venerdì 4 ottobre 2019

La Favola di Gesù Cristo — «Paolo e Gerusalemme»

(segue da qui)

Paolo e Gerusalemme

Quelli di Gerusalemme, racconta, non gli hanno «insegnato niente di nuovo» (Galati 2:6). Ma come! Nemmeno che essi avrebbero conosciuto Gesù nella carne, che avrebbero ascoltato le sue parole? Si dirà che è sottinteso: certamente no, proprio al contrario, Paolo sa molto di più di coloro di cui discute l'autorità. Secondo lui «nessuno può dire Gesù è Signore se non per lo Spirito Santo» (1 Corinzi 12:3), vale a dire per intima rivelazione. Così il fatto di aver conosciuto Gesù da vivo, di aver ricevuto il suo insegnamento, di averlo visto risorto dai morti, tutto ciò non contava?

La superiorità della sua rivelazione, Paolo ci tiene ad affermarla nei confronti di coloro che chiama, con disprezzo, le «colonne» della comunità di Gerusalemme, e soprattutto nei confronti di Giacomo e di Cefa (Pietro). Egli è almeno loro pari, se non superiore a loro: «Io non sono in nulla loro inferiore... Sono ministri di Cristo? Oso dire, dovessi passare per impudente, che io lo sono PIÙ DI LORO» (2 Corinzi 11:23). Paolo come poteva parlare così di uomini che avrebbero avuto il privilegio di conoscere Gesù da vivo? Come mai nessuno si sarebbe sognato di opporgli un tale vantaggio? Ebbene, noi non vediamo da nessuna parte che Paolo teme l'obiezione. Non lascia mai intendere che i suoi interlocutori avrebbero potuto conoscere direttamente Gesù.

E in tutta evidenza, Paolo non crede che Cefa e gli altri abbiano conosciuto Gesù. Non solo non lo dice, ma si considera loro pari. La loro situazione è la stessa: anche loro non sono stati privilegiati che da «visioni». Egli ammette che, nell'ordine cronologico di quelle visioni, lui non è il primo: «Il Cristo è apparso a Cefa, poi ai dodici…» (1 Corinzi 15:5-9), poi infine a lui stesso per ultimo. Ma questo non è che una successione nel tempo, [12] alcuna gerarchia nella natura di quelle visioni. «Io non vedo alcuna ragione per credere che Paolo abbia prestato all'esperienza di Pietro un'altra natura rispetto alla sua personale: Pietro, come lui, ha visto il Maestro glorificato». [13]

Ancora abbiamo torto probabilmente a definire una «visione» la rivelazione ricevuta da Paolo: non ci si lasci influenzare dalla testimonianza, molto sospetta e tardiva, degli «Atti». Nell'epistola ai Galati, Paolo sembra parlare piuttosto di una rivelazione intima: «Quando piacque a Dio... di rivelare suo Figlio IN ME», traduce Loisy. [14] Racconta ai Corinzi che egli fu «rapito fino al terzo cielo», che egli «udì parole ineffabili che non è lecito all'uomo di pronunciare» (2 Corinzi 12:2-4). È un'esperienza mistica molto classica, interiore, soggettiva. E Cefa e gli altri non hanno avuto nulla di più da insegnargli! 

NOTE

[12] Ancora è probabile che la priorità di Cefa sia un'interpolazione successiva. Alfaric respinge tutto il frammento (Les origines sociales du christianisme, pag. 157).

[13] Si veda GUIGNEBERT: «Jésus», pag. 634 e seguenti. 

[14] LOISY: «L'épître aux Galates» 1:16.

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