venerdì 17 luglio 2020

Polemiche



POLEMICHE

In queste condizioni, non è sorprendente che i nostri vangeli siano stati smentiti e criticati fin dalla loro apparizione e molto tempo dopo, sia quanto al contenuto, sia quanto alla forma.

Paolo è il primo contestatore; egli non conosceva che un vangelo, quello che lui predicava, e insorgeva nella sua Lettera ai Galati (1:6-9) contro il falso vangelo che si opponeva al suo: «Vi sono alcuni che vogliono sovvertire il vangelo del Cristo... Se un angelo venuto dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema!». Ciò non impedì alla Chiesa di confezionare altri quattro vangeli. Questi vangeli riconoscevano d'altronde che una parte della gente e dei Cristiani, perfino gli apostoli o i discepoli, non credevano alle nuove parole prestate a Gesù e che alcuni lo abbandonavano.

Verso il 400, san Girolamo segnala che esistono tante versioni dei vangeli quante di copie, ciascuna che aveva aggiunto o sottratto ciò che le sembrava buono. E ci racconta (Adv. Lucif. 23) una notizia che lo indignava, ma che non ci sorprende: «Quando gli apostoli erano ancora vivi e il sangue del Cristo era ancora fresco in Giudea, si affermava che il corpo del Signore fosse solo un fantasma». [132]

Trifone, nel suo Dialogo, replica a Giustino: «Il Cristo, supponendo che sia nato e che esista da qualche parte, è sconosciuto; non sa di esserlo... È un vano sentito dire che voi avete accettato. Voi vi siete voi stessi fabbricato un Cristo ed è per lui che voi vi perdete ora ciecamente».

Dionigi di Corinto, rendendosi conto che le sue lettere circolavano sotto una forma falsificata, si consolava dicendo che esse non erano più contraffatte delle Scritture (Eusebio S.E. 4:23).

Ireneo ammoniva i copisti «nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo di fare attenzione al testo» e si lamentava di cuore che si credessero più abili degli apostoli (Eusebio S.E. 5:20:2 e Ad. om. Haer. 4:11:1).

Eusebio definiva le «Memorabilia degli Apostoli» delle «sfacciate menzogne fabbricate dai falsari» e, leggendo Papia, riteneva che costui aggiungesse alle parabole del Salvatore «vari racconti interamente favolosi». [133]

Celso, verso il 180, esclama nel suo Discorso vero: «La verità è che tutti questi presunti fatti non sono che dei miti che voi stessi avete fabbricato senza neppure riuscire a calare un velo di plausibilità sulle vostre menzogne, benché sia di tutta notorietà che parecchi tra voi, come se in seguito all'ubriachezza arrivassero ad azzuffarsi fra loro, riscrivono tre, quattro, tante volte il testo primitivo del vangelo e lo rimaneggiano al fine di poterlo rinnegare di fronte alle confutazioni».

Si trova conferma di questo giudizio di un pagano negli Atti degli Apostoli; quest'opera ci racconta che un giorno di Pentecoste degli anni 30, delle lingue di fuoco caddero sui dodici apostoli e li fecero pronunciare suoni inarticolati che si presero per dei messaggi in lingua straniera; al momento gli spettatori non capirono nulla e si burlarono dei discepoli, dicendo che erano ubriachi. Se il Nuovo Testamento contiene molti di questi messaggi, nessuno può esserne contento, ma il lettore più esigente dovrebbe stare in guardia.

Intorno al 27, Porfirio scriveva: «Gli evangelisti sono gli inventori, non gli storici, delle cose che raccontano su Gesù» (frammento 15); «il vangelo è una teatralità scaltramente escogitata» (frammenti 27 e 55). Mostrando in seguito le contraddizioni dei racconti della Passione, egli concludeva: «È chiaro che la stessa invenzione è discordante; oppure che si riferisce a molti crocifissi, oppure che si riferisce ad un'unica persona morta tra gli spasimi ma che non ha mostrato in modo chiaro ai presenti la sua passione. Se quindi non hanno potuto indicare in modo veritiero il modo della morte di Gesù, essi hanno fatto soltanto una vana cantilena, e non sono stati chiari nemmeno sul resto». Agli occhi del filosofo pagano, il vangelo era una farsa da teatro, un pezzo infelice destinato agli scherni e ai fischi.

Per l'imperatore Giuliano (363), il cristianesimo, «macchinazione dei Galilei», era un'invenzione combinata dalla malvagità degli uomini. Giuliano si prese la briga di scrivere all'eresiarca Fotino, vescovo di Sirmio, per complimentarsi con lui «di restare prossimo alla salvezza, facendo bene a non introdurre affatto nel grembo di una madre quello che ha creduto un dio». A proposito di Gesù scriveva: «Non è da poco più di trecento anni che il suo nome è pronunciato... Se lui e il suo discepolo Paolo sono riusciti sotto i regni di Tiberio e di Claudio a convincere un solo personaggio illustre, dite pure che anche per il resto io sono un mentitore!» E l'imperatore osserva che l'evangelista Giovanni parla a volte di Dio e del Verbo, a volte di Gesù o del Cristo, e che Giovanni cerca di farci credere che l'uno si identifica con l'altro; ma, ci ricorda Giuliano: «ci sono alcuni tra gli empi che pensano che altro è Gesù Cristo ed altro il Verbo predicato da Giovanni».

Questo imperatore, che doveva essere in possesso degli archivi romani, non vi trova nulla su Gesù o sui primi Cristiani. Non invoca alcun documento; tutto ciò che sa, non lo ha appreso che dai Cristiani e dai loro libri; superstizioso come loro, egli non nega l'esistenza del Cristo ma si rifiuta di ammettere che un uomo possa essere un dio. Non conosceva alcun resoconto rivolto a Tiberio su Gesù nonostante Giustino e Tertulliano abbiano creduto all'esistenza di quel pezzo. Non conosceva nemmeno una testimonianza contemporanea degli apostoli.

NOTE

[132] Quel che confermano 1 Giovanni 4:2 e 2 Giovanni 7. Si veda anche Luca 24:39. 

[133] Dopo Ireneo, Clemente di Alessandria intorno al 200 (Stromata 4:6) e l'Ambrosiaster verso il 380 (Comment. in Gal. 2:1) ne dicevano altrettanto.

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