sabato 31 dicembre 2022

Origini Sociali del CristianesimoPrefazione



A volte ho detto ai miei studenti che il vero eroe del documento Q potrebbe essere l'autore e non Gesù, e che Gesù potrebbe essere stata l'opportunità per l'autore di mostrare la propria visione radicale del giudaismo. Non so se sia utile, ma potrebbe essere che il vero eroe del documento Q sia l'autore.

(Prof Dennis R. MacDonald, in una discussione con Richard Carrier)

Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?

(Kent Murphy)

 

Gesù sospeso su un lago, Gesù che predica alle folle nel deserto, Gesù che guarisce i malati — tali familiari scene evangeliche rendono tutto molto facile.

Qualcuno visse nei pressi del lago e si nascose nel deserto, camminò lungo le strade di Galilea, o albergò a Gerusalemme. Chiunque fosse, dicono gli storicisti, qualcuno visse ai margini dell'attenzione degli storici ufficiali del tempo... ma non della visione dei suoi primi seguaci, specie quando quel qualcuno, dicono, fu crocifisso “sotto Pilato”.

Questo genere di giudizi, ripetono ad nauseam gli storicisti, sono chiare anche al più noncurante degli uomini.

Ma cosa troviamo quando andiamo alla più antica fonte conosciuta (Paolo) e la prendiamo per quella che è (per esempio Filippesi 2:6-11)? Quel Gesù

• Fu un essere semi-divino (en morphê theou) (2:6)

• Che “svuotò” (ekenôsen) sé stesso (2:7), che fu

“Fatto” (genomenos) a “somiglianza” di un umano (homoiômati anthrôpon) (2:7)

• E in quella apparenza morì sulla croce (2:8) e

• Diventò Signore di tutte le cose (2:9-11) e

• adottato Figlio di Dio (Romani 1:16) a causa di ciò.

Cosa vedete? Per nulla un essere puramente umano, che ebbe una nascita naturale e una carriera umana. In realtà, Paolo fa di tutto per dire che Gesù non era veramente un essere umano. Ma non importa, ci siamo capiti. Come potete constatare, una figura del genere è completamente mitologica. Non è poi così difficile rendersene conto.

E se è facile qui, allora può esserlo ovunque e in ogni tempo.

Basterà che un piccolo dubbio scivoli nella mente, che una scintilla di sospetto entri in circolo e tutti questi cosiddetti «vangeli», uno per uno, si apriranno ai lettori, i quali vedranno tutto il mito presente in essi come mai lo avevano visto in precedenza. 

Per allora nessuna fede né teologia vi proteggerà. Né storicista, né pretaglia, né teologo, né persona istruita vi salverà. E nemmeno un'intera accademia affollata da folli apologeti cristiani sotto mentite spoglie di storici basterà a convincervi del contrario. Nemmeno la chiarezza esposta delle varie, ricostruite, “Vite di Gesù” è protezione contro il dubbio.

Perché il dubbio divora la finta luce e digerendola la trasforma in sentito dire, leggenda, allegoria, letteratura, mito. Perché immaginare un Gesù «storico» equivale de facto a inventarlo, di nuovo e ancora di nuovo.

Di certo non equivale a provarlo. E nelle epistole di Paolo noi apriamo gli occhi, per un attimo, e nei vangeli li chiudiamo.

G. Ferri

PROSPER ALFARIC

Professore di storia delle religioni

alla Facoltà di Lettere di Strasburgo


Origini Sociali 

del Cristianesimo


PREFAZIONE

Se non ho avuto il privilegio di vivere nell'intimità di Prosper Alfaric, ho avuto almeno la soddisfazione di incontrarlo più volte e di beneficiare della sua conversazione e dei suoi scritti. Non posso dimenticare l'impressione che avevo provato al momento della sua prima visita, nel corso della quale sono stato colpito così bene dallo splendore del suo sorriso come dalla saggezza delle sue affermazioni. La sua aria mite e timida, la sua serenità incrollabile, nascondevano un'anima forte e valorosa; la gentilezza indulgente che si leggeva sul suo volto, e che non si poteva confondere per debolezza, si accompagnava ad un ardore e ad una fermezza che non vacillarono mai.

Come ha potuto essere diversamente, se si ricorda l'esistenza di Alfaric, umile e rude, gravata fin dalla sua adolescenza dal dramma più doloroso che ci sia per una coscienza pura e un cuore leale, quello di vedere chiaro dentro di sé, di essere in accordo con il proprio pensiero esigente, di rompere infine con una tradizione a lungo amata, e accogliere la chiara scoperta lentamente e dolorosamente conquistata? Se pensiamo all'infanzia di Prosper Alfaric a Livinhac-le-Haut in seno ad una famiglia modesta e credente, in una casetta all'ombra della chiesa, cullata come quella di Chauteaubriand dal suono delle campane che incantavano la sua anima sognante e poetica, affidato a insegnanti congregazionisti che nutrivano il misticismo del ragazzo e che, intuendo la sua facilità di apprendimento, pensavano già di orientarlo verso il sacerdozio, misuriamo facilmente la forza dei legami che lo legavano alla religione cattolica. Così non si può restare insensibili al suo grande libro De la Foi à la Raison, la storia di un'intelligenza privilegiata che si può conservare intatta, malgrado le deformazioni e le servitù che le si impongono dall'esterno, e che pazientemente, ostinatamente, arriva a disperdere le tenebre per sbocciare alla luce della scienza e della verità. «La mia vita» — ha scritto felicemente Prosper Alfaric — «fu un lungo cammino verso la chiarezza della ragione», ma questo cammino si fece in mezzo all'angosce e alle incertezze prima di arrivare alla meta radiosa della liberazione totale. Già al Seminario Maggiore di Rodez, Alfaric aveva conosciuto le pene dell'insoddisfazione spirituale. Lui stesso ha notato che «pur essendo attaccatissimo alla fede cattolica e decisissimo a farne la regola della sua vita, provava un'inquietudine vaga e indefinibile, ma persistente e talvolta ossessiva». Cosa sarà  più tardi, quando, giovane insegnante al seminario di Bayeux, affamato di conoscenze serie, divora i grandi libri di filosofia e non contiene più il suo entusiasmo per Cartesio, per Spinoza, più per il suo trattato Teologico-Politico che per la sua Etica, per Kant, più che per Leibniz, persino per Condillac, e soprattutto per Herbert Spencer, che, diceva, gli diede una «scossa decisiva». È perché nei suoi Primi Principi Spencer pose su un piano molto elevato il problema dei rapporti tra la scienza e la fede che il giovane abate non aveva mai visto affrontare in modo così netto e così incisivo. Era proprio lì in effetti la questione che tormentava la mente di Alfaric e che doveva ossessionarlo da allora in poi, mentre tutte le preoccupazioni per il rinnovamento della Chiesa cattolica, che si erano manifestate in grandi menti come Loisy, Turmel e molti altri, erano solennemente condannate da Roma. La proscrizione del Modernismo dovette confermare Alfaric nel suo bisogno di verità. La pressione esterna si aggiungeva all'esigenza della ragione. Alfaric ormai si sentiva liberato dalle sue vecchie credenze, alle quali doveva sostituirsi, in seguito ai suoi primi e già importanti studi sulla storia delle religioni, una incredulità radicale.

Ma una volta assicurata la vittoria, recuperata la serenità dell'anima, Alfaric non dovette per questo ritirarsi in una confortevole e tranquilla esistenza come professore all'Università di Strasburgo. Vi era in lui troppa energia e troppo ardore per non proclamare a sua volta i risultati della sua lunga e dolorosa esperienza e per non farne profittare tutti coloro che poteva raggiungere con le parole o con la penna. Sembra che abbia fatto sue le parole del grande Romain Rolland risalenti all'ottobre 1894: «Non vorrei affatto custodire per me la felicità e la vita che mi riempiono il cuore». Non dimentichiamo infatti che Alfaric aveva un temperamento da missionario, un'anima di apostolo. Già quando era ancora giovane seminarista, era stato volontario per l'opera delle missioni estere, e se non aveva potuto realizzare il suo progetto, era perché il dovere di aiutare la sua famiglia lo aveva distolto da esso. Ma la sua delusione era stata grande allora di non poter partire per i paesi lontani ad evangelizzarli. Più tardi, si felicitò umoristicamente per non aver sprecato il suo tempo a sostituire le religioni basate sulla magia e sul feticismo con un'altra credenza di cui misurava ora la vacuità. 

Così la sua crociata si votò al progresso e alla felicità dell'umanità su questa terra, come quella di Voltaire, autore del Mondain, e quindi, prima di tutto, a proclamare instancabilmente la necessità del libero pensiero. Così dedicò tutto il suo entusiasmo e la sua dedizione a sviluppare l'opera di Jean Macé, fondatore della Ligue de l'Enseignement, creando a Strasburgo con il suo collega Rothé, della Facoltà di Scienze, un circolo di studio e di conferenze, a cui diede il nome di Cercle Jean Macé, e che conobbe un grandissimo successo. Questo non era affatto sufficiente. «Siccome in Alsazia la scuola restava ostinatamente confessionale», scrive Alfaric,«divenni un propagandista ostinato dell'educazione laica, che, imposta fino a Nancy e Lunéville, restava disapprovata oltre la vecchia frontiera». E in tutte le principali città Alfaric fonda dei circoli, ad immagine di quello di Strasburgo, di cui un Bulletin Jean Macé raccoglie gli sforzi e le iniziative. Una tale attività dovette valere a Prosper Alfaric, autore del Problème de Jésus, dapprima la scomunica, poi, pochi mesi dopo, la Legion d'onore...

Certo, non tutti portiamo un nome visigoto e rarissimo come quello di Alfaric, che permetteva al nostro presidente, avendo ritrovato nei documenti che alcuni Alfaric erano stati torturati al momento della guerra degli Albigesi, di scrivere: «Io sono figlio di una stirpe di eretici sfuggiti con grande difficoltà al rogo dell'Inquisizione». Ma non c'è affatto bisogno di avere così gloriosi antenati per rimanere saldamente attaccati alle nostre convinzioni basate sulla ragione e per difendere con tutte le nostre forze la scuola laica, fondamento della vera democrazia.

Per questo, Prosper Alfaric è un modello che dobbiamo cercare di imitare e la cui lezione di coraggio intellettuale e di valore civico rimane preziosa. 

Jean SARRAILH.

21 aprile 1956.

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