mercoledì 16 gennaio 2019

«Il Dio Gesù» (di Paul-Louis Couchoud) — Gesù puramente uomo (V): LOISY

(segue da qui)



PARTE SECONDA

GESÙ PURAMENTE UOMO

LOISY

L'abate Loisy entrò nella classe del corso con la schiena dritta, invisibilmente adornato dalla grande aureola della scomunica maggiore. Una quarantina di ascoltatori entusiasti lo applaudirono con discrezione. Con dei gesti da sacerdote officiante ma con un sorriso acuto che non lasciava le sue labbra sottili, e un scintillio perpetuo dei suoi piccoli occhi, intraprese la dissezione di un testo evangelico. Niente di approssimativo, di fluttuante, di ondivago. Nessuna digressione, nessun discorsetto. La sua mente veramente perpendicolare schiariva di poco il testo nei suoi minimi angoli, lo decomponeva, lo paragonava ad un altro, per non lasciarlo senza averlo esauito. Era uno sforzo di pura intelligenza, o meglio di raffinata dialettica, che non si stancava, tanto era incisivo e nitido. A volte una riflessione malevola tradiva una sensazione personale dell'operatore. Dopo aver messo sul tavolo due brani di Matteo, quello in cui Pietro è lodato per aver ricevuto una rivelazione dall'alto, l'altro in cui Pietro viene accusato di non avere alcun senso per le cose divine, egli aggiungeva con distacco: “Altrettanto bene i vescovi di Roma che hanno rivendicato per loro l'applicazione dell'elogio si sono finora astenuti dal rivendicare quella della colpa”. Di solito l'ironia scaturiva dall'operazione stessa del critico impassibile. Imitatore eccessivo del mordace Duchesne, aveva un modo giocoso e quasi feroce di approcciare il soggetto. Era capace di trattenervi per un'ora al limite delle risate, a spese dell'apostolo Paolo o dello sfortunato redattore degli Atti degli Apostoli.
All'alba era alla sua scrivania, nel suo angusto appartamento di rue des Ecoles, risparmiando dal momento che gli era interdetto il tempo della sua Messa. Aggiungeva una pagina all'altra, chiariva l'espressione del suo pensiero all'infinito, raffinava, perfezionava i suoi argomenti. Aveva mantenuto la sua scrittura da seminario, rotonda, lenta, applicata e il modo di vivere d'un prete rigoroso. Quando sua sorella venne da Montier-en-Der a Parigi, le fece fare qualche passo davanti a lui, in modo che non fosse visto accanto a una donna. Aveva la nostalgia del sacerdozio. Non si sentiva mai a suo agio nella condizione di laico. Non più un prete di Roma, sognava il sacerdozio della vaga religione dell'Umanità: “Credo in un'unica umanità, madre e creatrice di tutti i beni materiali e spirituali, e in un dovere-diritto, il suo unico figlio...” Ha voluto che fosse esposto sulla sua tomba, ad Abrières suo villaggio natale: “Alfred Loisy, sacerdote. Servavit in votis voluntatem Dei”. Pensava, come Renan, di aver mantenuto nell'intenzione le promesse del suo stato clericale.
Non ha mai avuto alcun rilassamento. Un giorno mi ero arrischiato a invitarlo, per una domenica, a pranzo. Lui mi rispose con un sorriso, “Non sono in congedo”. E come ho insistito: “Questo sarebbe un miracolo, di quelli che i teologi chiamano miracoli di difficile esecuzione”. Non ha mai voluto viaggiare, per vedere Gerusalemme, Antiochia, Efeso, queste città i cui nomi tornavano ai suoi corsi, Roma, da dove il fulmine era partito per colpirlo. Dalla Grecia, gli mandai alcuni dettagli sugli scavi americani di Corinto. Avevo visto nel distretto del magazzino la posizione delle baracche passeggere, di cui san Paolo, montatore di tende (skênopoios), avrebbe potuto erigere alcune. Avevo toccato l'insegna della Sinagoga degli ebrei, forse del capo-sinagoga Sostene, presso il quale Paolo aveva alloggiato con Tizio Giusto, e presieduto alle tumultuose assemblee dei cristiani ricolmi dello Spirito. Al mio ritorno, vidi che Loisy si domandava con pietà come si potesse attribuire importanza a simili sciocchezze.
Sotto un pontefice liberale e paterno, Duchesne, Loisy, Tyrrell, Buonaiuti avrebbero costituito una squadra brillante, che i grandi critici di Berlino o di Oxford non avrebbero eclissato. In loro la fibra profonda era cattolica. Loisy era disposto ad accettare il vescovo scomodo di Monaco, in cambio dell'impegno a limitarsi all'Antico Testamento, dove i passi profondi sembrano meno pericolosi che nel Nuovo. Roma non si prestò a questo accordo. Il cardinale di Parigi, il glaciale Richard, chiedeva intransigenza. Pio X era un buon parroco veneziano le cui congregazioni lo facevano parlare come un papa del Medioevo. Conduceva, ha detto Duchesne, la barca di San Pietro “con le gaffe”. Aveva una semplicità d'animo che illuminava i suoi grandi occhi blu. Quando ha risposto a Loisy, “Vi state rivolgendo al mio cuore e non avete cuore”, ha ferito un'intelligenza fiera e priva di affettazione e non ha parlato come un padre.
Loisy era di un'incredibile secchezza. Loisy-il-Secco, come lo definì un altro prete in disponibilità, Marcel Hébert, che, al contrario di lui, era tutto effusione. Loisy non se la prese. Era chiuso, compassato, tenendo sempre segreto il suo gioco, non fidandosi di nessuno. Ha compromesso Bremond che si era fidato di lui. Ha scoraggiato l'amicizia. Il suo sorriso sottile diveniva rapidamente acido. Gli anni trascorsi come sospetto nella Chiesa gli avevano lasciato le pieghe della riservatezza e una tasca segreta per il veleno.
Viveva come il granchio, per pizzicare. Per lo scritto, per la parola, per il silenzio. “Lagrange”, mi disse, “sarà ben umiliato. Sul suo grosso libro (L'Evangile selon saint Jean), non metto una parola nella Revue. Nient'altro che il titolo”. Era crudele con innocenza, candidamente acido. Portava, incurabile in fondo a lui, l'ulcera della sua condanna. Aveva l'oscuro orgoglio dell'isolato che ferisce qualsiasi cosa faccia. Ho trascorso un anno organizzando il suo Giubileo scientifico, sotto forma di un Congresso di storia del cristianesimo. Quando si vide circondato e celebrato al College de France da grandi esegeti provenienti da tutta Europa, ammette, nelle sue Mémoires, di avere provato un moto di orgoglio. Credevo fosse soddisfatto. Non immaginavo, grandi dèi, che non mi sarebbe stato minimamente grato. Non mi aspettavo che mi avrebbe portato così tanto rancore.
Ha scritto troppo. Ha avuto il torto di credersi un filosofo, di voler continuare Auguste Comte, di protestare con Bergson. In filosofia, si unisce a Léon Bourgeois, a Marcel Déat e ad Albert Bayet. Tutto ciò che nel suo lavoro non è la storia critica del cristianesimo o la storia della sua rottura con Roma, è secco o troppo prolisso. Nei suoi buoni libri (i migliori sono i suoi commentari di Giovanni e di Luca [1]), il suo pensiero, che trotta come i sorci come la sua persona, è circospetto, sinuoso, preciso. Filtra così bene gli eccessi che li assorbe come dell'acqua pura. La mente è agile, acuta, analizzatrice, farabutta e tagliente nell'obiezione, insinuante nella presentazione, molto ecclesiastica. Lo stile è freddo e limpido. Loisy si è ripetuto molto. Seguiva in ritardo le correnti dell'opinione pubblica. Il suo dono era meno di inventare che di mettere in chiaro le invenzioni altrui, dopo averle denigrate e chiarite. Caustico nella censura, non poteva sopportare di essere criticato a sua volta. Ormeggiato al suo sistema, suscettibile, irritabile, fragile, aveva il dogmatismo ombroso dell'eresiarca.
Resta il fatto che ha armonizzato e verificato tutti i materiali con i quali si può tentare di far tenere l'edificio del cristianesimo sulle spalle di un ebreo oscuro e irrilevante.

NOTE


[1] Le Quatrième Evangile, 2° edizione riveduta, Parigi, Nourry, 1921. L'Evangile selon Luc, ibid., 1924. Il commentario di Luca di Lagrange è del 1921, quello di Giovanni del 192. Lagrange e Loisy si combattevano senza raggiungersi. Non hanno affatto la stessa regola del gioco.

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