domenica 19 dicembre 2021

IL DIO GESÙLe epistole di San Paolo

 (segue da qui)


LE EPISTOLE DI SAN PAOLO

La messa a morte di Gesù non è «raccontata» nelle epistole di San Paolo. Abbiamo detto che le epistole di San Paolo sono lettere indirizzate dall'apostolo alle prime chiese cristiane verso la metà del primo secolo, vale a dire da venti a trent'anni dopo la crocifissione; ma queste lettere, benché essendo scritti di circostanza, non sono lettere missive ordinarie; sono state scritte per essere lette solennemente nelle comunità, come oggi i mandati di un vescovo; meglio ancora, sono state scritte per essere salmodiate, perché sono ritmate (almeno nella loro parte originale). Ma non si deve in alcun modo rappresentarsi San Paolo sotto le specie di un prelato occupato a mettere i suoi mandati in versi, foss'anche in versi liberi; il P. Jousse ha provato che la ritmica di San Paolo era dello stesso ordine di quello degli ispirati primitivi, profeti e dervisci. In una forma che pare come scaturita dal suo inconscio, San Paolo tratta le questioni che si presentano, senz'altra volontà che di dare alle comunità che ha creato le direttive che gli ispira lo «Spirito». La difficoltà è di riconoscere in queste lettere ciò che è di San Paolo e ciò che è aggiunto. Spingendo al limite la critica soggettiva (ma astenendosi da ogni considerazione filologica), il signor Henri Delafosse ha preteso togliere al maestro tutto ciò che gli è originale, per accordarlo a Marcione il discepolo; niente è più falso, e niente è più insostenibile; in realtà, né Marcione né i Marcioniti hanno interpolato e hanno dovuto interpolare le epistole di San Paolo, salvo beninteso qualche dettaglio, per la ragione che essi vi hanno attinto gli elementi della loro dottrina, e che il marcionismo non è che un paolinismo sviluppato. Le interpolazioni sono di mani cattoliche, e soprattutto destinate a correggere i passi che parvero precisamente alla Chiesa sospetti di marcionismo. [1]

Per discernere nelle epistole ciò che è originale e ciò che è interpolazione, la critica dispone di numerosi criteri; abbiamo già rimarcato che essa non impiega sufficientemente il criterio artistico. Ci sono nelle epistole versi ammirevoli di passione: ce ne sono di banali, di sovrabbondanti, di sorprendentemente ferventi (come quelli che abbiamo citato, 15:56-58 della prima epistola ai Corinzi); non esiteremo mai a riconoscere nelle cose belle la mano dell'autore, e quella dell'interpolatore nelle banalità. Il criterio più sicuro è ovviamente il criterio filologico; ma quale erudizione vi occorre! Un altro criterio sarebbe quello del ritmo, se non sollevasse ardue difficoltà. Ed ecco cosa sconvolge il signor Delafosse, le belle cose sono quelle che dichiara essere marcionite, vale a dire quelle che si riferiscono al sacrificio espiatorio, alla follia della croce; le banalità, quelle che riguardano il messianismo. L'avventura del signor Delafosse è, in verità, un decisivo esempio di ciò che può costare ad uno studioso la mancanza di senso artistico oltre che di  conoscenze filologiche.

Nei versi che sono la sua opera, San Paolo appare come uno scrittore di non minor genio dell'autore anonimo del più antico vangelo; ma egli presenta con lui un contrasto completo. L'evangelista è un narratore che ha l'anima di un drammaturgo; mette in scena e racconta. San Paolo non è né un narratore né un drammaturgo; è un visionario, ma è un profeta; vuole persuadere, e lo vuole con tutta la violenza della sua passione; è un poeta, ma è un poeta che mira all'azione.

Lo stile dell'evangelista era tutto limpida semplicità. Al contrario, lo stile di San Paolo è goffo, incoerente, persino caotico. In una lingua più barbara di quella di ciascuno degli scrittori del cristianesimo primitivo, in mezzo alle peggiori scorrettezze, con una inverosimile povertà di vocabolario e di sintassi, egli trova le parole, le combinazioni di parole più potentemente suggestive che nessun poeta ha realizzato fino a Pascal e fino a Rimbaud. Così, volendo parlare, seconda epistola ai Corinzi 5:5, dei barlumi di spiritualità che Dio accorda ai cristiani per sostenerli tra l'oppressione delle cose della terra (e impiego di proposito la misera metafora dei «barlumi» che verrebbe alla penna di un qualunque scrittore), San Paolo dice le «primizie dello Spirito». Si traducono i vangeli così facilmente come non importa quale narratore, e così facilmente come Omero; non si traduce San Paolo. La maggior parte delle traduzioni francesi che sono a scopo di edificazione, come Segond, si sforzano di attenuare le dissonanze; la traduzione del signor Loisy è letterale, ma, con tutto il suo talento, il signor Loisy non ha il senso della grande scrittura. 

Ora, ecco la domanda: come le epistole rappresentano la crocifissione di Gesù? 

Una volta, San Paolo ricorda ai Galati che egli ha «raffigurato» loro Gesù crocifisso; quella raffigurazione, che ci sarebbe così infinitamente preziosa, non ha ricevuto, ahimè, ahimè, nei suoi scritti la forma letteraria che l'avrebbe resa popolare al pari della tradizione evangelica, e non troviamo nulla nel corso di dieci epistole se non l'affermazione astratta che Gesù è stato crocifisso. La sola indicazione che apporta una precisazione è quella della prima epistola ai Corinzi 2:8, dove leggiamo che Gesù è stato crocifisso dai demoni, asserzione che ha bisogno di essere studiata e non fornisce, presa isolatamente, alcuna informazione; si vedrà, nel prossimo volume, che la crocifissione ad opera dei demoni è lo stadio intermedio tra la crocifissione puramente rituale delle origini e la crocifissione come la rappresentano i vangeli; senza soffermarsi qui, si constaterà soltanto che una crocifissione ad opera dei demoni può difficilmente essere assimilata ad una esecuzione capitale ordinata dall'autorità giudiziaria.

Quel che ne sia, bisogna rassegnarsi a constatare che non esiste nelle epistole alcuna descrizione, anche sommaria, della crocifissione di Gesù nelle epistole. Ma se non è facile apprendere dalle epistole come San Paolo immaginava la crocifissione di Gesù, sarà, per contro, facilissimo riconoscere come non la immaginava. E per ciò basterà prestare attenzione a ciò che chiamerei la malattia armonizzatrice, per non dire l'armonisalgia. Quella malattia, che affligge universalmente e tanto i critici razionalisti quanto i critici ortodossi, consiste nel prestare ad uno scrittore dati che appartengono ad un altro.

Un esempio ci farà comprendere. Sappiamo dai vangeli che Gesù è stato tradito da Giuda; d'altra parte, leggiamo in San Paolo che egli è stato «consegnato»... Senza ulteriore esame il critico affetto dalla malattia armonizzatrice comprende «consegnato da Giuda» e afferma che San Paolo conosce il tradimento di Giuda. Egli ha armonizzato San Paolo e i vangeli. Ma San Paolo non parla mai di Giuda, e per una buona ragione.

Allo stesso modo, quando il buon curato che sa che Gesù è il figlio della Vergine Maria, legge nelle epistole che Gesù è nato da una donna, intende immediatamente nato da una vergine, cosa di cui le epistole non proferiscono parola. 

Il P. de Grandmaison scrive, nel piccolo libro già citato, che «le lettere di San Paolo prendono per tema fondamentale Gesù di Nazaret, la sua vita e la sua morte». San Paolo, sia detto di passaggio, non pronuncia nemmeno una sola volta la parola Nazaret o Nazareno; ma quanto a prendere per tema fondamentale la «vita» di Gesù, ci premureremo di stabilire nel prossimo volume che le epistole la ignorano assolutamente; esse conoscono la morte di Gesù; esse non conoscono la sua vita; e chi lo contesterà sarà pertanto obbligato a confessare che la carriera di Gesù è singolarmente assente dall'orizzonte delle epistole. Ma quando il P. de Grandmaison, che è nondimeno uno dei più notevoli studiosi cattolici di questo tempo, legge un'epistola di San Paolo, non la legge che con uno solo dei suoi due occhi; l'altro, nello stesso istante, segue i testi evangelici.

Questo è l'esempio che dobbiamo sforzarci di non seguire. E conviene aggiungere che la difficoltà non sarà grande. La malattia armonizzatrice è una di quelle malattie che si trattano per mezzo dell'igiene e che è sufficiente evitare per non esserne affetti.

Attenendoci attualmente alla morte di Gesù, e la questione essendo così strettamente limitata, sembra possibile affermare, e nella maniera più categorica, che le epistole paoline [2] sono mute quanto ad un arresto, un processo, una condanna penale, e quanto al carattere giudiziario della messa a morte di Gesù. [3] E non solo le epistole autentiche sono mute quanto all'arresto, al giudizio, alla condanna e al carattere giudiziario dell'esecuzione, ma non vi fanno alcuna allusione, per quanto lontana sia.

I lettori non specialisti e che non sono familiari con la letteratura paolina apprenderanno, non senza curiosità, che San Paolo, mentre è ricolmo della crocifissione, non nomina mai Pilato, né i Romani, né Caifa, né il Sinedrio, né Erode, né Giuda, né le pie donne, né qualche personaggio che sia della Passione evangelica; e che non solo non li nomina, ma non vi fa mai allusione; infine che non menziona assolutamente nessuna delle circostanze della Passione, né direttamente, né per via di allusione. Intendiamoci, perché sembra necessario insistere su una constatazione di cui ciascuno comprenderà l'estrema importanza; San Paolo parla in tutte le pagine delle sue epistole, parla per così dire senza sosta della crocifissione di Gesù; e mai, direttamente o indirettamente, una frase si riferisce a qualcuno degli attori messi in scena dai vangeli; mai una riga si riferisce all'intervento degli ebrei o dei Romani; mai il minimo degli episodi è un istante evocato di ciò che si definirebbe oggi l'affare Gesù.

In due parole, chi avrebbe letto solo le epistole di San Paolo saprebbe che Gesù è stato crocifisso; ma ignorerebbe, e nella maniera più radicale, che egli è stato accusato di un crimine qualunque, che è stato arrestato, che è comparso davanti ad uno o più tribunali, che è stato condannato e che la sua morte ha avuto la forma di un'esecuzione giudiziaria. 

Tre dettagli sono eppure stati addotti. Vediamoli. 

Primo dettaglio: San Paolo dice [4] che Gesù è stato oltraggiato... Ecco la prova tangibile che Gesù è stato condannato dal procuratore e consegnato da lui agli insulti dei soldati... Ma San Paolo, se dice «oltraggiato», non dice da chi, e sostituire «dai soldati del procuratore» è un nuovo caso di malattia armonizzatrice. Gli oltraggi inflitti al dio nel corso della sua Passione sono, altrettanto bene, un episodio perfettamente regolare e conosciuto di un gran numero di drammi sacri. [5]

Secondo dettaglio: le epistole dicono che Gesù ha sofferto [6]... Prova decisiva di un supplizio penale... Ma, come per ciò che concerne gli oltraggi, quella cosiddetta sofferenza va contro la tesi giudiziaria. La parola e i suoi derivati che impiega San Paolo nei testi considerati è precisamente il termine tecnico che esprime le «Passioni» divine; [7] San Paolo non parla in alcun modo delle «sofferenze» che avrebbe sopportato Gesù, ma della sua «Passione», vale a dire del dramma sacro.

Terzo dettaglio: Gesù è stato crocifisso «a causa della sua debolezza» [8] ... Gesù era quindi debole... In realtà, San Paolo vuole dire che Gesù, avendo rinunciato momentaneamente alla sua forma di dio, come ciò è esposto nel celebre brano dell'epistola ai Filippesi 2:7-8, ha preso la forma e la debolezza di un servo; e insegna che dobbiamo essere deboli con lui al fine di risorgere gloriosamente con lui.

E tali sono i tre tratti che, secondo il razionalismo evemerista, proverebbero che le epistole rappresentano Gesù condannato a morte per ordine del procuratore Pilato ed ucciso dai legionari... I miei lettori non specialisti si domanderanno se tutto ciò non sia uno scherzo...

La conclusione è dunque molto ferma: nessuna traccia, in San Paolo, del processo, della condanna e dell'esecuzione giudiziaria. Dappertutto, al contrario, l'idea del sacrificio espiatorio. Se non sono date sul sacrificio espiatorio stesso più precisazioni che sulla crocifissione; se persino, a rigore, il termine tecnico, ἱλαστήριον, che è impiegato, [9] può passare per una metafora, è nondimeno universalmente riconosciuto, tra gli studiosi indipendenti e gli studiosi cattolici, che non soltanto la dottrina del sacrificio espiatorio si ritrova in tutte le pagine delle epistole, ma che le ispira da un capo all'altro.

Per dimostrare che San Paolo ha conosciuto l'esecuzione giudiziaria di cui mai parla, i razionalisti usano lo stesso argomento degli ortodossi, ed eccolo.

Le epistole sarebbero, con una differenza di grado o di punto di vista, nella stessa situazione dei vangeli; allo stesso modo dei vangeli, esse supporrebbero che il sacrificio espiatorio si sia operato sotto la forma eccezionale di un arresto, di una condanna e di un'esecuzione giudiziaria; ma, mentre i vangeli hanno giustamente per scopo di raccontarne gli episodi, San Paolo, che è un predicatore e non un narratore, li supporrebbe conosciuti dai suoi ascoltatori, vale a dire dai suoi corrispondenti.

Sia! Ma ciò spiega l'assenza di ogni indicazione, di ogni allusione?... Come, neanche una sola volta, nel corso di tutte queste epistole, nemmeno una sola volta San Paolo ha avuto l'occasione di fare di passaggio, per caso, un'allusione, perfino minima, a questi episodi, a questi personaggi?... Che in un gran numero di epistole l'occasione non si sia presentata, ammettiamolo... Ma in nessuno!... Niente, mai niente, ovunque si sia, dell'arresto, del processo, dei giudici, della folla, della terribile via della croce, di questo dramma indimenticabile?...

Ed ecco la risposta razionalista:

San Paolo non si interessava a questi dettagli...

Non ridiamo; e traduciamo in stile esegetico.

San Paolo, non avendo in vista che il Gesù secondo lo spirito, vale a dire l'essere divino, non ha voluto sapere nulla di ciò che è avvenuto al Gesù secondo la carne, vale a dire al Gesù uomo.

C'è in quella risposta, se la si medita, uno strano abuso di nozioni. San Paolo, si dice con ragione, si interessa solo ad un Gesù secondo lo spirito; evidentemente, il sacrificio espiatorio realizzato dalla sua morte concerne in primo luogo le cose secondo lo spirito; ma in che modo il fatto che la morte redentrice abbia avuto luogo sotto forma della crocifissione concerne lo spirito più degli altri episodi della morte redentrice? Ci si intenda. O San Paolo si disinteressa di ciò che è accaduto secondo la carne, e allora si accontenterà di annunciare Gesù sacrificato, e vorrà ignorare la forma di crocifissione che ha preso il sacrificio, come ignorerà il resto; oppure San Paolo si interesserà alla forma che ha preso il sacrificio, e si interesserà tanto agli episodi formidabili della Passione quanto al fatto stesso della crocifissione. Se la tragedia della Passione appartiene alle cose «secondo la carne», l'operazione della messa in croce non vi appartiene di meno. Se la crocifissione appartiene alle cose «secondo lo spirito», gli altri episodi della tragedia vi appartengono egualmente.

È certo, e noi arriviamo ad una considerazione sulla quale avremo da ritornare, è certo che il punto di vista della fede in sé è indifferente alla maniera in cui si è materialmente svolto il sacrificio. Ma si dimentica che la fede dei grandi mistici come San Paolo, come San Francesco d'Assisi, come Santa Teresa, è una fede visionaria, eminentemente avida di immagini, e delle immagini più concrete. Cosa c'è che, nel sacrificio della croce, allucina San Francesco d'Assisi? Le sacre e sanguinolente stigmate rispondono sufficientemente. I dettagli materiali della Passione, nel loro orrore fisico, sono il cibo di cui avrebbe necessariamente dovuto alimentarsi la fede di San Paolo, come se ne è alimentata la fede di San Francesco d'Assisi e di Santa Teresa e di San Giovanni della Croce.

E concludo: se San Paolo avesse conosciuto la tragedia della Passione, se ne sarebbe nutrito.

Per prendere i fatti dal punto di vista della semplice verosimiglianza, noi immaginiamo difficilmente nel nostro XX° secolo l'orribile supplizio che era la crocifissione, uno dei più atroci che la malvagità umana abbia inventato; ma mal si comprende come un cristiano, che visse all'epoca stessa in cui Gesù l'avrebbe subita, che non ebbe assistito allo spaventoso evento, ma che conobbe i testimoni che vi avrebbero assistito, non ne abbia mai espresso l'orrore. Ma se si pensa all'angoscia quasi fisica che le peripezie del dramma raccontato dai vangeli hanno ispirato, durante i secoli, nei credenti, ci si domanda come un mistico, un esaltato come San Paolo sarebbe stato il solo a non trovare, non fosse che una sola volta, nel corso di dieci epistole, una parola per evocarne l'allucinante incubo. E chiunque tenterà, al posto di rinchiudersi in uno studio libresco, di realizzare le cose, non potrà dedurne che questo: quel terrificante supplizio, egli non lo ha conosciuto; egli ha conosciuto solo un rito di sacrificio, — ciò solo — e nulla di più. 

Il lettore si dirà che ci si dà qui molta pena per provare che la cosa che è assente da un testo fosse assente dal pensiero del suo autore. Perché se mai la prova sembra dover essere a carico di una delle parti, è a carico di quella che dichiara: San Paolo non fa mai allusione al racconto evangelico della Passione, ma lo conosceva perfettamente.

Sarebbe facile per noi dimostrare similmente che la condanna giudiziaria e l'esecuzione di Gesù non sono solamente ignorate dalle epistole di San Paolo, ma anche dalla maggior parte degli scritti cristiani antichi, salvo beninteso dai vangeli e da una parte (da una parte solamente) degli Atti. Il silenzio dell'Apocalisse è in particolare lo stesso di quello delle epistole paoline; quanto all'epistola agli Ebrei, una vaghissima allusione vi appare al supplizio penale. Da cui risulta che la tradizione dell'esecuzione giudiziaria era lontana dall'essersi imposta all'epoca stessa in cui fu scritto il più antico vangelo.

Nel prossimo volume, esamineremo come San Paolo concepisce la crocifissione in un modo già evoluto e che già non è più esattamente quello dell'antico dramma sacro. Ci basterà qui aver stabilito che la crocifissione di Gesù non è per lui un'esecuzione giudiziaria ma un sacrificio espiatorio.

E tutto ciò riceverà una conferma sovrabbondante, quando si sarà in seguito stabilito che la carriera umana prestata a Gesù dai vangeli non è meno completamente ignorata dalle epistole paoline del suo supplizio penale.  

NOTE

[1] Si veda sopra, pagine 32 e seguenti.

[2] Resta convenuto che noi non intendiamo mai, sotto il nome di epistole paoline, se non le prime dieci epistole al massimo, ad esclusione delle tre epistole pastorali riconosciute posteriori dall'unanimità dei critici indipendenti.

[3] Per quel che è del testo di 1 Tessalonicesi 2:15, si veda sopra, pagina 33; con un gran numero di critici, lo stesso signor Loisy lo considera interpolato; ma se fosse autentico, sarebbe solo una testimonianza ben approssimativa del carattere giudiziario della messa a morte di Gesù.

[4] Romani 15:3.

[5] Il lettore sarà forse divertito nel constatare a quali abbagli può condurre la malattia armonizzatrice. Il signor Cullmann scrive (Revue d'Histoire et de Philosophie religieuse, 1925, VI, pagina 570) che San Paolo «menziona solo gli eventi della vita di Gesù che si riferiscono alla Passione». A parte il fatto stesso della messa in croce, domando al signor Culmann quali sono «gli eventi» che «menziona» San Paolo. In nota, il signor Culmann ne adduce uno, uno solo, e precisamente gli oltraggi, ma scrive: «gli oltraggi che Gesù ha accettato senza mormorare». «Senza mormorare» dà evidentemente alla cosa una piccola aria di realtà umana; ma «senza mormorare» non è di San Paolo; «senza mormorare» è un'invenzione del signor Cullmann.

[6] 2 Corinzi 1:5 e 7; Romani 8:17; Filippesi 3:10.

[7] Si veda sopra, pagine 96 e seguenti.

[8] 2 Corinzi 13:4.

[9] Romani 3:25.

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