sabato 18 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «La rottura»

(segue da qui)

3°) LA ROTTURA

Le comunità ebraiche della dispersione si sono riempite così tanto di proseliti, alcuni che applicavano tutte le prescrizioni rituali ebraiche (circoncisione, prescrizioni alimentari); altri, i più numerosi, chiamati «proseliti della porta» o semplici «timorati di Dio», che accettavano del giudaismo solo l'aspetto spirituale, più attratti dalla moralità che dal culto. Malgrado le proteste dei vecchi tradizionalisti, questi convertiti dovettero essere ammessi; ma è abbastanza evidente che restavano molto lontani dallo spirito ebraico, portati a non vedere nel Messia che un Salvatore come gli altri, che si recavano alla sinagoga come a qualunque setta misterica. Finché gli eventi favorivano queste relazioni, finché si trovarono nelle comunità ebraiche dei luoghi di incontri spirituali protetti dalle autorità romane, la differenza di mentalità non sembrava essenziale.

Ma tutto cambiò quando gli ebrei furono perseguitati. Per delle ragioni complesse, un'ondata di antisemitismo si diffuse nell'impero romano del I° secolo. Perfino il conciliante Claudio prese delle misure contro gli ebrei a Roma, se si crede a Svetonio. Si massacrarono degli ebrei ad Alessandria, dapprima nel 39 (fatto che provocò la missione di Filone a Roma), ma ancor più nel 66: cinquantamila, secondo Giuseppe. La rivolta del 66 contro i Romani suscitò movimenti ostili nella Siria romanizzata: si fece sopportare alle comunità ebraiche della dispersione il peso dell'odio suscitato dagli insorti di Gerusalemme. Risale a questo periodo la leggenda del bambino greco rapito, immolato, mangiato dagli ebrei nei loro pasti rituali. Un autore di Alessandria, un certo Apione, scrisse un'opera completa contro gli ebrei. I Romani, esasperati dalla resistenza (a base religiosa) di questo piccolo popolo, non sono stati gli ultimi a diffondere le peggiori calunnie, e tutti coloro che volevano compiacere i padroni del tempo erano sicuri di ottenere un sorriso di complicità parlando male degli ebrei.

Quando Gerusalemme fu presa, e non si rischiarono più rappresaglie, ci fu lo scatenamento dell'odio: centomila prigionieri ebrei furono inutilmente massacrati, o costretti a essere massacrati negli anfiteatri della Siria. Ad Antiochia, delle petizioni supplicarono Tito  vincitore di liberare la città dagli ebrei che vi risiedevano ancora.

Da allora, non era più di moda partecipare alle riunioni della sinagoga: tutti i proseliti cercavano di giustificare il fatto di non essere ebrei, e molti dovevano allora congratularsi con sé stessi per aver rifiutato la circoncisione. I cristiani, nella misura in cui erano già esistiti come tali, seguirono la tendenza e mostrarono una ostilità prudente contro gli ebrei. Nulla è più contagioso di un tale sentimento, alimentato da una propaganda interessata: non si poteva nulla contro i Romani, ci si servì degli ebrei. E così che, a poco a poco si infiltravano nei testi cristiani molteplici segni di odio, le cui conseguenze dovevano essere tristemente durature: gli ebrei non avevano riconosciuto il loro stesso Messia, lo avevano rinnegato, presto lo avrebbero crocifisso (quando si attenuerà il ruolo dei Romani vincitori). Fu tanto più facile rovesciare la responsabilità sul Sinedrio, dal momento che questo non esisteva più.

Questa inversione di tendenza è evidente nella stesura dei vangeli, come diversi autori cattolici cominciano ad ammettere, e come Jules Isaac ha ragione di denunciare. [5]

Logicamente, in origine, la morte del Messia doveva essere imputata ai Romani, ovvero all'odiato occupante, ai distruttori di Gerusalemme. Ma, al momento in cui sono scritti i vangeli, la rottura con gli ebrei è consumata: quelli sono diventati gli avversari da combattere, mentre l'espansione del nuovo culto in ambiente pagano ha bisogno della benevolenza delle autorità romane.

È allora che si immagina di imputare agli ebrei la morte del Messia, ma questo capovolgimento dei ruoli non ha potuto farsi che al prezzo di improbabilità. Il vangelo di Giovanni, che contiene probabilmente il racconto più antico della morte di Gesù, ignora la comparsa davanti al Sinedrio; esso conserva la versione primitiva, che imputava la morte di Gesù al solo Pilato. Ma, intorno al 150, la tendenza opposta prevale: si tratta di ridurre il ruolo delle autorità romane che si vuole adulare, e di accusare gli ebrei, che si vuole combattere. I tre sinottici aggiungono quindi al racconto della passione una comparsa di Gesù davanti al Sinedrio: abbiamo detto quanto questo processo religioso sia inaccettabile alla vigilia della Pasqua, esso non ha potuto essere elaborato che in un ambiente dove le tradizioni ebraiche erano sconosciute. Non si sa nemmeno più quale fosse il sommo sacerdote, se fosse Anna o Caifa. Poco importa, l'importante è allora far pesare sugli ebrei una maledizione, che produrrà nella storia delle conseguenze fatali. La volontà di esonerare Roma e di accusare gli ebrei, contraria ad ogni probabilità, si spiega facilmente in una stesura dei vangeli posteriore al 150. Essa sarebbe inaccettabile, se i vangeli riportassero dei ricordi reali. Nel tentativo di conciliarsi le autorità romane, i cristiani hanno sposato l'ostilità coltivata dai Romani, hanno ripreso per proprio conto l'odio che aveva suscitato, in ambiente romano, la resistenza eroica e disperata del popolo ebraico. Questa inversione di tendenza fu colma di conseguenze per gli ebrei, senza essere così profittevole per i cristiani come loro avevano sperato. 

Ed è così che il Cristo, la cui leggenda si è formata con l'aiuto di citazioni dell'Antico Testamento, sarà invocato nel corso dei secoli per perseguitare i discendenti dei presunti «deicidi», l'antico popolo eletto, respinto dalla nuova alleanza.

Non è per nulla escluso che le comunità di Damasco e di Antiochia, già lontane dall'ebraismo, abbiano approfittato di questa tendenza aderendovi per interesse.

NOTE

[5] J. ISAAC: «L'enseignement du mépris».

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