venerdì 28 luglio 2023

Distruzione di Gerusalemme e del Tempio

 (segue da qui)

§ 20) Distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Totalmente dominati dai messianici, i Giudei avevano ormai rotto tutti i ponti col governo di Roma. Il partito dei «moderati» infatti (il quale da tutti i messianismi vien chiamato dei «disfattisti» od anche dei «traditori») si era venuto esaurendo, sia perché i principali suoi rappresentanti erano stati soppressi, come il pontefice Anania, sia perché, non potendo la valanga essere più fermata, i superstiti si erano rifugiati presso Agrippa, o presso i Romani, oppure erano del tutto emigrati nella diaspora greca. Un governo provvisorio di «messianici» si era pertanto stabilito in Gerusalemme, il quale, prevedendo che l'autorità romana non avrebbe certo tardato a mandare in Giudea un esercito, inviava propri rappresentanti nei punti strategici della Giudea e della Galilea, perché dovunque fosse organizzata la difesa, e potessero così i nuovi soldati romani, appena giunti, essere respinti e distrutti. Giacché era ben vero che Iddio aveva rivelato per segni inconfondibili il suo favore; ma — come aveva predicato il Rabbi Galileo (Antichità, XVIII, I, 8) — «non si sarebbe prestato Iddio stesso a favorire i comuni disegni, se non quando i cittadini, mandati ad effetto i propri disegni, mostrassero di non temere qualsiasi fatica». Ed a questo punto entra in scena, quale uno dei capi messianici, Giuseppe di Mattia: lo storico cioè, che, diventato più tardi liberto di Vespasiano, assumerà il nome di Flavio, e di questa guerra detterà la storia. 

Dal governo provvisorio di Gerusalemme, Giuseppe di Mattia fu incaricato di preparare la messa in istato di difesa di tutta la Galilea, contro la quale si prevedeva che si sarebbero riversati i primi assalti delle truppe romane. Anche Giuseppe di Mattia, quindi, fu inizialmente un «messianico»; ed anche lui credette nella seconda parusia del Rabbi Galileo. E dapprincipio Giuseppe non fu meno intollerante degli altri messianici. Senonché nel frattempo Nerone (che già in Armenia, servendosi di Corbulone, aveva fermato Tiridate), aveva inviato in Giudea un forte esercito, capitanato da Vespasiano.

L'esercito romano, partito da Antiochia nella primavera del 67, entrava nell'estate in Galilea, e cominciava coll'assediarne i capisaldi, da Giuseppe già organizzati a difesa. Dopo aver assoggettato facilmente Gadara, Vespasiano poneva l'assedio a Giotapata, dove accorreva lo stesso Giuseppe, per dirigere direttamente la resistenza. Ma la città cadeva presto nelle mani dei romani, cosicché la sorte dei «Messianici» cominciava a delinearsi in tutta la sua tragicità. Giacché la più parte di costoro, obbedienti alla «norma» della dottrina galilea, di morire cento volte piuttosto che servire a padroni stranieri, si uccideva di propria mano senza esitare.

Giuseppe riusciva a fuggire dalla città espugnata, e, attraverso un cunicolo della fognatura, riusciva a raggiungere un profondo pozzo fuori delle mura, sempre però nella zona sorvegliata dai romani. In quel pozzo altri quaranta messianici si erano rifugiati prima di lui, aspettando di prendere una decisione, appena la situazione lo avesse consentito. E nell'immobilità sconcertante sulle profezie messianiche, sulla dottrina galilea, e sui casi propri. Alfine, come svegliandosi da un lungo sogno, riconobbe mentalmente che un tragico errore aveva indotto i suoi connazionali e lui stesso a ribellarsi. Giacché il «Messia» vaticinato nemmeno quella volta sarebbe stato un uomo di Giudea, come si era ritenuto, bensì ancora un romano sarebbe stato il «Capo» del mondo.

Ripudiava così Giuseppe da questo momento la dottrina galilea, e decideva di adoperarsi, per quanto in lui, a mitigare la sorte del suo popolo, consegnandosi frattanto ai romani. Non così però la intendevano i quaranta con lui rifugiati. Costoro anzi, indovinando a poco a poco le intenzioni di Giuseppe, gli rimproverarono che proprio lui era stato ad incitarli perché morissero liberi, qualora l'alternativa di dover servire al nemico si fosse presentata; ed ora che la libertà era perduta, non restava che mettere in atto la dottrina già predicata. Perché se di buon grado Giuseppe fosse morto con loro, sarebbe morto da generale; in caso contrario sarebbe morto da traditore.

Ed invero, accade spesso che colui il quale provochi il fanatismo, resti poi travolto dal fanatismo stesso. Giacché la valanga si può provocare, ma non si può fermare dopo provocata. Ricorreva pertanto Giuseppe a tutte le risorse della sua mente sacerdotale, per simulare di voler seguire i quaranta, e stornare così da sé il grave pericolo. Dopo un lungo ragionamento, riusciva egli a persuadere quei fanatici che morire era pur necessario, ma che Dio vietava il suicidio. E dacché morire bisognava, meglio era che l'uno uccidesse l'altro, e che soltanto l'ultimo avesse rivolto l'arma contro se stesso. In questo modo una sola sarebbe stata la violazione alla Legge, ed essa sarebbe stata giustificata dallo stato di necessità. Così i quaranta si uccidevano l'un l'altro. Rimasto poi vivo l'ultimo, che doveva uccidere il generale e sopprimersi, fu facile a Giuseppe liberarsi di lui, consegnandosi poi ai romani, presso i quali riusciva ad entrare nelle simpatie di Vespasiano, col predirgli che proprio lui sarebbe stato il «messia del mondo» vaticinato dai libri biblici (Guerra, III, VIII, 1-8).

Mentre questo accadeva in Galilea, a Gerusalemme i settarismi erano riaffiorati violenti. Giacché non essendovi colà nemici stranieri da combattere, né avversari giudei da assassinare, i Messianici avevano ripreso a combattersi tra di loro. Altri luogotenenti del Messia Galileo erano infatti sorti qua e là nel frattempo, e mentre in Gerusalemme, accanto alla fazione di Eleazaro d'Anania, si era formata la fazione di Giovanni di Giscala (fuggito quest'ultimo appunto da Giscala quando Vespasiano ne aveva fiaccato la resistenza), un'altra fazione si era formata fuori di Gerusalemme, guidata da Simone di Giora, che scorrazzava qua e là, dovunque depredando e devastando. Ed era naturale che il generale romano, conoscendo quanto distruttive siano le ambizioni dei piccoli despota, preferisse lasciare che i Messianici si distruggessero tra loro, prima di accorrere esso stesso coi propri soldati. Infatti, dopo molti tentativi fraudolenti, compiuti da Simone di Giora per entrare in Gerusalemme, dove avrebbe voluto dominare, riusciva egli ad entrarvi: e da quel momento le sorti del popolo pacifico — che subisce sempre le prepotenze delle minoranze violente — nonché le sorti delle tre fazioni, tutte raggruppate nella città santa, diventavano senza speranza.

Appunto dopo questi eventi, allo scopo di salvare il popolo pacifico dal fanatismo delle tre fazioni, il comando romano, che ormai, chiamato Vespasiano all'impero, era impersonato da Tito — tentò più volte, con l'aiuto di Giuseppe, di restituire alla ragione i gruppi dilaniantisi in Gerusalemme. Ma l'intolleranza per ogni forma conciliativa, propria delle neurosi messianiche, ed il disprezzo della morte, che in tutti era volontà prepotente di «martirio», rendeva impossibile ogni tentativo di pace. L'assedio pertanto, iniziato alfine da Tito con tutte le regole militari, dovette proseguire, e nulla si poté fare per salvare tante donne, vecchi e bambini, condannati dal fanatismo all'estrema rovina. Da ultimo, quando il territorio era stato devastato dagli stessi giudei, ed il popolo era ridotto a tal punto di fame, che le madri cuocevano i loro bambini per cibarsene (Guerra, VI, III, 5), accadde che mentre i romani, penetrati nella Città, ridotta ormai a cumuli di rovine, tentavano di occupare il Tempio, per impedire che i difensori lo dessero alle fiamme, accortisi costoro che tutto era già perduto, iniziavano l'auto-annientamento, cosicché le fiamme si levavano alfine distruggitrici.

Sgretolata Gerusalemme e bruciato il Tempio, resisteva ancora in Giudea, dominata dai messianici, la fortezza di Massada. In essa, l'ultimo continuatore della «scuola» di Giuda Galileo, Eleazaro di Giairo, già luogotenente di Manaemo, aveva fino ad allora tenuto testa agli eventi. Adesso però, assediato senza posa dalle truppe romane, e rimasto senza possibilità di scampo, non poteva che mettere in pratica i duri principi del Rabbi Galileo, riconoscendo che l'evento messianico non poteva più verificarsi. Ed ecco il discorso che Giuseppe Flavio riferisce avere Eleazaro tenuto ai suoi uomini, per incitarli — in conformità con la dottrina galilea — ad uccidere prima le donne e i bambini, per uccidersi poi essi stessi, piuttosto che servire al nemico odiato.

«Avendo noi da gran tempo deciso di non servire né ai romani né a chicchessia, salvo che a Dio unico Signore, è venuto adesso il momento di sigillare coi fatti questi nostri sentimenti ... A torto noi soli fra tutti i Giudei pretendemmo di poter sopravvivere conservando la libertà; come se non avessimo anche noi peccato contro Dio, e non fossimo anche noi complici di molti delitti. Per questo Dio ci tolse ogni speranza di scampo ... E veramente sdegno fu questo di Dio, per i molti misfatti che noi abbiamo commesso, infuriati tutti contro la nostra nazione. Dobbiamo noi dunque pagare la pena; ma non sia che noi si paghi la pena ai romani odiatissimi, bensì a Dio soltanto, e per mano nostra. Muoiano dunque per prime le mogli non oltraggiate, e poi muoiano i figliuoli non tocchi dai ceppi; dopo di loro, noi renderemo a noi stessi un tanto nobile servigio, assicurandoci così per sepoltura una onorata libertà». E poiché a questo parlare molti accennavano di volersi sottrarre alla morte, così Eleazaro riprese a dire: «Ahimè! troppo mi sono ingannato credendo di aver scelto a sostenitori della libertà uomini coraggiosi, risoluti o di bene vivere o di morire. Non pare infatti che voi, per valore o per ardimento, siate diversi dal volgo, voi che temete la morte, la quale invece vi libererà da mali infiniti ... Perché una miseria è per l'uomo il vivere, non già il morire. Giacché la morte, mettendo le anime in libertà, lascia che le stesse si ritirino nel purissimo e proprio luogo che loro appartiene, e nel quale saranno poi esenti da ogni disgrazia; laddove invece, fino a quando esse rimangano strette nel corpo mortale, si immergono insieme con esso nelle sventure, e possono considerarsi morte» (Guerra, VII, VIII, 7-8).

Con questo discorso — che è odio alla vita ed all'umanità, e che spiega il giudizio di Tacito verso i «Messianici» di Roma, «odio humani generis convicti» (Ann. XV, 44) — Eleazaro persuase quegli infelici all'auto-annientamento. E soltanto due donne sopravvissero nascoste, per narrare ai posteri una tanta tragedia. Giacché, col pretesto di voler amare Dio, molto spesso si odiano gli uomini, e col pretesto di voler creare un ordine nuovo, molto spesso si distrugge ogni premessa di ordine. 

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