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LA TRANSUSTANZIAZIONE
I sacrifici del dio praticati nelle religioni misteriche, tanto i sacrifici periodici dell'antica religione precristiana che il sacrificio stesso dell'anno 27, e i rinnovamenti sotto la forma della frazione del pane che dovevano seguire, non devono dunque essere compresi come la rappresentazione della messa a morte del dio, ma come quella stessa messa a morte. Una parte delle epistole di San Paolo sono impiegate a definire ciò che è «secondo la carne» (e questo è l'ordine fisico) e ciò che è «secondo lo spirito» (e questo è l'ordine spirituale), e, allo stesso tempo e parallelamente, a definire la conoscenza secondo la carne (e questa è l'umana ragione) e la conoscenza secondo lo spirito (e questa è la fede).
Il vangelo secondo San Giovanni non oppone con una minima precisione i due domini:
Ciò che è nato dalla carne è carne e ciò che è nato dallo spirito è spirito. [1]
Il fatto fisico della crocifissione rituale non interessa affatto San Paolo; esso è per lui un evento secondo la carne. Solo gli interessa il fatto spirituale, un dio che discende nella forma del crocifisso; ed esso è per lui un evento secondo lo spirito. In quanto essere spirituale, il dio non può, per San Paolo, essere percepito se non nello spirito; egli sfugge ad ogni percezione sensibile, ad ogni controllo sperimentale, vale a dire razionale; la sua esistenza e le sue manifestazioni appartengono solo alla fede, e questo è il punto essenziale che sta alla base di ogni comprensione del cristianesimo primitivo. Il poco interesse che presenta per il credente l'identificazione dell'uomo o dell'effigie in cui il dio è disceso, San Paolo lo esprime sovranamente nella frase famosa in cui si è voluto vedere il riconoscimento di una storicità di Gesù:
Se noi abbiamo conosciuto un Cristo secondo la carne, ora noi non lo conosciamo più. [2]
Forse quella frase risponde a coloro che sostenevano di aver conosciuto il sostituto, o forse a quei figli di Simone di Cirene che egli nomina nell'epistola ai Romani... Ma cosa importava al credente, ai Dodici, a San Paolo, l'uomo che era stato materialmente messo in croce nella primavera dell'anno 27? Una sola cosa importava: sotto quelle sembianze d'uomo, sotto quell'apparenza umana, sotto quella forma di servo, Gesù era venuto dal cielo per consegnarsi al sacrificio. A dire il vero, la domanda non era per San Paolo meno oziosa che se si domandasse oggi al credente che esce dalla Santa Tavola il nome e l'indirizzo del sacerdote che gli ha dato la comunione, o il nome e l'indirizzo della casa dove è stata fabbricata l'ostia.
Un'obiezione però.
Se gli uomini che avevano la fede riconobbero senza questione nel crocifisso dell'anno 27 la realtà del dio, non potevano esserci, accanto a loro, dei personaggi che non avevano la fede e che, invece, non avrebbero smesso di vedere il sostituto? Così, in chiesa, accanto al credente che vede il corpo di dio nell'ostia, il profano che vi assiste replica, alzando le spalle:
— Il corpo di Dio? Non c'è che un pezzo di pane.
E proprio le pretese dei figli di Simone di Cirene, le fandonie di Basilide sono gli indizi che tali personaggi si sono incontrati. Ma importa comprendere che il grande movimento di misticismo dell'anno 27 portò via tutto. Il sacrificio dell'anno 27 si è praticato tra puri, e se vi furono tra i puri alcuni credenti di seconda zona, le apparizioni, effetto e causa, dopo essere nate dalla fede di alcuni, stabilizzarono quella fede, si può dire per i secoli dei secoli.
Che un uomo sia immolato, o che si finga di immolarlo, e che lo si leghi ad una croce, o che un pezzo di pane azzimo sia mangiato, questi sono fatti dell'ordine naturale, che comportano un controllo, che appartengono alla ragione. Ma che quest'uomo, questo pezzo di pane, siano diventati il corpo di un essere spirituale che ne avrà rivestito la forma, e che siano in realtà questo essere spirituale in persona, è qualcosa che sfugge ad ogni controllo, e ciò che appartiene unicamente alla fede. Così occorre intendere la geniale definizione che propose, poco tempo dopo la morte di San Paolo, l'autore anonimo dell'epistola agli Ebrei:
La fede è assicurazione di cose sperate, e certezza di cose non viste. [3]
Nella crocifissione materiale di un qualche sostituto, che essi hanno visto, i cristiani dell'anno 27 hanno con certezza riconosciuto ciò che essi non videro, la crocifissione del loro dio.
...allo stesso modo in cui, nell'ostia, che essi vedono, i cristiani di oggi riconoscono il corpo del dio, che essi non vedono.
In verità, il grande anonimo dell'epistola agli Ebrei, anticipando di diciotto secoli i lavori della sociologia, ha dato quel giorno la definizione della spiritualità, la caratteristica dell'uomo tra gli animali essendo la spiritualità; e questa consiste:
1° nell'aspettarsi da certi atti conseguenze che sono fisicamente senza rapporto con quegli atti, — «assicurazione di cose sperate»;
2° nell'immaginare esseri che non sono dati fisicamente, e non possono essere fisicamente controllati, — «certezza di cose non viste».
Gesù, per il fatto stesso che è un dio, ha solo una realtà spirituale. Non è un personaggio della storia fisica, è un essere spirituale. Ecco perché non ha potuto essere conosciuto altrimenti se non mediante l'atto di conoscenza spirituale che si denomina la Fede.
La sua storicità è immensa ed è vertiginosa; ed è una storicità spirituale.
Ma vi è fagotto e fagotto; e vi è fede e fede. C'è la piccola fede, la fede degli ὀλιγόπιστοι del Vangelo secondo San Matteo, [4] la piccola fede comune, quella che accetta, ma che non si dovrebbe sconvolgere; quella della maggior parte degli onesti praticanti che riescono a conciliare i loro interessi spirituali con i loro interessi materiali, ma le cui preghiere parlano a Dio più volentieri di questi ultimi che dei primi; le devote persone che sanno perfettamente che l'ostia è il corpo del Cristo; ma non andiamo a prenderle per i polsi e, occhi negli occhi, a esigere da loro che affermino, dal profondo delle loro viscere, che è proprio lui, reale, lui, vivente, lui stesso, il corpo divino, che il sacerdote presenta loro tra le sue dita; e che il pane non esiste più, e che altrettanto veramente, come se mangiassero un'ala di pollo, essi mangiano il corpo di Dio... La piccola fede, la fede comune, non negherebbe, ma balbetterebbe...
Immaginiamo, per contro, che la domanda sia posta a San Francesco d'Assisi, all'uomo che ha talmente creduto nei chiodi della croce che essi hanno trafitto la sua carne; e, senza chiedere ai più grandi santi della Chiesa, interroghiamo quelli tra noi che hanno praticato nella loro vita, almeno una volta, una certa vera comunione. Io conosco un uomo almeno che affermerà di aver creduto, quel giorno, tra lacrime e singhiozzi, che era, nella sua realtà più concreta, il corpo di Gesù che aveva tra le sue labbra.
E tale è la μεγάλη πίστις di San Matteo, la fede della donna cananea, quella a cui il Salvatore ha esaudito. [5]
Che quella grande fede, la fede che solleverebbe le montagne, sia la cosa del mondo più eccezionalmente rara, la Chiesa lo ha sempre insegnato, facendone il privilegio di uno stato d'animo altrettanto eccezionalmente raro, che lei chiama lo stato di grazia. Con quell'inconcepibile profondità psicologica che diciotto secoli di spiritualità le hanno acquisito, la Chiesa ha definito lo stato di grazia in termini che io tradurrei come un'instaurazione decisiva in cui tutte le difficoltà scompaiono, come quei momenti in cui noi ci troviamo in piena armonia con noi stessi e nessuno sforzo è più necessario per raggiungere la pienezza, qualcosa ancora (ma nell'ordine dell'anima) come la realizzazione di un grande amore, e di cui si conserva indefinitamente il ricordo. Quanti, tra gli abitanti della città, avrebbero vissuto la loro vita senza conoscere il grande amore! E quanti tra i credenti non hanno conosciuto lo stato di grazia! Il cristianesimo è nato perché gli uomini dell'anno 27, perché San Paolo e i suoi, perché gli evangelisti hanno conosciuto la grande fede. La potenza massima della fede massima è la condizione sine qua non per la nascita — o per la rinascita — di qualsiasi religione.
La fede può, infatti, altrettanto bene esercitarsi su un evento passato come su un evento presente. È perfettamente concepibile che oggi l'uomo che si è comunicato con la piccola fede comune, rifletta, e che a poco a poco il suo cuore si risvegli, la sua anima si esalti, e che la crisi della grande fede esploda solo la sera, quando egli è solo: — Ho mangiato il corpo di Dio... E così si spiegherebbe perché il movimento di fede da cui è nato il cristianesimo non abbia raggiunto la sua piena intensità fino a pochi giorni dopo il sacrificio, nelle ore vermiglie della resurrezione.
E non è meno concepibile che l'atto di fede si eserciti sulle immagini che può evocare un racconto e di cui la meditazione si impadronisce. Come San Paolo, che non ha assistito all'evento originale; come San Francesco d'Assisi e tutti i mistici che conobbero solo la leggenda.
Riconoscere il dio sotto il sostituto allorché il sostituto è in piedi davanti ai fedeli, la fede lo può. Ancora più certamente, quando il sostituto non c'è più, quando il tempo è passato, quando il dramma sacro è diventato la leggenda che si ripete con i singhiozzi in gola, la fede affermerà che il dio era presente. E forse San Pietro ha creduto più dopo che durante. E forse San Paolo, che non ha visto nulla, ha creduto più di San Pietro, che aveva visto.
Riassumiamo.
Nella primavera dell'anno 27 (se non ad una data vicina), sulla sommità desertica di un ghilgal palestinese, che, un gran numero di secoli prima, era stato il santuario dell'antico dio Gesù, il dramma sacro si svolge, il sacrificio è celebrato, dopo un numero incalcolabile di sacrifici simili. Per l'occhio degli uomini che sono lì, c'è solo un qualunque sostituto di cui si simula la messa in croce; allo stesso modo oggi per l'occhio degli uomini che si avvicinano all'ostia eucaristica, c'è solo un pezzo di pane azzimo. Per l'occhio della fede c'è, allora come oggi, similmente, il dio.
Fisicamente, il sostituto resta il sostituto, il pezzo di pane azzimo resta il pezzo di pane azzimo.
Spiritualmente, il sostituto lì, e il pezzo di pane qui, sono diventati il dio. L'evento spirituale che la Chiesa chiama Transustanziazione si è compiuto nell'anno 27, per la millesima volta, tra Gerico e il Mar Morto, come nel 1927, dopo diciannove secoli passati, si compie quotidianamente in tutte le chiese della cattolicità.
Credo quia absurdum. L'inverosimile impossibilità è, per la fede e attraverso la fede, una realtà. Chi non ne avrà compreso almeno il principio deve rinunciare a interessarsi alla storia delle religioni. La meccanica e la chimica industriale sono capaci di occupare un'attività; nessuno è obbligato a studiare le origini del cristianesimo.
Che un tale atto di fede abbia potuto prodursi, è un primo punto che consideriamo al di sopra di ogni discussione.
E termineremo citando alcune righe in cui la nostra tesi è, per così dire, tradotta in termini astratti da un uomo che resta uno dei più fermi difensori della tesi evemerista, ma che è non solo un ammirevole erudito ma anche una mente eminentemente sensibile alle questioni religiose:
«Nella storia religiosa, ciò che agisce non sono i fatti, ma le idee, i sentimenti e le convinzioni, tutte cose che possono nascere dai fatti, ma che ne costituiscono almeno un'interpretazione e che in ogni caso i fatti non sono sufficienti a spiegare». [6]
Dovremo evocare, in un volume successivo, nella solitudine del ghilgal, la carovana della povera gente che viene a compiere il suo rito millenario, e che pianta le sue tende; e quando il sacrificio è compiuto, il dio staccato dalla croce e sepolto, e finito il pasto di comunione, la carovana riprende il suo viaggio, avendo compiuto l'evento più considerevole della storia degli uomini.
Ma nulla potrà essere considerato spiegato se non si è mostrato come quella rinascita della religione del dio crocifisso ha corrisposto e soddisfatto le più struggenti necessità spirituali della società degli uomini, nell'epoca rivoluzionaria in cui la civiltà antica entrava nel suo declino.
NOTE
[1] Giovanni 3:6.
[2] 2 Corinzi 5:16.
[3] Ebrei 11:1. Il testo greco significa «di cose» e non «delle cose», come lo si legge in un gran numero di traduzioni. La sfumatura è importante.
[4] Matteo 8:26, 14:31 e 16:8.
[5] Matteo 15:28.
[6] Maurice Goguel, articolo citato, Revue d'Histoire et de Philosophie religieuse, 1925, VI, pagina 538.
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