il discepolo Timoteo, al quale avrebbe poco dopo mandato questa lettera. In conseguenza, l'epoca di essa dovrebbe segnarsi tra la prima e la seconda lettera di Paolo ai Corinti, allorquando cioè l'apostolo si preparava per fare il viaggio a Gerusalemme (anni 45-46 E.V., del che diremo appresso). Senonché, paragonando lo stile e la forma mentis dell'apostolo quale si rivela dalle due lettere ai Corinti, con lo stile e la forma mentis dell'autore della lettera a Timoteo, si manifesta una diversità inequivocabile, per cui non è ammissibile che le tre lettere siano state scritte dallo stesso autore.
Nel versetto 14, capo V della Prima a Timoteo, così si legge: «Voglio adunque che le giovani si maritino». Senonché nella prima lettera ai Corinti (che dovrebbe essere stata inviata poche settimane prima), Paolo aveva scritto: «Se tu sei legato ad una moglie non cercare di esserne sciolto, ma se sei sciolto dalla moglie non cercar moglie; perché se hai moglie non hai peccato, e se una vergine prende marito non ha peccato; ma avranno costoro le tribolazioni della carne» (VII, 27-28). Ora, come è possibile ammettere che a distanza di pochi giorni, in un argomento tanto importante, il pensiero di Paolo fosse mutato? Che se poi si tiene presente che ai tempi di Paolo la credenza nella prossima fine del mondo e prossima «resurrezione dei corpi» era generale tra i cristiani, si comprenderà facilmente come e perchè l'apostolo abbia predicato il celibato.
Ancora al versetto 10, capo II della lettera a Timoteo, il mittente insiste nel dire che Dio va servito con le buone opere. Senonché nella lettera ai Romani, capo IV, Paolo ha sostenuto che la fede, e non le opere sono garanzia di salvezza. Del resto è nota la controversia tra Paolo da una parte, ed i Giudeo-Cristiani di Giacomo dall'altra, nella quale questi ultimi sostenevano essere le opere garanzia di salvezza, mentre Paolo sosteneva bastare la fede. [2] Come è possibile dunque attribuire a Paolo quel versetto?
Quanto poi alla frase riguardante Ponzio Pilato, notiamo che la medesima, specie per le parole «rendette testimonianza», richiama alla mente la lettera di Clemente Romano ai Corinti, della quale avremo occasione di parlare più avanti. Aggiungiamo anzi che in conseguenza di questa affinità di stile Heinrich Holzmann (Die Pastoralbriefe, Lipsia 1830) ha sostenuto che l'autore della prima a Timoteo, o quanto meno della maggior parte di essa, dovesse essere proprio Clemente. Né è fuori luogo ricordare che mentre le autentiche lettere Paoline rivelano lo stato di formazione delle Comunità Cristiane, senza alcun cenno ad una gerarchia ecclesiastica, la lettera a Timoteo ci presenta le singole comunità cristiane già stabilizzate, e le gerarchie ecclesiastiche completamente costituite, il che non può non rimandarci almeno ai tempi di Clemente.
In conclusione, della lettera a Timoteo soltanto i primi 17 versetti del Capo I pensiamo possano essere un frammento di Paolo. Probabilmente saranno state rinvenute, insieme col breve frammento di Paolo, altre lettere di un anonimo autore posteriore, e come si era fatto per altri componimenti (del che diremo più avanti) così si fece per questi frammenti di lettera, cucendoli insieme. Esclusa comunque l'autenticità della lettera a Timoteo, l'episodio di Pilato non trova conferma in nessun altro documento neo-testamentario. È necessario pertanto indagare più a fondo circa l'attendibilità del passo dei Vangeli relativo a Pilato.
NOTE
[1] Sono noti i libercoli che in epoca tarda comparvero sulla figura di Pilato. Citiamo «Acta Pilati», detto anche «Vangelo di Nicodemo», nel quale viene narrata tra l'altro la discesa di Gesù agli Inferi dopo la sua resurrezione. Esistono poi «Anaphora Pilati», «Paradosis Pilati», che rifanno la nota leggenda in termini più favorevoli a Pilato, nonché molti altri opuscoli (Lettere di Pilato a Erode; La morte di Pilato, ecc.). Tutti questi scritti sono sempre stati respinti dalla Chiesa Ufficiale come non autentici né ispirati.
[2] Cfr. Romani, IV, 2-5, con Giacomo II, 14-21.
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