sabato 20 febbraio 2021

Gesù CristoI testi cristiani

 

CAPITOLO IV

I testi cristiani

Il metodo

Con i testi cristiani, andremo finalmente a trovare menzioni relative alla vita di Gesù. Tuttavia, uno studio attento del Nuovo Testamento ci avverte fin dall'inizio che l'ordine ne è stato distorto: il «canone» della Chiesa non li ha classificati secondo la loro antichità.

Il primo compito consiste quindi nel riclassificare, nei limiti del possibile, questi testi secondo la loro data di redazione. Non è un compito facile, poiché molti testi hanno subito alterazioni, aggiunte o interpolazioni successive.

I falsi vi abbondano: l'interpolatore può benissimo garantire la sua menzogna con la formula: «Prendo Dio a testimone che io non mento», ma perché questo cauto giuramento se quello che scrive è la verità?

Operata questa riclassificazione, una sorpresa ci aspetta. Se Gesù ha avuto un'esistenza terrena, si dovrebbero trovare nei testi cristiani, in tutta logica, dettagli storici sulla sua vita in Galilea e a Gerusalemme, scoprire preziosi indizi sulla sua famiglia, sui suoi parenti, sui suoi discepoli e sul suo sorprendente ministero di profeta e di buon pastore.

Il narratore dovrebbe, a quanto pare, condurre il lettore nel percorso unico nel suo genere, originale e senza precedenti di un Cristo Gesù simile agli umani, fino alla sua divinizzazione finale.

Ma non è così che le cose si svolgono, al contrario. Leggiamo che il Cristo  è stato considerato dall'inizio un personaggio puramente celeste: nell'Apocalisse (attribuito falsamente a Giovanni) egli siede presso il trono di Dio, la sua venuta al mondo è programmata solo in un futuro ipotetico. 

Gesù non è ancora, secondo la parola di Plinio, Christo quasi deo.


San Paolo

 Con le epistole di Paolo, facciamo un passo in più. Gli scritti che gli sono attribuiti sono i più antichi. Su Gesù, l'autore non ne sa di più: non l'ha mai visto in carne e ossa, avendolo conosciuto grazie ad una visione. 

Se avesse visto il Cristo uomo, l'avrebbe sbandierato fino a renderci sordi, essendo dotato per il rumore. Quando lo incontra in spirito sulla via di Damasco, non riconosce il Signore e l'apparizione deve declinare i suoi titoli e qualità (Atti 9:5).

«Paolo non è stato testimone oculare», ammette l'abate di Broglie, «è stato istruito dalla rivelazione». L'apostolo concorda volentieri: «Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero di cui sopra vi ho scritto» (Efesini 3:3) e ancora: «Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1 Corinzi 11:23).

Insiste: «Vi dichiaro: il vangelo da me annunciato non è opera d'uomo, perché io stesso non l'ho ricevuto né l'ho imparato da un uomo, ma l'ho ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo» (Galati 1:11).

Il messaggio di Paolo identifica il Cristo agli antichi culti pagani: egli vede in lui un puro spirito, il Kyrios (Signore).


Paolo è esistito?

 In questo ammasso di documenti falsificati, la questione è legittima e conviene verificare tutto. Paolo non è menzionato una sola volta nei vangeli, anche se scritti dopo di lui, né nelle epistole attribuite a Giacomo, Giovanni e Giuda.

Intorno al 150, il vescovo Papia non lo conosce neppure. È Marcione che rivelerà le sue epistole intorno al 140 e al di fuori di quelle, Paolo appare solo negli Atti degli Apostoli, opera tardiva e profondamente rimaneggiata. Tutto ciò è quindi sospetto.

Tuttavia, vari controlli incrociati sembrano indicare che Paolo è veramente esistito.

In primo luogo, Marcione, che sembra degno di fede, ce lo garantisce, benché non sia stato lui stesso un testimone diretto.

Secondo Clemente di Alessandria, Marcione veniva da Sinope, in quella provincia del Ponto, che fu il territorio amato da Paolo per le sue missioni. Avrebbe potuto benissimo sentire parlare dell'apostolo e conoscere la sua cerchia.

In secondo luogo, la tradizione attribuisce a Paolo la fondazione di numerose comunità cristiane in ambiente pagano e qualcuno deve averle fondate.

Così non vediamo alcuna ragione di respingere il loro fondatore.

Inoltre, le epistole di Paolo contengono le vestigia di una stesura iniziale che non può essere attribuita a Marcione, e ancor meno alla Chiesa del II° secolo.

Infine, se gli Atti degli Apostoli sono composti in due parti, la seconda ha qualche chance di essere più antica e presenta buone apparenze di relativa autenticità.

Per numerosi autori, pie e goffe interpolazioni successive, destinate ad accrescere il ruolo di Pietro, alterano la veridicità della prima parte degli Atti.


Uno di nome Saulo di Tarso

È quindi plausibile che Paolo sia vissuto e bisogna conoscere questo personaggio.

Non è cosa facile, dato che la storia profana lo ignora tanto quanto Gesù, va raggiunto altrove. Allora comincia un esercizio che non ha finito di sorprenderci e di divertirci: si rinvieranno le epistole agli Atti, gli Atti ai vangeli, i vangeli ai Padri, i Padri ai Figli e i Figli allo Spirito Santo. Tutto si svolge in famiglia.

Secondo il clan, Paolo nacque a Tarso, in Cilicia (una regione al confine con la Siria), intorno all'anno 10, ma un'altra tradizione riportata da san Girolamo lo fa nascere in Galilea. [48]

Da adulto, fabbrica tende e respira l'odio contro i cristiani. Gli Atti degli Apostoli (7:58) gli danno anche un piccolo ruolo muto nel martirio di santo Stefano: preposto al guardaroba, sorveglia i mantelli.

Abdia, più o meno vescovo di Babilonia, lo accusa di aver cospirato nel martirio di san Giacomo.

In tutta logica cristiana, un uomo come costui finisce sempre per convertirsi: è quel che avviene. Gli Atti, contenti per tre volte che Paolo si recasse a Damasco, fanno correre il cristiano quando, tutto di colpo, in pieno mezzogiorno, si ribalta e cade: la grazia di Dio aveva appena colpito. Lo si ritrova cieco e credente. [49] Conversione tanto folgorante quanto astuta, che ci dispensa dal doverne chiarire la psicologia.

Si dice che in seguito Paolo fece prodigi: informatevi negli Atti. Per finire, lo strano personaggio scompare così come è venuto: si ignorano la data e il luogo della sua morte.

Certi affermano che l'apostolo dei gentili ebbe la testa decapitata. La cronologia degli Atti lo situa in prigione a Roma nel 61. Ma, già assolto da Festo (Atti 25:25), fu senza dubbio graziato.

Si ignora se fu in seguito accorciato. Perché si perde la sua traccia. Dove si trovava nel 64 al momento dell'incendio di Roma ? Las Vergnas propende per la fuga: melius est nubere... quam uri (1 Corinzi 7:9).

Se si crede al canone di Muratori, si sarebbe stabilito in Spagna. Nella sua epistola ai Corinzi (5:7) Clemente assicura che morì «alle estremità dell'occidente», il che, per un Romano come Clemente, non può essere Roma.

La tradizione, però, colloca il suo martirio nella Città temporaneamente Eterna, ne ignora la data e le circostanze, ed esige un nuovo processo che nessun testo viene a confermare.

I miei avversari mi opporranno la 2° epistola a Timoteo (4:6 ss), ma solo i Cattolici credono ancora all'autenticità delle Pastorali, respinte persino dal timido Goguel. Appaiono intorno al 180.

È per mezzo di una pia finzione che si riunirà Pietro e Paolo nella morte comune come per riconciliarli.

La vita di Paolo comporta numerosi enigmi e contraddizioni. Chi ci dirà, per esempio, perché Paolo è cittadino romano? Tarso diventerà colonia romana solo un secolo più tardi.

Non si può percuotere col bastone un cittadino come è Paolo per inavvertenza (2 Corinzi 11:25) Questo è senza dubbio solo un dettaglio, ma il personaggio ha carisma, soggioga. Vedi cosa ne pensa, devoto, padre Renié: «Ebreo per razza ed educazione, greco per luogo di nascita e lingua, cittadino romano, era il punto di contatto tra tre mondi». [50]

Paolo era più di un uomo: era un trivio. Ancora un poco e sarebbe una sintesi, nonché un simbolo. È strano che a metà del II° secolo né il vescovo Papia né Giustino il convertito conoscessero Paolo e le sue epistole. San Giustino attribuisce addirittura esplicitamente ai dodici l'evangelizzazione dei Gentili. [51]

L'abbiamo detto prima, Paolo probabilmente non è costruito di sana pianta. Sotto il Paolo della leggenda emerge una personalità potente che appare in diversi versi delle epistole.

Inoltre, la tradizione ci ha lasciato il suo ritratto fisico, cosa che non ha fatto per il Cristo.

Si legge negli Atti di santa Tecla, raccomandati da san Gregorio di Nazianzo e sant'Ambrogio: «Paolo era grosso, corto e largo di spalle. Le sue gambe erano piegate e le sue ginocchia si toccavano, procedeva a piccoli passi e la sua testa era diventata pressoché calva ed era pieno della grazia di Dio».

Si vede la natura aveva resistito alla grazia.


Le epistole paoline

Se questo Apollo cristiano non era Paolo, è certo che gli assomigliava. Forse portava anche il suo nome. Si mise sotto questo patronimico un amalgama di scritti chiamati «epistole», alla stessa maniera in cui si sono riunite sotto la sigla «Omero» poemi non identificati. 

Certi testi sono compilazioni. Goguel distingue cinque o sei lettere mal cucite nelle due Epistole ai Corinzi. [52]

Renan rileva quattro o cinque finali nell'Epistola ai Romani, il che implica altrettante estensioni. [53]

Non vi è neppure unità di pensiero: così l'uomo è predestinato, ma Dio lo ricompensa secondo le sue opere; predestinazione e libero arbitrio hanno traumatizzato interi greggi di seminaristi.

Le donne devono tacere nelle assemblee, ma si copriranno la testa per parlare. La circoncisione è inutile, ma la si infligge a Timoteo.

Lo stile non è più omogeneo: qui il tratto incisivo dell'uomo d'azione, là la metafisica del teologo con i piedi nelle orecchie: rimando il lettore all'eloquente parallelo tra le due leggi (Romani 7).

La molteplicità degli autori è così evidente che l'esegesi, specialista dell'arbitrarietà, si serve di una dubbia scappatoia: Paolo aveva ricorso ai segretari.

Non disponendo di alcun testo paolino certificato autentico, è impossibile distinguere il vero dal falso. L'apostolo è il nucleo di una nebulosa chiamata Paolo, dove fluttuano allo stato gassoso molte incognite. 

Molti testi che gli sono attribuiti sono stati scritti molto tempo dopo la sua morte. La più antica edizione delle sue Lettere è quella dell'Apostolikon, che era utilizzata a Roma, intorno al 140, da Marcione, nel corso delle sue controversie teologiche.

La si è ricostituita nella sostanza, grazie alle indicazioni fornite al riguardo dagli avversari dell'eresiarca. [54] Differiva di molto da quella che la Chiesa ha trattenuto. Le Epistole a Timoteo, a Tito e agli Ebrei non vi si trovavano affatto, e quelle che ne facevano parte erano più brevi delle versioni conosciute oggi.

Alfaric ha ragione a stupirsi della povertà delle prove: «Nella misura in cui il terreno evangelico si perde, i difensori della tradizione ricadono sulle Epistole di Paolo. L'Apostolo è ben più vicino alle origini del cristianesimo di qualsiasi degli evangelisti. Non ha affatto tentato di scrivere una vita del Cristo». [55]

Las Vergnas se ne indigna: «Liberi da ogni collare dogmatico, gli indipendenti attingono a caso dalle epistole e tolgono, non si sa bene perché, quel che prendono per un espressione di Paolo, di Cerinto o di Apollo. Ma i colleghi, forbici in aria, si affrettano a sconfessarli. Guignebert respinge ciò che gli tende Goguel, ma esige ciò che gli rifiuta Alfaric. E ciascuno, va detto, ha l'arbitrarietà piuttosto dogmatica e il capriccio scontroso». [56]

Siccome non si può distinguere il vero dal falso, pare logico respingere o prendere tutto. Riflession fatta, prenderò il tutto.

Teniamoci per comodità il patronimico di Paolo.

Ci sono ora quattordici epistole, ma l'autore degli Atti non ne cita nessuna, benché si dica discepolo di Paolo, e Marcione ne conosceva solo dieci nel 144.

Prima di Marcione, non c'è niente.

Constato quindi un intervallo di ottant'anni tra l'apparizione di queste epistole e la morte di Paolo, avvenuta, secondo la famiglia, intorno al 64.

Ci viene detto che Clemente di Roma, Ignazio e Policarpo, tre padri apostolici, hanno citato «implicitamente» le epistole. Ma se si trovano in loro idee «paoline», è perché hanno attinto dalla stessa fonte: la credenza comune spiega le espressioni simili.

Inoltre, i testi attribuiti a Clemente, Policarpo e all'altro sono molto dibattuti e certi eruditi li portano molto avanti nel secondo secolo. Ritroveremo questo augusto trio al momento dell'esame dei vangeli.

Nonostante il grande vuoto antecedente al 144, gli ortodossi intendono provare ad ogni costo le epistole con la loro antichità.

A credere a loro, tutto fu scritto prima del 70. Si sa che ebbero luogo, in quell'anno, la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio, accompagnate da massacri, carestia e diaspora.  Nessuna epistola parla di quella catastrofe, i cristiani ne concludono che quest'ultima sia posteriore.

Nel loro slancio, le spingono più lontano nel passato. Questa epistola ignora la persecuzione del 64, quell'altra la venuta di Pietro a Roma nel 61: sono state quindi scritte prima di questi eventi.

L'argomentazione è povera: dimentica che un falsario può ragionare in quel modo; se io dato al 1930 una pagina scritta oggi, non andrò a parlare della seconda guerra mondiale.

Altri, annusando la parola e la sintassi, credono di individuare nelle epistole la lingua greca degli anni 60. L'ironia tempera la mia ammirazione. Ricordiamoci che Dom Pitra, futuro cardinale, attribuì a Raban Maur nel IX° secolo una Vita di Santa Margherita dove riconosce, lisciandosi i baffi: «il timbro dell'epoca e il carattere particolare e distintivo degli scritti dell'illustre arcivescovo di Magonza». [57]

Ora la detta Vita è del XII° secolo, come ha mostrato Paul Meyer. 

Notiamo anche che certi scrittori coltivano volentieri l'arcaismo, come Rabelais, il cui linguaggio è indietro di un secolo rispetto al suo tempo.

La tesi sempliciotta dei cristiani riscontrò sempre resistenza. Così la scuola olandese fa svolazzare le epistole attraverso il secondo secolo. Turmel data le più antiche dal 140 e le depaolinizza per marcionalizzarle.

Da buon sacerdote, Loisy ha iniziato a datarle dal 50 al 64, poi si è unito a Turmel, per la grande disperazione di padre Lagrange.

In assenza di ogni riferimento al primo secolo, si ha il campo libero. Lo studio comparato dei testi mostra chiaramente che, checché se ne dica, i frammenti che mancavano non sono stati rimossi da Marcione da una collezione più antica, ma sono stati aggiunti successivamente dalla Chiesa. [58]

Ora, è in questi frammenti aggiuntivi che si presentano gli indizi più netti di cui ci si serve per provare, sulla base di Paolo, che Gesù è realmente esistito.

Vi si vede che il Cristo è «nato da donna, nato sotto la legge» (Galati 4:4), che egli è «del seme di Davide secondo la carne» (Romani 1:3), che egli «ha testimoniato davanti a Ponzio Pilato la buona confessione» (1 Timoteo 6:13), che suo «fratello» Giacomo fu incontrato da Paolo a Gerusalemme in compagnia di Cefa e di Giovanni (Galati 1:19).

Non si aveva nulla di simile nell'edizione utilizzata da Marcione. Queste osservazioni, scritte dopo l'anno 144, sono troppo tardive per avere un valore serio. Alfaric conclude: «Se ci atteniamo all'edizione antica, constatiamo che le informazioni su Gesù sono vaghissime». [59]

Cosa resta della testimonianza di Paolo?

Paolo non si interessa alla vita terrena del suo Cristo. È solo quattordici anni dopo l'inizio del suo ministero che si reca a Gerusalemme. Va a informarsi su Gesù ? Per nulla affatto; egli cerca soprattutto, con le sue predicazioni, di imporre le sue proprie concezioni del nuovo culto.

Se avesse avuto la minima convinzione della vita carnale del suo eroe, la sua prima preoccupazione non sarebbe stata di ritrovare testimoni del Cristo, di informarsi e di raccogliere le parole del Signore?

Quella mossa non gli interessa. Al contrario, lo si vede fondare comunità e predicarvi con verve, senza preoccuparsi di coloro che, per ipotesi, avrebbero ricevuto un insegnamento diretto dal Salvatore.

Se il Gesù dei vangeli è vissuto, il suo comportamento è inverosimile.

Alcuni hanno sostenuto che tutti i relativi passi delle Epistole Paoline che espongono il mistero del Cristo che soffre e muore per la salvezza dell'umanità sono apocrifi. Rappresenterebbero l'opera tardiva di uno gnostico posteriore a Paolo, che avrebbe recepito la dottrina dell'apostolo. Loisy, sempre riservata e opposto ai «miticisti», si è spontaneamente schierato con quella tesi. [60]

Paolo non ha quindi affatto incontrato l'uomo Gesù e noi respingiamo la sua testimonianza. Il Cristo che l'apostolo raffigura riveste un carattere puramente messianico; ci si lega a lui per la fede, per la grazia, per lo Spirito, per raggiungere le corti incantevoli del Regno di Dio.

La sua figura umana si fonde con quella del Cristo annunciata dai profeti. È tanto inafferrabile quanto quella del Figlio dell'uomo intravisto da Daniele nella nube.

Tale è il Paolo del Nuovo Testamento, strano ed enigmatico pezzo forte di una ipotetica scacchiera.

Come Maometto, egli ascende al terzo cielo (2 Corinzi 12:2) e ne riporta informazioni preziose che, a volte, devono rimanere segrete (2 Corinzi 12:4) e persino francamente inesatte: così annuncia più volte (1 Corinzi 15:52) l'imminente fine dei tempi, credendo di essere ancora in vita quando Gesù ridiscenderà dal cielo (1 Tessalonicesi 4:15). «Passa», dice, «la figura di questo mondo» (1 Corinzi 7:31).

Ma la sua è passata più velocemente. L'ironia è che egli attribuisce al Signore stesso quella asserzione errata.

I dodici hanno visto il Cristo?

Non lo hanno scorto, neppure da lontano, a giudicare dal modo in cui Paolo li sistema: «Da parte dunque delle persone più ragguardevoli — quali fossero allora non m'interessa, perché Dio non bada a persona alcuna — a me, da quelle persone ragguardevoli, non fu imposto nulla di più» (Galati 2:6) Dice in un'altra occasione: «non sono per nulla inferiore a quei superapostoli, anche se sono un nulla» (2 Corinzi 12:11).

Questo non è Gentile.

Ma ecco ancora più strano: «Non sono apostolo? Non ho visto Gesù, il nostro Signore?» (1 Corinzi 9:1). Se i Dodici lo hanno visto egualmente, quella dichiarazione è piuttosto singolare.

Paolo scrive ancora: «Il Cristo apparve a Cefa, poi ai Dodici. Poi apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita e alcuni sono morti. In seguito, apparve anche a me» (1 Corinzi 15:5 ss).

Siamo qui in piena mitologia. Tutte queste apparizioni sono della stessa natura se si dà alle parole il loro senso ovvio. Per sostenere che i Dodici hanno visto il Cristo storico, si devono commentare le epistole per mezzo dei vangeli redatti più tardi. Nulla qui lo lascia intendere; ben al contrario, l'apparizione è una visione breve, sembra escludere l'idea stessa di un Cristo carnale.

L'esegeta esclamerà che questo testo si riferisce solo alle apparizioni postume di Gesù.

Andiamo, allora! Se Cristo passò quaranta giorni sulla terra dopo la tomba, egli ha rivisto e conosciuto i suoi discepoli. Perché Paolo non dice nulla di questo, quando si dà pena senza successo nel provare la resurrezione?

Se Pietro e gli altri avessero conosciuto un Messia in carne e ossa, è probabile che Paolo sarebbe stato meno arrogante. A sentirlo, il suo solo demerito rispetto ai Dodici è di aver percosso qualche cristiano: «Io non sono degno di essere chiamato apostolo... perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Corinzi 15:9).

Si può osservare che Paolo aveva dei nemici in gran numero e che la violenza delle sue reazioni prova quelle dei loro attacchi. Eppure nessuno gli rimproverò di dirsi apostolo senza aver visto il Cristo in carne e ossa. Eppure si doveva cominciare da là.

Concludo che erano tutti nella stessa situazione. 

Paolo non sa nulla dell'uomo Gesù.

L'apostolo pretende di saperne quanto chiunque altro: «Anche se sono rozzo nel parlare, non lo sono però nella conoscenza» (2 Corinzi 11:6).

Egli non ne sa nulla, e gli altri non ne sanno più di lui.

La sua ignoranza su Gesù è sconcertante. Cercate invano nelle sue epistole nomi così essenziali come Betlemme, Nazaret o Golgota.

Nessun miracolo vi è mentionato, nemmeno la resurrezione di Lazzaro, che avrebbe particolarmente servito la sua dialettica indigente (1 Corinzi 15:12ss.).

Ignora la terminologia evangelica che semplificherebbe le sue perorazioni ampollose sulla fede. Accade persino che Paolo e Gesù si oppongono frontalmente: «Forse che Dio si dà pensiero dei buoi?» domanda l'apostolo, ribelle (1 Corinzi 9:9). Più tardi, il Cristo evangelico dirà: «Eppure non un passero è dimenticato davanti a Dio» (Luca 13:6).

Il suo Messia è di una timida discrezione, senza biografia né dottrina. È meno umano che antropomorfo e sembra vagare su una nebulosa, tra cielo e terra. Muore e risorge: è tutto ciò che si sa.

Ciò sembra convenire ai cristiani per giustificare un Dio di salvezza, e sufficiente per legittimare il battesimo e l'eucarestia.

È stato crocifisso dagli «arconti» che non lo avevano riconosciuto (1 Corinzi 2:8, testo greco). E gli arconti sono i principi del Male: i demoni. La stessa esegesi cattolica lo riconosce.

Las Vergnas esclama: «Non concludo, come Couchoud, che se gli arconti sono mitici, la crocifissione lo è altrettanto, perché si può dare una causa immaginaria ad un fatto reale. Si può anche ammettere, a rigore, che gli arconti si sono serviti degli uomini per fare il loro colpo. Ma che idea accusare gli arconti piuttosto che Caifa o Ponzio Pilato, il quale finirà d'altronde per apparire nella tarda Epistola a Timoteo. Perché toglierli alla mitologia di Mitra, dove muovevano le sfere celesti? (San Tommaso incaricherà gli angeli di questa funzione)». [61]

Il poco che Paolo sa di Gesù, l'ha ricavato dai profeti. Renan ha ragione a scrivere: «Per Paolo, Gesù non è un uomo che ha vissuto e insegnato (...) È un essere del tutto divino. (...) Se solo quella scuola ci avesse trasmesso degli scritti, non avremmo toccato la persona di Gesù e avremmo potuto dubitare della sua esistenza». [62]

Loisy pensava la stessa cosa: «Nessuno sospetterebbe che Paolo, convertendosi, aderisse ad un vangelo che era predicato prima di lui». [63] Dice altrove: «Paolo sembra sapere di gran lunga di più sulle azioni del Cristo in cielo prima e dopo la sua epifania che sulla vita di Gesù». [64]

Guignebert ragiona stranamente: «In tutta evidenza, se Paolo ha proprio vissuto dove e quando c'è motivo di credere che sia effettivamente vissuto, ha saputo come Gesù era morto». [65]  

Niente è meno sicuro.

 Vedo già l'obiezione dei cristiani: «Paolo non aveva bisogno di dire quello che tutti sapevano».

È proprio questo il problema. Eppure non è facile raccontare la storia della vita del Cristo, della sua passione e della sua resurrezione, senza riferimenti alla storia e alla geografia. Privato dei suoi punti di riferimento elementari, l'esercizio diventa arte filosofica.

In questo esercizio di alta acrobazia intellettuale, dei tizi senza gambe sono diventati trapezisti!

«Penso più logicamente», ritiene Las Vergnas, «che Paolo abbia abbia ucciso ciò che non sapeva». [66]

 Più tardi, la Chiesa velò le sue mancanze facendogli dire: «Noi non conosciamo più il Cristo secondo la carne» (2 Corinzi 5:16).

Paolo non l'aveva mai conosciuto.

Dove sono allora i testimoni di Gesù?

Si potrebbe pensare che l'apostolo sia male informato, ma che i Dodici fossero a miglior scuola: Paolo stesso ci prova il contrario.

Ancora piegato dalla caduta, si mette da subito a predicare: «Io non salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me, ma me ne andai subito in Arabia; quindi ritornai a Damasco» (Galati 1:17). 

Se finì per esporre loro la sua dottrina, molti anni più tardi, fu per «il timore di correre invano» (Galati 2:2). Più vecchi di lui nella carriera, avrebbero potuto metterlo all'indice; Paolo riconosce prudentemente la loro situazione acquisita, non le loro competenze.

Il suo disprezzo per Pietro è maturo. Passa almeno tre anni prima di raggiungerlo o, come dice freddamente, per «fare la sua conoscenza» (Galati 1:18) Eppure ci è voluta una «apparizione» divina per rimetterlo in strada. 

Occasionalmente, gli tiene testa e si vanta (Galati 2:11). 

Si vorrebbe che Pietro, per chiudere il dibattito, si appelli al Cristo che si dice abbia visto e toccato. Ahimè, anche lui si esprime in estasi: è per una visione che ha potuto frequentare gli incirconcisi (Atti 11). Un Cristo autentico non avrebbe trascurato una questione di quella importanza.

Si cercano testimoni e ci si imbatte in visionari. 

«Dio ha rivelato suo Figlio in me», continua Paolo (Galati 1:16). Molti pensavano lo stesso, prendendo i loro sogni per rivelazione. Ognuno aveva la sua teologia o, come dice Paolo, il suo vangelo: «Secondo il vangelo che io predico, Gesù Cristo è risorto dai morti» (2 Timoteo 2:8). 

Altri negavano quindi la resurrezione, il che permette di pensare che non era storicamente provata. 

Se si crede alle epistole stesse, che strano mondo quello là! Ricolmi fino all'orlo dello Spirito Santo, i nostri visionari ne riversavano in innumerevoli prediche, in gesta e in grida. 

«Non preoccupatevi in anticipo di ciò che direte» consiglierà più tardi il vangelo, «lo Spirito Santo parlerà in voi» (Marco 13:11). 

La ricetta sarebbe stata seguita alla lettera da schiere di predicatori ignoranti e folli; nella mia giovinezza, questi ultimi animavano le mie domeniche con il loro umorismo involontario. [67]

Ai tempi di Paolo, i fratelli si abbandonavano volentieri alla cacofonia, parlando tutti nello stesso momento, contraddicendosi a chi grida di più. Da qui i clan che già dividevano la comunità: «Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, e io di Cefa...».

Si immagini il disordine e le tensioni; Paolo temeva che un infedele li prendesse per pazzi (1 Corinzi 14:23).

A volte l'estasi diveniva collettiva; è allora che il Signore passava: «Egli apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta...» (1 Corinzi 15:6). Più tardi, si prenderanno quelle parole alla lettera, collocandole fuori dal contesto originale.

Il Cristo si distaccherà dalla comunità: spogliato della sua natura spirituale, diventerà personaggio storico e vivrà da sé. 

I mistici saranno legioni per farcelo capire. 

Il 7 settembre 1909, sulla collina di Montmartre a Parigi, Max Jacob vide il Signore «in veste gialla a paramenti blu». E Mauriac, che sembra averli conosciuti entrambi, grida trasportato: «Il Signore è apparso a Max Jacob». [68]

Gli Undici avevano già detto in una sola voce: «Il Signore è apparso a Simone» (Luca 24:34).

Un altro mistico, Barbet, chirurgo all'ospedale di San Giuseppe a Parigi, dipinse Gesù sulla croce con una minuzia che Sade avrebbe invidiato. Poi il buon dottore salmodia, il cuore in gola: «Giovanni lo ha proprio visto e anch'io e noi non possiamo mentire», [69] senza dubbio in riferimento a Giovanni 19:35: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera».

Trasportate queste «testimonianze» negli anni 130 circa e avrete i Vangeli secondo i santi Barbet e Mauriac.

Il seguito andrebbe da sé. Vedete nelle chiese questo Sacro Cuore policromo e i bei ragazzi; ammirate quella vergine tutta vestita di bianco e cinta di blu, che si proclama «Immacolata Concezione» (si parla un ben curioso linguaggio nell'universo celeste!): cerco invano i riferimenti nel Nuovo Testamento.

E per una buona ragione. Infatti, il Sacro Cuore non emerge affatto sotto Tiberio in Palestina, ma in Francia sotto Luigi XIV: il Re Sole corteggiava allora suor Alacoque. 

Quanto alla Signora in bianco, familiare apparizione, si è rivelata sotto Napoleone III in un pio e oscuro villaggio pirenaico. 

Sono solo estasi e visioni, eppure la Chiesa le accredita senza batter ciglio, ingaggiando perfino l'infallibilità nella Messa delle Apparizioni, preghiera ufficiale e pubblica (Lex orandi lex credendi).

Sono venute troppo tardi per andare a ingrossare il Nuovo Testamento, ma state certi, situate in Palestina duemila anni prima, ora sarebbero passate per storiche. Si leggerebbe: «In quel tempo Gesù disse a una donna di Betania: ecco questo cuore che ha tanto amato gli uomini...»  e li lasciò.

E tutto avrebbe dato quella impressione di realtà così sorprendente che affiora dai vangeli. 

L'estatico vede, infatti, con una precisione acuta: Santa Teresa non si è forse accorta con una perspicacia sorprendente che Gesù era vestito, per compiacerla, di un abito «di finissimo lino d'Olanda». [69

Non ha precisato se la tunica fosse cucita con filo bianco.

Ma la passione esaspera le passioni più morbose. Catherine Emmerich osserva che i chiodi spuntano da dietro la croce e santa Brigida che il ventre del Cristo si attacca alla schiena come se non avesse viscere. 

Oltrepassando Omero, sant'Angela di Foligno ha notato «il brandello di carne che gli orribili chiodi avevano conficcato nel legno». 

Quelli che coltivano la virgola e prendono l'inezia per una prova saranno convinti: questi dettagli, signore, questi non si possono inventare! 

Per venti secoli, i visionari del Cristo si sono offerti a tutti i martiri per attestare la loro ossessione. Girando in un circolo vizioso come  scoiattoli nella loro ruota, credono perché vedono e vedono perché credono. È la congestione del vuoto. 

A Jean Beaupère, che le domanda: «Avete visto San Michele e i suoi angeli, fisicamente e realmente?» Giovanna d'Arco risponde: «Li ho visti con gli occhi del mio corpo e altrettanto bene come io vedo voi». [70

In quei tempi in cui la visione aveva valore oggettivo, l'effetto era assicurato. Anche il sogno, come proclama Giobbe (33:15). 

È anche un sogno che rassicura Giuseppe sulla virtù di Maria, li spinge entrambi in Egitto e li riporta indietro.

E come se non bastasse, i Magi saranno anche loro istruiti sulla nascita del bambino divino da un sogno.

Così abbiamo quattro sogni nei primi due capitoli del vangelo secondo San Matteo.

In molti ambienti cristiani si parla ancora ai nostri giorni dell'«esperienza» mistica, chiamata «conversione» o «nuova nascita», dando alla parola «esperienza» un significato abusivo.

Così un uomo di nome Carpentier propose di chiarire alcuni misteri evangelici per mezzo delle visioni di Catherine Emmerich. [71]

Teresa Neumann, celebre estatica bavarese, rivive nella sua carne la passione del Cristo, sofferenze e stimmate comprese: per molti credenti, la sua sanguinosa dimostrazione prova il calvario di Gesù.

 Un certo Tiberghien è tra questi: «Cristo è esistito? Questione senza alcun significato che il caso di Teresa Neumann è sufficiente a risolvere». [72

Paolo ragionava alla stessa maniera (Colossesi 1:24). Eppure, in quel tempo di cristianesimo nascente, certi dubitavano già e «facevano naufragio nella fede», come Demas, il più vicino collega di Paolo che, un bel giorno, si eclissò rapidamente (2 Timoteo 4:9). Aveva capito. 

Si è visto quanto fosse oscuro e sfuggente il Cristo di Paolo. Constatiamo qui una generalità: grazie ai loro contemporanei, i personaggi storici hanno, fin dall'inizio, una biografia completa e ricca di dettagli. In seguito, non si farà che ripetere ciò che tutti conoscono, ma rare sono le scoperte importanti.

Come diceva scherzosamente Alphonse Alais: «Non importa quanto diciamo o facciamo, troveremo sempre meno gente che ha conosciuto Napoleone». È indiscutibile.

Non è la stessa cosa per gli eroi della leggenda: al contrario, i documenti primitivi sono dapprima poveri e avari di dettagli; poi la favola si arricchisce cammin facendo: crescit eundo. 

Questo è il caso di Gesù: ci si istruisce progressivamente e di meglio in meglio passando da Paolo a Marco o Matteo. 


L'epistola agli Ebrei

Attribuita falsamente all'apostolo Paolo, l'arcaica epistola agli Ebrei presenta un Gesù senza padre né madre che perisce in modo liturgico, fuori dalla città e dal tempo.  È spettrale. 

Guignebert ammette «che i miticisti potrebbero senza molta pena tirare quella epistola a loro vantaggio». 

Non mancheremo di farlo. 

L'interesse risiede nelle allusioni alle cerimonie ebraiche celebrate nel tempio di Gerusalemme, cosa che permette di concludere che il testo è antecedente alla distruzione di questo edificio nell'anno 70.

Alfaric e Loisy propendono per un'opera alessandrina e la attribuiscono con una certa probabilità ad Apollo, concorrente di Paolo.

Tertulliano pensava che Barnaba ne fosse l'autore, e Renan condivide questa opinione. [73]

Sia come sia, si tratta di uno scritto del I° secolo.

Il Cristo è paragonato a Melchisedec, antico personaggio della Genesi, la cui epistola ci ricorda che egli è «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza inizio di giorni né fin di vita» (Ebrei 7:3).

La formula sembra essere ispirata al Salmo 110.

Gesù occupa il centro della scena, benché non vi sia menzionata alcuna allusione alla sua vita terrena. L'autore ignora persino la crocifissione.

Cristo è presentato come il Figlio di Dio che «essendo lo splendore della sua gloria e l'impronta della sua essenza e sostenendo tutte le cose con la parola della sua potenza... si è assiso alla destra della maestà» e si trova «di tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha ereditato è più eccellente del loro» (1:3-4).

Alcune vaghe allusioni sono fatte ad una manifestazione terrena che ha avuto luogo «in quella fine dei tempi» (1:2) e nel corso della quale ha sofferto per la salvezza degli uomini.

Una sola precisazione ci viene fornita: «Nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte ed è stato esaudito per la sua pietà» (5:7).

Non ci illudiamo: ciò non vale per la crocifissione. Si tratta di una semplice trasposizione del Salmo 22 dove si parla di un «giusto» ideale che ha invocato Jahvé nella sua angoscia ed è stato ascoltato.

Del resto è principalmente dal Libro dei Salmi che l'autore attinge i suoi riferimenti per decorare il Cristo.

Notiamo ancora una interpolazione ulteriore inutile (Ebrei 7:14) che indica che «il Signore si è levato da Giuda», ciò che ogni buon ebreo era ritenuto sapere.

Quella aggiunta tardiva non riesce però a cancellare l'impressione che l'autore non sappia nulla della vita di Gesù.

Il suo Cristo resta un mito celeste.


L'epistola di Giuda

Non si sa nulla dell'autore di quella epistola, che si proclama fratello di Giacomo.

La data dello scritto non è conosciuta e non ci informa granché. Vi si scopre, nondimeno, non senza sorpresa, che è Gesù che, sotto i tratti di Mosè, avrebbe salvato il popolo ebraico dall'Egitto (Giuda 5).

Ecco un'incarnazione piuttosto inaspettata, ma che tace la più recente.


Lo pseudo-Ignazio

A parte le epistole di Paolo, la mancanza di fonti cristiane del I° secolo sulla vita di Gesù e sulla crocifissione non ha mancato di preoccupare la Chiesa.

Ansiosa di rafforzare le sue radici, quest'ultima cercherà si sforzerà di colmare le lacune. Essa invoca, per esempio, le epistole di Ignazio, che sarebbe stato vescovo di Antiochia intorno al 107... se si crede a Eusebio.

Ma Turmel ha dimostrato che gli scritti dello pseudo-Ignazio sono posteriori al 160, così come la lettera di Policarpo che li menziona. [74]

Il loro testo è stato peraltro rielaborato, il che toglie loro ogni significato quanto ai loro riferimenti ai vangeli.


L'inchiesta di Domiziano

Se si crede ancora a Eusebio «il falsario», [75] l'imperatore Domiziano, avendo sentito parlare dei cristiani, avrebbe fatto comparire i parenti del Signore della stirpe di Davide e li avrebbe interrogati sul Cristo e il suo regno.

Quest'ultimi non menzionarono i vangeli che non erano ancora stati scritti. Risposero che «il regno di Dio non è né di questo mondo né sulla terra, ma celeste e angelico, e si realizzerà alla fine dei tempi».

Rassicurato, Domiziano avrebbe rimandato in Giudea quella brava gente che non sapeva che il Cristo era già venuto sulla terra e che era stato crocifisso da un procuratore romano.

Questo racconto è con tutta evidenza fantasioso: l'imperatore avrebbe fatto ricorso ad altri mezzi per indagare sui cristiani; bastava chiedere per ciò un rapporto al suo legato di Palestina o di Siria.

Si tratterrà in compenso la confessione implicita di Eusebio: Domiziano non poteva riferirsi ad alcuno scritto per la semplice ragione che non esisteva.


L'Apocalisse

Posto in coda alla confezione del Nuovo Testamento, l'Apocalisse, con un volo audace, ci conduce in cielo. Sentiamo soprattutto trombe, vi si vedono calici e candelieri e anche un agnello che sembra «come immolato prima della fondazione del mondo» (13:8).

P. Alfaric, G. Fau e molti altri le hanno dedicato commentari penetranti.

Come si deve, l'Apocalisse accende anche il lirismo di Pascal (Pensieri 685).

Essi hanno contro di loro Apocalisse 17:8 e per loro la 1° Epistola di Pietro (1:20). 

Costoro pensano al culto di Mitra, un toro sacrificato in cielo dall'origine del mondo. Vi si può vedere soprattutto l'ariete di Attis.

Sfortunatamente il testo è oscuro, in particolare per difetto di punteggiatura. Una virgola fuori luogo può obbligare un matrimonio (si veda Le nozze di Figaro, Atto III, scena 15), o giudaizzare Aristotele.

Sia come sia, non cercate nell'Apocalisse informazioni su Gesù: dice soltanto che fu sacrificato a Sodoma (11:8), che si deve tradurre, si dice, con Gerusalemme.

Allo stesso modo, si dovrebbe vedere Roma in Babilonia nella 1° Epistola di Pietro (5:13); decisamente la geografia sacra non è facile.

Anche queste parole sono incerte. Las Vergnas ritiene l'Apocalisse un libro ebraico ritoccato da una mano cristiana e contesta la sua attribuzione all'apostolo Giovanni. [76]

Il signor Couchoud ha dimostrato che, ad eccezione di alcuni passi apocrifi che evocano la crocifissione (11:8), non si trova un solo indizio concernente il suo passato umano.

L'opera contiene due elementi sovrapposti: i primi tre capitoli e la conclusione sono di un autore cristiano. Secondo Eusebio, citando Ireneo, sarebbe stato scritto intorno al 95, alla fine del regno di Domiziano.

A parte Turmel, tutti accettano quella data, constatando l'antichità del contenuto.

L'autore conosce, infatti, solo sette comunità cristiane in Asia Minore. Rivolge loro dei rimproveri per questioni di poco conto. Ma ignora Paolo e le sue epistole, che pure ha predicato a Efeso trent'anni prima. Non fa alcuna allusione al Cristo paolino e conosce solo il Messia o Figlio dell'Uomo di Daniele.

A partire dal capitolo 4, l'opera è interamente ebraica, scritta nel corso della guerra contro i Romani. [77] La speranza della vittoria lo testimonia. Il Tempio, distrutto nel 70, è ancora in piedi. E. Renan e G. Fau collocano la sua stesura nel 69, confortati dalla chiarissima allusione alla morte di Nerone (17:10).

L'opera è intrisa di un odio feroce contro l'occupante romano. Fau vi vede un'ispirazione chiaramente zelante e forse essena. [78] Il tono è feroce nei suoi richiami al massacro e nella predizione di un sanguinoso sterminio.

È che si tratta di vendicare i martiri della resistenza ebraica che essi stessi invocano in cielo (6:10).


Il Cristo dell'Apocalisse

È in primo piano. È lui che parla al profeta per il tramite di un Angelo. Ma è in cielo che risiede, presso Dio, al centro del suo trono.

A un certo punto cambia aspetto, nasce da una donna e riveste un'apparenza umana. Si vedrà apparire Maria? Non avete capito. Sua madre è la Vergine celeste, che ha il sole come veste, la luna per sgabello e una corona di dodici stelle sul suo capo (12:1).

Immaginoso alla perfezione, l'insieme non manca di lirismo: il Figlio dell'Uomo discende dal cielo su una nube, passa in Palestina come il mietitore e il vendemmiatore annunciato da Gioele. Avvolto in un mantello porpora, percorre il mondo su un cavallo bianco, insegue la Bestia, creatura servile del Grande Dragone, per gettarla nello Stagno di fuoco.

Terminata la sua crociata, riprende umilmente la sua forma originale di agnello divino.

L'epilogo è degno delle grandi finali liriche: celebra le sue nozze mistiche con la Donna celeste, che diventa allo stesso tempo sua Madre, sua Sposa, come Cibele lo è per Attis.


Miti e simboli dell'Apocalisse

Da quella mitologia sfrenata, si cerca invano il filo della storia. Impantanato nella sua finzione, il veggente di Patmos si si invola al firmamento dei suoi sogni.

Il suo racconto si nutre di miti e simboli del suo tempo che la costellazione del cielo gli fornisce generosamente. Così la Vergine e il Dragone sono copiosamente onorati.

Primo segno dello zodiaco, l'Agnello (o Ariete) comanda i destini del mondo.

È anche l'agnello pasquale dell'Esodo che è sgozzato. [79] Couchoud se ne è accorto: «Una liturgia pasquale è soggiacente a tutta l'Apocalisse», [80] ma è una liturgia puramente ebraica.

Intriso di profezie, l'autore parla per immagini: Roma, ultima incarnazione del Dragone, ha qui l'aspetto di una Bestia sorta dal mare. Ha sette teste (i sette colli) e dieci corna che sono dieci re sottomessi da Roma e che devono rivoltarsi contro di lei.

Il Dragone ha dato alla capitale dell'impero «la sua forza, il suo trono e la sua grande potenza». I popoli gli devono appartenenza perché «chi può combatterla?»

La dominazione romana durerà solo quarantadue anni (cifra simbolica), in seguito il Vittorioso sul cavallo bianco discenderà dal cielo al suono delle trombe. 

Allora l'ira di Dio si scatenerà e la grande Babilonia (Roma), «la grande prostituta che siede su molte acque, con la quale i re della terra hanno fornicato» (17:1-2) sarà distrutta e consumata dal fuoco.

In cielo, si canterà tutti in coro Alleluia (19:1-3).

Poi comincerà la grande carneficina del Vittorioso cavallo bianco. Nulla eguaglia la ferocia di quella visione. Un angelo chiama al «grande banchetto di Dio» e i rapaci sono invitati a condividere il festino antropofago: «Mangiate le carni dei re, le carni dei tribuni... le carni di tutti gli uomini, liberi e schiavi».

La furia del Messia si scatena: egli massacra tutti con la spada e gli uccelli del cielo si saziano di carogne (19:17-21).

Tale è l'opera di guerra totale e di ardente appello allo sterminio, giustamente chiamata Apocalisse.

Gesù è assente dall'Apocalisse.

La crocifissione è sconosciuta in tutta l'opera. Lungi dal morire su una croce, il Cristo dell'Apocalisse è destinato a stabilire l'impero ebraico sulle rovine di Roma. E l'autore cristiano che ha ripreso al volo questo passo, intorno al 95, non si sbaglia: dopo il grande massacro viene la promessa: «Sì, io vengo presto» a cui lo scrittore risponde: «Vieni, Signore, vieni!».

Non sa che costui è già venuto sotto un'altra forma. 

La nascita verginale del Salvatore verrà dal racconto della sua nascita astrale, simbolo astrologico nel quale la Vergine genera il mondo.

Il tema dell'agnello sgozzato sarà ripreso dai cristiani e trasportato a Gerusalemme sotto Ponzio Pilato: ancora una volta, il mito avrà raggiunto la storia.

Quando si tratta di marcare gli ebrei con un segno per preservarli dallo sterminio (7:4), l'autore attinge da Ezechiele (9:4) l'idea di un segno sulla fronte, ma dimentica di indicare che quel segno è una croce.

Ignora ancora la crocifissione e il simbolismo del «legno maledetto».

Così lo pseudo-Giovanni porta nell'Apocalisse la prova che, intorno al 95, il suo Cristo non era dotato di vita terrena.

La sua leggenda non è ancora umanizzata, è ancora solo un mito. 

NOTE

[48] Girolamo, Commentario in Filemone 23; De viris 5.

[49] Atti, capitolo 9, 22 e 26.

[50] Padre Renié, Manuel d'Ecriture Sainte, volume IV, pag. 17 (Vitte, Lyon, 1938).

[51] Giustino, Apologia 1:39, 45. Dialogo con Trifone, 42,53.

[52] Goguel, Introduction au Nouveau Testament, 4:1.

[53] Renan, Saint Paul, Introduzione.

[54] Ad. Harnack, Marcion, Beilage III, Das Apostolikon Marcions, pag. 37-156.

[55] Alfaric, A l'école de la raison, pag. 112.

[56] Las Vergnas, Jésus-Christ a-t-il existé?, pag. 20.

[57] Correspondant del 10/10/1849.

[58] P. L. Couchoud, La première édition de St Paul, Rev. d'hist. des rel., 1926, volume XCIII, pag. 242-263; e Premiers écrits du christianisme, Parigi, Rieder, 1930, pag. 7-31.

[59] P. Alfaric, A l'école de la raison, pag. 112.

[60] M. Loisy, Revue critique, 1926, pag. 243 ss. (Resoconto del libro di Delafosse).

[61] Las Vergnas, Jésus-Christ a-t-il existé?, pag. 26.

[62] Renan, St Paul, capitolo 10.

[63] Loisy, La naissance du christianisme, pag. 24.

[64] Loisy, Les livres du Nouveau Testament.

[65] Guignebert, Jésus, pag. 585 (Albin Michel).

[66] Las Vergnas, Jésus-Christ a-t-il existé?, pag. 27.

[67] I Darbisti praticano come dogma l'assistenza dello Spirito Santo.

[68] Le Figaro Littéraire, 25/09/1956.

[69] Revue Ecclesia, 04/1949.

[70] Teresa d'Avila, Château de l'âme, VI, cap. 9.

[71] Processo di Giovanna d'Arco, quarta udienza.

[72] France Catholique, 05.158; Quel jour a eu lieu la scène?

[73] Tiberghien, La question de Jésus, pag. 18 (Omnium littéraire, 1951).

[74] Renan, L'Antéchrist, pag. 17.

[75] H. Delafosse, Lettres d'Ignaces d'Antioche (Rieder).

[76] Hist. eccl. 3:19-20.

[77] Las Vergnas, Jésus-Christ a-t-il existé? pag. 31.

[78] G. Fau, La fable de Jésus-Christ, pag. 76.

[79] Il termine «immolato» è una inesattezza senza dubbio volontaria. 

[80] Couchoud, l'Apocalypse, pag. 74.

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