martedì 7 dicembre 2021

IL DIO GESÙI racconti evangelici

 (segue da qui)


I RACCONTI EVANGELICI

È possibile sapere quale, dei nostri quattro Vangeli, è il più antico scritto? O, per parlare con più precisione, quale è quello degli scrittori evangelisti che, utilizzando gli elementi che gli forniva la tradizione, ha raccontato per prima, nel contesto che gli altri hanno ereditato e hanno conservato, e che il folclore ha arricchito, la vita e la morte di Gesù?

Il vangelo secondo San Matteo, il primo nell'ordine del canone, è passato a lungo per esser stato egualmente il primo nell'ordine cronologico. La priorità è generalmente accordata oggi, tra gli studiosi razionalisti, a quello secondo San Marco. Sotto le loro forme attuali, i vangeli secondo San Luca e secondo San Giovanni sono evidentemente posteriori; ma alcuni studiosi hanno potuto avanzare recentemente l'opinione che queste forme ricoprivano stati più antichi che essi considerano primitivi. Essi stessi, i vangeli secondo San Matteo e secondo San Marco possono benissimo essere nuove edizioni di testi più antichi. Non è infine affatto inimmaginabile che un Proto-vangelo sia esistito, anteriore a quelli che possediamo e il cui testo sarebbe andato perduto. Si vede quale incertezza e quali difficoltà pesano sul problema.

Stessa incertezza quanto alla lingua nella quale ha potuto essere scritto il vangelo originale. A lungo il testo greco del vangelo secondo San Matteo è stato considerato una traduzione o una trascrizione dell'aramaico. La stessa ipotesi è stata sostenuta quanto a quello secondo San Marco; è egualmente possibile, come ha suggerito il signor Couchoud, che esso sia la traduzione di un testo latino originariamente destinato a quei cristiani di Roma che parlavano il latino o piuttosto la forma popolare dialettica del latino. Aggiungiamo che i recentissimi lavori del P. Jousse hanno dato un rinnovato interesse all'ipotesi di un testo aramaico primitivo.

Ma se è difficile indicare, tra i nostri quattro vangeli, quello che, essendo primitivo, ha servito agli altri da modello o quello che si avvicina di più ad un vangelo primitivo scomparso, e se non è meno difficile decidere in quale lingua sia stato scritto, abbiamo il diritto di affermare, e nella maniera più categorica, che questo vangelo primitivo, di cui non possiamo dire il nome, che è forse uno dei nostri quattro vangeli, o di cui uno dei nostri quattro vangeli è forse la trasposizione, è stato uno dei più grandi capolavori della letteratura umana.

Un capolavoro, perché, in tutta certezza, è stata una creazione oltre che una realizzazione.

Sappiamo che gli elementi che costituiscono i racconti evangelici sembrano provenire, gli uni da una raccolta di Detti che Gesù avrebbe pronunciato, gli altri da una raccolta di Testimonianze, vale a dire da profezie prese dall'Antico Testamento e che Gesù avrebbe adempiuto. Da questo doppio caos, il vangelo originale ha ricavato il dramma, unico al mondo, di cui gli altri vangeli sono le trascrizioni e lo sviluppo. E un istante di riflessione è sufficiente a far intendere che per concepire ed eseguire una tale opera, occorreva, in effetti, che lo scrittore fosse dotato dei più rari doni della creazione e della realizzazione.

La creazione fu il contesto nel quale organizzò gli elementi che gli forniva la tradizione, e fu la vita prodigiosa con cui li animò. Così Shakespeare ha ricevuto da altri i soggetti di Amleto, di Romeo e Giulietta, di quasi tutti i suoi drammi, e ha compiuto la sua opera mettendoli in drammi. Ma il paragone fa torto all'evangelista; se Shakespeare ha ricevuto da altri embrioni di drammi, domandiamoci ciò che il più antico evangelista aveva ricevuto dalla tradizione.

Quanto alla morte di Gesù, equivarrebbe ad anticipare le nostre conclusioni mostrare mediante quali tentativi ed errori e quali incoerenze era necessariamente passata la tradizione nell'opera di trasformazione che finiva appena di completare, quando il primo evangelista prese la penna. Ma, qualunque ne sia di quella questione, gli studiosi razionalisti sono d'accordo sul fatto che la maggior parte degli episodi della Passione sono, altrettanto bene degli episodi della carriera di Gesù, adempimenti di profezie, illustrazioni di logia e petizioni della fede delle comunità; mi basterà dunque seguire le conclusioni alle quali è arrivata la critica indipendente, sia quanto ai racconti della morte che quanto ai racconti della vita di Gesù.

Si deve cercare di immaginare la tediosa compilazione che poté essere la raccolta dei Detti, il manuale delle Testimonianze ricavate dalle Scritture. Si legga, per farsene un'idea, i Logia recentemente scoperti in Egitto e che sembrano essere stati la continuazione dei Logia primitivi...

Il Signore ha detto... (segue una sentenza).

Il Signore ha detto... (segue un'altra sentenza).

Il Signore ha detto... (segue una nuova sentenza).

E quanto al manuale delle Testimonianze, nient'altro che un'arida serie di «scritture» prese dagli antichi Profeti, e che Gesù avrebbe adempiuto. «I sordi udranno, gli zoppi cammineranno, i ciechi vedranno», e la semplice, banale e astratta deduzione che i sordi hanno udito, che gli zoppi hanno camminato, che i ciechi hanno visto, senza che venga mai detto chi fossero questi sordi, questi zoppi e questi ciechi, e come avessero recuperato l'udito, il cammino e la vista.

Una profezia, e poi una profezia, e poi un'altra profezia.

Un precetto, e poi un precetto; una rivendicazione, e poi una rivendicazione; un'invettiva, e poi un'invettiva; una promessa, e poi una promessa. 

Ecco il libro dei Detti; ecco il libro delle Testimonianze.

Non l'ombra di un'azione.

Non un fremito di sensibilità.

Non un soffio di vita.

E non parliamo delle novità cultuali, oppure liturgiche, che si trattava di legittimare...

Una sola cosa vivente: i temi leggendari che correvano nell'Oriente ellenistico.

Nell'anima visionaria del primo degli evangelisti, ciascuna profezia realizzata diventa un evento, ciascun detto diventa un episodio, e ciascun evento, ciascun episodio è esso stesso, nel contempo, un quadro, un racconto e una scena drammatica. Nell'anima visionaria del poeta, il luogo e l'epoca si precisano; il lago, le barche, la tempesta sorgono; il cielo e le colline appaiono; un'atmosfera si dispiega; e, nello stesso momento in cui gli scenari si profilano, i personaggi spuntano dal nulla; vanno; vengono; parlano tra loro; la folla passa, talvolta lontana, talvolta che si mescola all'evento; i discepoli mostrano i loro volti; le pie donne si affrettano; infine, Gesù, Gesù stesso si leva dalle sue tenebre secolari, ed ecco il colpo di genio: si direbbe che è un uomo, e resta misteriosamente un dio; e, in verità, ha il cuore di un uomo, e così profondamente vero nelle sue mille sfaccettature, nella sua psicologia infinitamente sfumata, di una voce così risonante, che solo un grande poeta poteva estrarne dalle sue viscere la realtà.

Creazione di una cornice, creazione del luogo e dell'epoca, creazione di venti personaggi, creazione di un eroe più vivo di qualsiasi eroe di dramma o di romanzo. Ho nominato Shakespeare; si pensi ad Omero che raccolse chissà quali embrioni di epica e che narrò l'Iliade; si pensi a Richard Wagner, che prese dalle saghe chissà quali insipidi racconti, e che realizzò l'opera incomparabile di creare, in pieno XIX° secolo, una leggenda. Ma l'opera dell'evangelista è più straordinaria, che da una raccolta di massime, da un vademecum di propaganda e da un manuale liturgico trae la tragedia della vita e della morte di Gesù.

Un racconto, a dire il vero, o piuttosto una successione di brevi racconti isolati, pressappoco indipendenti, e che lega la figura del personaggio principale, e in cui prendono vita i temi leggendari tramite cui gli uomini hanno da ogni tempo espresso la loro concezione del divino. Ma il miracolo è che, al contrario di un Omero, di un Wagner e di uno Shakespeare, l'opera è quella di un uomo che fu, nessuno potrebbe dubitarne, un incolto. Che il vocabolario sia povero e indigente la sintassi è, in effetti, un segno di incultura; ma questa non è affatto la prova che il genio abbia fatto difetto. E alzo le spalle quando vedo alcuni critici mettere tale scrittore sacro al di sopra di tal altro sotto il pretesto che quest'ultimo arrotonda meglio le sue frasi!

Una cosa eppure manca generalmente nei testi evangelici, e quella considerazione tenderebbe a far ammettere che i più antichi siano stati delle traduzioni: non vi si trovano le parole possenti ed evocative, le citazioni imperiose che sono la caratteristica dei grandi scrittori e che abbondano al contrario nelle epistole di San Paolo. Ma sotto la semplicità un po' corsiva della forma, quale limpidezza! Mai fiume più puro è sceso, e mai più carico di mistero. 

Ho parlato fin qui solo dell'invenzione, della composizione, della realizzazione letteraria; resterebbe da mostrare come quella realizzazione, quella invenzione, oltrepassando tutto ciò che uno Shakespeare ha potuto produrre, sia servita ad esprimere la più alta spiritualità religiosa. Vertice quasi unico dove l'arte ha dato la mano alla preghiera.

E, per terminare, il grande capolavoro, il racconto della Passione; chiedo che lo si rilegga, perché di fatto è della Passione di Gesù che si tratterrà in questo volume.

Dapprima, l'ultima cena; la notte nell'Orto degli ulivi; l'arresto; la comparsa davanti ai due tribunali, l'ebraico e il romano; l'orribile folla; la condanna; la flagellazione; la salita al calvario; la crocifissione; la morte e la sepoltura; la resurrezione.

Si dimentica troppo spesso, tra gli storici delle religioni, a qual punto la potenza d'espressione, vale a dire il valore formale, sia una causa di successo per la propagazione di un'idea. Tutt'altra cosa è sapere se è una prova di storicità. Uno dei grandi poeti di questo tempo mi disse un giorno che la figura di Gesù nei vangeli gli appariva di una così possente verità che non poteva trattenersi dal credere ad una realtà. Mi è stato facile rispondergli (non che la storicità dei fatti della carriera di Gesù che raccontano i vangeli non fosse sostenuta oggi da nessun studioso indipendente, argomentazione che avrebbe mediocremente controbattuto la sua impressione di artista), ma che, il più antico dei vangeli essendo stato scritto quasi mezzo secolo dopo la crocifissione, ad una distanza dal paese che rappresentava allora un viaggio interminabile, e dopo uno dei più grandi sconvolgimenti che conosca la storia, non era concepibile che i mille dettagli infimi il cui insieme dà giustamente alla figura di Gesù la sua verità abbiano potuto essere conservati dalla tradizione; perché non bisogna dimenticare che la verità di un personaggio non risulta mai dalle sue grandi linee, ma precisamente dall'intreccio delle innumerevoli sfumature che alcun ricordo può conservare per cinquant'anni. Mi è stato egualmente facile, da un punto di vista generale, asserirgli che un personaggio reale presentato da uno scrittore fittizio diventa un personaggio falso, e che un personaggio immaginario presentato da un autentico artista diventa un personaggio vero... E il mio amico ha concluso, quanto al vangelo: — L'opera di un grande poeta allora... 

Una risposta analoga dovrebbe essere fatta alla classica obiezione: l'insegnamento che i vangeli mettono in bocca a Gesù non può non essere stata l'opera di una personalità eccezionale. È da moltissimo tempo che Salvador, poi Joseph Cahen, poi Rodrigues hanno provato, testi alla mano, quanto poco nuovo fosse nel primo secolo l'insegnamento prestato a Gesù; e, dopo Salvador, Joseph Cahen e Rodrigues, abbiamo appreso come la raccolta dei Detti fosse costituita dall'aggiunta successiva di ciascuno dei suoi tratti. Ma queste considerazioni non sminuiscono in alcun modo l'insegnamento evangelico. Se ciascun tratto in particolare è sprovvisto dell'originalità che si voleva trovarvi, questo, per contro, è potentemente, è divinamente originale: la scelta, l'accento, la risonanza, quello che chiamerei il valore musicale nel senso più profondo dell'espressione, e, al di sopra di tutto, il valore mistico. E in ciò giustamente si riconosce l'opera di un grande poeta, — di un grande poeta e di un grande mistico.

Se bisogna affidarsi all'impressione artistica per giudicare della bellezza di un'opera, non è dunque in alcun modo su quella impressione che conviene affidarsi per giudicare della sua storicità, ma su una fredda analisi. Ma, se a ciò che chiamerei la lettura artistica o semplicemente la lettura emotiva, vale a dire alla lettura ingenua succede la lettura critica, le improbabilità sorgono e si accumulano. Non c'è motivo di enumerarle qui; ricordiamo solo che Gesù viene arrestato, compare davanti a due tribunali e viene ucciso nello spazio di poche ore; il tribunale ebraico si riunisce durante la notte; e questa stessa notte è una notte di festa religiosa, mostruosità che prova da sé sola quanto lo scrittore fosse lontano dagli eventi che racconta e dai luoghi che descrive. Nessuna forma è rispettata; si commettono cose, violazione ripetuta del Sabato per esempio, che la legge ebraica e il costume ebraico condannavano e proibivano senza riserve e che non si sono mai viste a Gerusalemme. Quanto a Pilato, è una figura dell'immaginario popolare inimmaginabile per un magistrato romano.

Ma è ben altra cosa se si confrontano i primi tre e il quarto vangelo. Nemmeno accordo sulla data, né sul giorno, né sull'anno! Nei primi tre, Gesù è messo a morte un venerdì, che si ritrova essere quell'anno il giorno dopo la Pasqua ebraica; nel quarto, questo venerdì è il giorno stesso della Pasqua; e quella differenza di giorno conduce ad una differenza di anno, gli anni in cui la Pasqua è caduta un giovedì non essendo quelli in cui è caduta un venerdì. Ora, la divergenza è moralmente tanto più inquietante perché i critici sono d'accordo nell'attribuirle cause dogmatiche, e in nessun modo un amore di verità. San Giovanni, secondo loro, avrebbe collocato la morte di Gesù il giorno della Pasqua al fine di fare della sua morte un rinnovamento del sacrificio pasquale e per giustificare la data della Pasqua cristiana osservata nelle comunità d'Asia, mentre la data adottata dai Sinottici pretendeva di legittimare l'osservanza pasquale delle comunità d'Occidente. Si vede quale fiducia tali preoccupazioni possono ispirare nell'informazione di uno storico.

Nona appena ci si ricorda, d'altra parte, gli innumerevoli racconti dei drammi sacri seri o comici che rileva, per esempio, il Ramo d'oro, con i loro re da farsa immolati, oppure i misteri di Osiride, ci si domanda per quale oscura coincidenza l'esecuzione di Gesù avrebbe riunito la maggior parte delle caratteristiche di queste terribili feste.

L'argomento, il più forte, dal semplice punto di vista del buon senso, contro la storicità della Passione non è, infatti, il suo carattere leggendario, il quale potrebbe, a dire il vero, essere aggiunto ad un fondo storico; è che al fondo, al di fuori di ogni aggiunta leggendaria, essa si presenta come una «passione» di un dio morto e risorto; è che possiede essenzialmente tutti gli elementi fondamentali, al contempo tragici e derisori, di un dramma sacro.

La carriera di Gesù che ha preceduto la sua morte, come è raccontata nei vangeli, susciterebbe la stessa ammirazione, ma risveglierebbe gli stessi dubbi, e abbiamo detto a quali conclusioni era arrivata la critica razionalista stessa quanto al suo carattere storico. Ma si tratta in questo momento solo della Passione; comunque la messa a morte di Gesù è il punto di partenza sul quale verte tutt'intero il problema delle origini cristiane.

Che i racconti della Passione nei vangeli non siano altro che una mirabile leggenda senza storicità è dunque la conclusione alla quale tutte le strade ci conducono; la questione è riconoscere di quale tradizione primitiva essi sono la drammatizzazione leggendaria.

I racconti evangelici espongono e la Chiesa insegna che, se Gesù è morto torturato, martirizzato in virtù di una condanna pronunciata dal procuratore Pilato, quella esecuzione giudiziaria è stata il sacrificio espiatorio tramite il quale gli è piaciuto compiere la sua opera redentrice. La morte di Gesù sarebbe quindi, nel contempo, un'esecuzione giudiziaria e un sacrificio espiatorio, o, piuttosto, un sacrificio espiatorio che, invece di compiersi secondo il rituale d'uso, si sarebbe operato sotto le specie di un'esecuzione giudiziaria. Ci si rende conto che non vi è là un'asserzione storica, ma una dottrina teologica, la cosa intendendosi solo in quanto realizzazione di un piano soprannaturale. Avendo Dio padre deciso di inviare suo figlio, o quest'ultimo avendo lui stesso deciso, d'accordo con suo padre, di venire ad espiare i peccati degli uomini, l'esecuzione giudiziaria sarebbe stata il mezzo col quale, dopo l'esame dei vari tipi di morte possibili, le due persone divine, ovviamente assistite dalla terza, avrebbero creduto di dover fare la loro scelta. Lo storico, trovandosi nell'impossibilità di controllare le cose che si sono svolte tra Dio padre e Dio figlio, deve domandarsi se la messa a morte di Gesù sia un'esecuzione giudiziaria interpretata dalla fede in sacrificio espiatorio, o se non sia un sacrificio regolare trasformato in supplizio giudiziario.

Una tradizione giudiziaria e una tradizione sacrificale si ritrovano, in ogni caso, tutte e due, e fianco a fianco, nei racconti evangelici.

Ne è lo stesso nelle epistole di San Paolo? 

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