venerdì 6 settembre 2024

ECCE DEUS — Prefazione


Il Dio di Coincidenza   
Può qualcuno negare che  
Una cosa dopo l'altra  
In sequenza e logica  
Mai vista prima   
Non può essere che la  
Interferenza di un Dio  
Determinata a provare che   
Ognuno che pretende  
Di conoscere ora  
Una cospirazione è   
Demente? 
(Kent Murphy)

Sebbene, quando si parla di «Gesù storico», occorre sempre confrontarsi con la concreta possibilità che non fosse stato altri che un predicatore apocalittico coinvolto nell'ideologia e nella prassi antiromane (per usare l'ottima definizione del prof Bermejo-Rubio), è naturale sentirsi curiosi a suo proposito. Per circa un anno quella mia curiosità ebbe alti e bassi. Si intensificava e si indeboliva a seconda delle giornate. Presi provvedimenti solo dopo la volta in cui realizzai che tutta la storia dell'Occidente, me compreso, veniva in qualche modo trasformata dal cristianesimo. E in peggio. Quest'ultimo dettaglio, in particolare, mi disturbava. Sì, pensai, è giunto il momento. E così cominciò il mio viaggio verso il cuore del mistero che, almeno per me, circondava l'origine del cristianesimo. 

Il punto di partenza ideale per approfondire l'argomento mi sembrava la testimonianza degli scrittori contemporanei alla presunta vita di Gesù. In un batter d'occhio, così mi illudevo, avrei appreso tutto ciò che dovevo sapere riguardo il Gesù storico e le Origini cristiane. E magari con le mie scoperte avrei messo a tacere, o placato, la mia curiosità, e magari alleviato, o completamente dissipato, il mio profondo disprezzo verso i folli apologeti cristiani. Ma ero soltanto un ragazzino con un'idea rudimentale di come stessero davvero le cose al livello più arcano dell'originaria setta cristiana. Scoprii ben presto, però, che mi illudevo.

Ero diventato abbastanza esperto e tra gli scrittori antichi sapevo orientarmi meglio di quasi tutti i miei coetanei. Si può immaginare, perciò, che terribile scoramento quando non riuscii a portare alla luce alcuna informazione riguardo al Gesù storico. Come era possibile che ci fosse un tale vuoto in un argomento di studio che sembrava tanto vitale? Quale cospirazione a tacere, quali vincoli di segretezza fecero sì che io non trovassi menzione alcuna di questo Gesù storico, nemmeno sotto forma di cronache ufficiali o resoconti contemporanei? Neppure tra gli stessi testi cristiani? Eppure, alla fine, fui costretto a concludere che nessuno stava nascondendo nulla né a me né al resto del mondo riguardo all'argomento della mia tentata indagine. O, perlomeno, non lo nascondeva volontariamente, consciamente. Sarebbe stato un compito impossibile. C'è sempre in giro qualche chiacchierone che non sa tenersi nulla per sé. Qualche parolaio senza il quale i dettagli degli aneddoti più scandalosi dell'umanità andrebbero persi, figuriamoci una cosa vistosa come il Gesù dei primi cristiani.

No. Uno soltanto poteva essere il motivo che teneva il Gesù storico così lontano dalla ribalta: la pura noncuranza? Un disinteresse totale? Un distoglimento dello sguardo? Laddove era coinvolto il Gesù storico, su tutti, compresi i cristiani della primissima ora (o di chi si spacciava «piamente» per loro), calava il buio assoluto.

Non dico che nessuno abbia mai riflettuto sul «Gesù storico». Tutti, ne sono certo, prima o poi meditiamo sulla sua esistenza. Ma le nostre osservazioni non sono mai state alimentate abbastanza a lungo da creare un corpus di conclusioni e conoscenze. Prima che si potesse cominciare a scrivere o lanciare una vera ricerca degna del nome, insorgeva una follia apologetica cristiana che dissipava qualunque stimolo a fare sul serio, o qualunque azione potesse dare origine a libri autorevoli oppure a studi degni di pubblicazione sulle riviste scientifiche: tutto ciò che avrebbe potuto occupare un modesto scaffale anche in una qualsiasi mediocre biblioteca del nostro mondo. Se il folle apologeta cristiano dicesse che altre testimonianze sono riuscite a sfuggire alle indagini più accurate, io non potrei che rispondergli, forse con un certo vigore: falso.

Domanda: è possibile accorgerci che siamo noi stessi i primi a bandire una certa verità che riguarda la natura arcana del «Gesù storico»?

Risposta: sì, perché in passato i folli apologeti cristiani lo hanno già fatto. Devo proprio dilungarmi sui particolari? Sono in tanti i folli apologeti cristiani che continuano la messinscena del Gesù storico a lungo, anche dopo che una voce ha indicato al di là di ogni credibile dubbio che loro, i cristiani, di qualunque setta e di qualunque risma, sono i meno indicati a dire la loro sulle Origini cristiane.

Non è ancora giunto il momento, pensai. E forse era destinato a non giungere mai.

Chiunque mi si raccomandasse di vedere, lo cercai. Ma non trovai nulla, nulla che confermasse la storicità di Gesù. Perché mai degli storici, anche ebrei, si sarebbero concessi un tale scivolone, ignorando del tutto la vicenda del Gesù storico? Capita a tutti di sbagliare, non c'è dubbio. Ma com'era possibile che, come in seguito scoprii, capitassero disattenzione e disinteresse di tal sorta ogni volta che qualcuno, perfino un antico autore cristiano, non accennasse mai minimamente ad un Gesù storico?

Ogni vangelo che consultai quel giorno rimandava ad un altro, che mi lasciava a mani vuote, perché la fonte ultima in ultima istanza non era mai testimonianza oculare, ma profezia storicizzante: midrash e nient'altro che midrash dalla Septuaginta. Ogni dettaglio della narrativa della Passione è stato derivato da passi veterotestamentari, preso del tutto fuori contesto dagli antichi scribi cristiani, sull'ipotesi che i testi in questione fossero predizioni segrete della vita e della morte di Gesù. Il Più Antico Vangelo, quindi, non sarebbe stata l'eccezione alla regola: al contrario, in esso, se solo fosse recuperabile, troveremmo molto probabilmente la più elaborata collezione di profezie «storicizzanti» della Passione. 

A volermi distogliere da questa insoddisfacente conclusione erano menzogne o dicerie distribuite in modo da tratteggiare del Gesù storico un'immagine mai completa, o mai accostabile a quella che si sarebbe ricavata dalle stesse fonti cristiane, un ritratto che a sua volta cominciava a sembrare incompleto a chi come me fosse convinto, fino quel momento, che sapessimo tutto di ciò che riguardava il Gesù storico.

Ammetto tuttavia, che quel giorno, dalla lettura di quei testi, qualche vago senso della verità intorno al Gesù storico lo colsi.

Nella forma di un paradosso: se la morte di un Gesù storico fosse stata davvero un evento storico, persino tra la piccola cerchia di cristiani antichi, come è possibile che tutte le versioni conosciute di quel presunto evento dovrebbero derivare da una sola sacra storiella, per di più farlocca? 

Ogni indizio, ogni testo, tutto congiurava a deporre contro l'ipotesi stessa di un Gesù storico.

Per comprendere allora veramente, in profondità, ciò che dicono i più antichi testi cristiani (e per inciso: i vangeli non figurano tra questi), si deve penetrare la mentalità antica sulle visioni e i sogni.

Sulla realtà dei sogni, abbiamo una miriade di testimonianze, a cominciare da Omero.

Ci si può figurare facilmente che si poteva essere persuasi che il Cristo, un grande angelo, si fosse incarnato per il fatto stesso che lo si avesse visto in sogno, o che fosse apparso a certi visionari ebrei.

Peraltro questa abitudine è proseguita attraverso i secoli: 

● la visione di Giovanna d'Arco non fu messa in dubbio dal suo accusatore; 
● allo stesso modo, la realtà del sabba era ammessa: un testo di Innocenzo VII del 1484 ne fa fede. Il papa denunciava e condannava  fatti orribili che accadevano in alcune regioni della Germania, dove numerose persone di ambo i sessi si davano al culto del nemico di Dio, partecipando a sabba stregoneschi; 
● e questa abitudine, attraverso visionari come santa Teresa d'Avila, la mistica Maria Alacoque, Bernadette di Lourdes, è proseguita fino ai nostri giorni, poiché pure la visione di Fatima nel 1917 è affermata dalla Chiesa cattolica come «realtà». 

Così io penso che Gesù non è un uomo fatto dio, ma un dio fatto uomo. 

Dopotutto, all'origine della cristologia, Gesù era un secondo dio. Quella concezione è la più logica, di certo più logica della tesi storicista. 

Dopotutto ciò che colpisce è che si è conosciuta dapprima la sua morte, e si è costruita a partire da lì la sua vita pubblica sul duplice tema del battesimo e dell'eucarestia, che furono istituiti per gli dèi misterici. In seguito si fabbricò l'infanzia del Dio, infatti i vangeli dell'infanzia sono i più tardivi. 

Marcione faceva discendere Gesù sulla terra all'età di trent'anni. 
Giuseppe Ferri.

ECCE DEUS
STUDI DEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO
di
WILLIAM BENJAMIN SMITH




PREFAZIONE 

Il lettore di queste indagini sulla fonte e sul senso del cristianesimo primitivo non potrà fare a meno di osservare che alcune questioni riemergono ripetutamente in discussione. Le linee di pensiero perseguite sono numerose e in genere reciprocamente indipendenti — in ciò risiede, infatti, in gran parte il valore logico del libro, se ne ha uno — e non è strano che qua e là si tocchino o addirittura si intersechino l'un l'altra. Naturalmente tali punti di coincidenza sono spesso altamente importanti e meritano pienamente l'enfasi della ripetizione. Fintantoché il percorso di approccio ha un grande significato nell'argomentazione, e siccome è sembrato opportuno indirizzare l'attenzione del lettore ancora e ancora su tali punti nodali e cardinali, non è stato fatto nessun tentativo, nell'interesse dell'unità artistica, per ridurre queste diverse trattazioni a un'unica presentazione. Non sarebbe saggio garantire un guadagno estetico con una perdita logica. 
L'autore non si è preoccupato di procurare l'impressione dell'originalità; al contrario, ha fatto aperto riconoscimento quando consapevole di un debito importante nei confronti di altri. Ma si sente piuttosto sicuro che la vita dell'anima non è affatto esaurita nella coscienza e che può essere in debito inconsapevolmente con altri, soprattutto con Volkmar, più di quanto possa apparire a prima vista. Il Marcus di questo intrepido cercatore di verità è giunto nelle mani dell'autore quasi una generazione fa, circa vent'anni prima che egli cominciasse ad avvicinarsi al suo attuale punto di vista, quando era immerso negli studi paolini e apocrifi, mentre i presupposti di base della critica liberale erano ancora da lui accettati come del tutto inattaccabili. Non era strano, allora, che il discorso di Volkmar circa Lehr- e Sinnbilder passasse senza fare molta impressione, senza suscitare dubbi o discussioni. Quasi un quarto di secolo dopo, quando il punto di vista attuale dell'autore era stato da tempo pienamente raggiunto, e di fatto lungo i sentieri tracciati in Der vorchristliche Jesus, mentre era impegnato in un nuovo studio dei Vangeli è stato sorpreso di riconoscere improvvisamente che le sue nuove interpretazioni riflettevano per così dire l'influenza di Volkmar, anche se non ha mai consultato Marcus per accertare quanto vicina nei dettagli possa essere la somiglianza. Mentre, allora, ciò che egli deve consapevolmente all'instancabile zurighese sia piccolissimo, egli coglie questa opportunità per confessare che il suo debito inconscio potrebbe essere molto più grande.
Ma un uomo più grande di Volkmar, il più nobile e più illustre dei Padri della Chiesa, seguendo non servilmente le orme di spiriti e pensatori forse ancora più grandi, quasi 1700 anni fa affermò enfaticamente e ripetutamente la necessità imperativa di un'approfondita esposizione simbolica dei Vangeli. Con questo non si intende affatto che egli rifiutasse i loro racconti come non storici — tutt'altro! — ma che non si può negare un profondo simbolismo, che le fonti non contengono pura Storia, che l'accettazione dei resoconti per quello che sono è impossibile: su tutto questo Origene insiste con tanta serietà e convinzione. Ora, però, se il significato simbolico è la cosa principale, come percepì così chiaramente questo Padre della Chiesa, allora il corollario immediato e manifesto deve privare le narrazioni del loro contenuto apparentemente storico. Descrivere il progresso del culto di Gesù, rappresentare in forma narrativa la rivelazione agli uomini della conoscenza di Dio, come una serie di episodi storici altamente vividi e drammaticamente raggruppati — ciò sarebbe pittoresco, bello, impressionante, sì, vividamente istruttivo e del tutto ineccepibile; in certe condizioni (reali) tale procedura era da raccomandare incondizionatamente, come unica appropriata ed efficace. Ma supporre che tali eventi, così carichi di significato spirituale, fossero accaduti prosaicamente sarebbe peggio che puerile e ridicolo. La riflessione, infatti, può fissarsi e soffermarsi sul contenuto spirituale soltanto quando  la verniciatura storica viene riconosciuta finta e irreale; finché quest'ultima è accettata come reale e plausibile, altrettanto a lungo deve regnare sul senso e sul pensiero, specialmente quando è meravigliosa, e altrettanto a lungo va trascurato il significato più profondo. Come puro simbolismo, il miracolo dei pani e dei pesci potrebbe trasmettere una dottrina profonda e bella; come evento letterale non potrebbe insegnare alcuna verità, perché distoglierebbe e fisserebbe l'attenzione di tutti sullo stupefacente prodigio materiale. Quindi è chiaro che Gesù non avrebbe potuto rappresentare il suo insegnamento con tali immagini, che in ogni singolo caso il riconoscimento di uno scopo simbolico comporta la rinuncia al contenuto storico. È difficilissimo credere che Origene stesso non ammettesse questa ovvia conseguenza, sebbene se non la proclamò apertamente.
Ma pur richiamando l'attenzione sull'ampio riconoscimento del simbolismo nei Vangeli da parte di questo Padre della Chiesa, non dobbiamo assolutamente approvare il suo metodo allegorico applicato all'Antico Testamento, né adottare le sue interpretazioni troppo raffinate delle narrazioni evangeliche. In effetti, a prima vista sembra strano che egli vedesse in generale così distintamente e in particolare così debolmente: uno sconcertante chiaroscuro. Ma dobbiamo ricordare che egli era separato da almeno due secoli dall'origine delle storie evangeliche e da un abisso ben più ampio dallo spirito che le plasmò. La sua era un'intelligenza ellenica, incline alle astrazioni, che si proponeva di interpretare il prodotto di un pensiero almeno per metà semitico, che si occupava quasi esclusivamente del concreto. Mancando alquanto di senso storico, non riusciva a immaginare le condizioni di un passato lontano e cadeva facilmente vittima della eccessiva sottigliezza della sua epoca e della sua razza. 
Ma sarebbe un grave errore attribuire la sua percezione dell'elemento simbolico stesso a una tale mancanza di percezione storica. Infatti, questo elemento è troppo evidente e prominente per sfuggire anche a un occhio socchiuso, ed è riconosciuto in qualche misura persino nella patristica materializzante e nella teologia moderna conservatrice. Tra i liberali, Schmiedel e Loisy ne hanno percepito ed enfatizzato la sua frequente presenza. Nella sua opera compendiosa, Les Evangiles Synoptiques, che riassumono e soppiantano intere biblioteche, quest'ultimo mostra un'inequivocabile predilezione per l'aggettivo “symbolique”; e in innumerevoli punti leggiamo: “le miracle figure” o “présage”, non solo in Luca (il grande allegorista, secondo Loisy), ma anche nel (presunto) goffo goffo, maldestro e sempliciotto Marco. 
Che fin dai tempi più antichi e nelle narrazioni evangeliche più incorrotte, non solo nelle parti miracolose ma anche in altre parti, ci sia sempre stato un ampio e importante elemento simbolico non può invero essere messo in dubbio. Almeno questo sembra certo. Da qui nasce l'inevitabile domanda: dove tracceremo la linea di confine? Come e secondo quali principi dovremo delimitare il simbolico dal non-simbolico e autentico? Rispondere a questa domanda sembra essere l'obbligo inevitabile del critico liberale. Schmiedel l'ha affrontata apertamente e coraggiosamente — con quale successo potrà giudicarlo il lettore dopo la lettura di questo volume. Ma, in generale, i critici sembrano essersi mossi con cautela — almeno non hanno dato una risposta chiara e univoca. Loisy ci assicura ripetutamente che questo o quello è indubbiamente autentico, Harnack anche a sua volta, e Wellhausen meno spesso. Ma si cercano invano i motivi dei loro fiduciosi pronunciamenti. Mai il loro giudizio appare determinato da fatti oggettivi, ma uniformemente da un capriccio soggettivo. Il critico sembra aver elaborato o formato qualche “profilo di Gesù” per sé — in che modo nessuno può dirlo — ma in ogni caso sotto la guida del proprio temperamento e della propria predisposizione. Il suo “profilo di Gesù” è semplicemente ciò che gli sembra che, in tutte le circostanze, un Gesù dovrebbe essere stato. Con questo “profilo di Gesù” ogni singolo aspetto del Gesù evangelico è poi accuratamente confrontato: se sembra coerente con il “profilo” immaginato, è accettata come probabile; se sembra essenziale, è dichiarato certo; se è incoerente, è respinto in quanto improbabile, o addirittura impossibile. 
Ma quando chiediamo la giustificazione del Profilo stesso, allora, ahimè, non ne viene data nessuna, non ne è stata data nessuna e non ne verrà data nessuna, nemmeno per anni di molte generazioni. Senza ulteriori indugi il critico annuncia che Gesù fu questo e non quello! Ma la stessa cosa non può mai essere provata, non può mai essere resa probabile. Il dominio della possibile personalità non può essere definito così strettamente, né così nettamente. Nessuno può dire se fosse più probabile un sognatore mistico o uno strenuo riformatore, se lo fosse un teorico lungimirante o un intrepido uomo d'azione. I tratti più diversi del carattere possono essere attribuiti con uguale diritto a Gesù, compatibili e incompatibili — sì, anche se direttamente contraddittori; né possiamo mai provare che alcuni fossero a priori probabili, altri improbabili, o in verità impossibili. Anche se un tipo particolare dovesse sembrare più probabile di un altro, sarebbe comunque improbabile rispetto a tutti gli altri possibili. Si tratta, infatti, di un problema di teoria delle combinazioni: In quanti modi puoi selezionare n cose tra r cose? Il numero di soluzioni possibili è così grande che la probabilità di una qualsiasi di esse, anche la più probabile, è soltanto infinitamente piccola; cioè dobbiamo rinunciare al problema in quanto praticamente insolubile, a meno che non si cerchi la soluzione lungo una strada molto diversa da quella finora percorsa. Mostrare tale strada, e percorrerla per un certo tratto, è proprio l'obiettivo e lo scopo di questo volume. 
Tuttavia, è solo l'idea generale, il metodo di esegesi, su cui lo scrittore vuole porre l'accento. Può darsi che in molti particolari egli si sia smarrito, ma nondimeno è assolutamente indispensabile una qualche esposizione. Quest'ultimo fatto traspare anche attraverso i valorosi sforzi di Schmiedel e di Loisy per provare che almeno alcuni tratti, per quanto insignificanti, dei dipinti evangelici sono puramente storici. La questione importante non è dove e in quanti dettagli il presente scrittore abbia sbagliato, ma dove e in che misura abbia ragione e quali siano le legittime deduzioni che ne derivano. Quasi ogni sua affermazione porta con sé una lunga serie di risultati, per cui a meno che non siano tutti respinti le conseguenze possono essere serissime. 
Inoltre, com'è possibile non vedere quest'altro fatto notevole, che il quadro storico che Harnack, Wellhausen, Loisy, Burkitt vorrebbero conservare o restaurare è estremamente debole e incolore. Con questi contorni vaghi e scialbi essi non riescono assolutamente a suscitare la nostra ammirazione, a incantare la nostra fantasia, a conquistare il nostro amore, tanto meno a spiegare il grande movimento religioso al cui centro è posto solo per il gusto di una spiegazione a lungo desiderata: nient'altro che una personalità sotto ogni aspetto scarsamente attraente o impressionante, ma quasi repellente, che questi critici, alla loro bisogna, hanno evocato come il Fondatore del Cristianesimo. Harnack non riesce a indicare un solo episodio della vita di Gesù che lo contraddistingua come un uomo particolarmente eminente o amabile. Si veda il capitolo 4 della sua “Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli”. Dopo un brillante prologo, egli giunge a “Gesù Cristo e la Missione Mondiale”. Ma cosa ha da dire sulla parte di Gesù in questa missione mondiale? In realtà, nulla di nulla. Leggiamo alcune frasi altisonanti circa la predicazione di Gesù, su come egli rivolgesse il suo Vangelo esclusivamente agli ebrei — cosa che Harnack si affanna a provare. Ma tutto rimane irrimediabilmente oscuro e nebuloso. Harnack non menziona nessuna precisa concezione nuova o importante che Gesù abbia introdotto, nessun nuovo principio di condotta che abbia proposto o provato, nessun nuovo motivo, nessuna nuova ispirazione che abbia infuso nella vita umana — perché tutto era stato già lì; inoltre, cosa ancora più significativa, nessuna espressione di affetto umano, nessuna parola di plauso, di conforto, di incoraggiamento nella battaglia della vita, non un solo atto di bontà umana, di tenerezza, di magnanimità o di abnegazione. Anche se c'è qualcosa nelle parole o nelle azioni di Gesù che potrebbe avere l'apparenza in un primo momento di modificare queste dichiarazioni, tuttavia, a un esame più attento, si scoprirà che ciò richiede tutt'altra interpretazione, che possiede un'impronta dogmatica e non biografica, oppure che è la finzione di una fantasia drammatizzante successiva. Per esempio, prendiamo la preghiera genuinamente umana e supremamente nobile sulla croce (Luca 23:34): “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Si tratta di un sentimento di cui non solo la cristianità, ma anche l'umanità può vantarsi, che qualcosa di simile raramente si trova perfino nel Nuovo Testamento e di fronte al quale anche l'anima ribelle di Rousseau potrebbe tremare e inchinarsi. Nondimeno, si tratta di una “interpolazione occidentale”, come ammettono Westcott e Hort: “non possiamo dubitare che provenga da una fonte estranea”; tra parentesi in , assente in B, D, nel sinaitico-siriaco e in alcuni antichi testimoni latini; “al di là di ogni dubbio”, dice Wellhausen, “è interpolata”. Ora, se questo detto, il migliore di tutti nel Nuovo Testamento, è un'interpolazione, la conclusione salta subito agli occhi: gli autori delle Sacre Scritture erano ben capaci di inventare una Personalità ancora più grande di quella attribuita a Gesù; e l'unica ragione per cui la figura di Gesù non si erge ancor più gloriosa deve essere una delle due: o il Gesù storico non fu forgiato nel più nobile degli stampi, oppure gli evangelisti non si preoccuparono particolarmente di tratteggiare un ideale personaggio umano, ma piuttosto di raffigurare il progresso di una “dottrina nuova”, di rappresentare simbolicamente la marcia trionfale del culto di Gesù. Ahimè! Harnack e la scuola critica non sembrano esitare di fronte a questa alternativa, ma si impongono di accettare un Gesù che non è all'altezza di Socrate e nemmeno di Aristotele. Infatti, non c'è azione umana del Gesù di Harnack che sembri così bella o così nobile come quella raccontata a proposito dello Stagirita. (Si veda pag. 127).
Infatti, il Salvatore del professore di Berlino non si eleva mai all'idea di uomo in quanto uomo. Dall'inizio alla fine rimane un arrogante ebreo, un ebreo degli ebrei. Non fu nemmeno un ebreo liberale di quel giorno. Essenzialmente fu un critico severo dei Farisei e solo dopo che l'apparente fallimento del suo messaggio lo aveva amareggiato, iniziò a predire l'imminente giudizio sui figli del Regno, il rifiuto del suo popolo, la distruzione del tempio e l'ammissione di stranieti alla tavola del Padre.  Al giorno d'oggi, un siffatto predicatore lo definiremmo un dispeptico sgarbato e contrariato. Harnack non vuole saperne del fatto che Gesù accarezzasse l'idea di una missione mondiale. Questo magnanimo pensiero, sostiene, non sorse mai nel cuore del genuino profeta ebreo, non dimorò mai nel suo seno, non fece mai parte della tradizione primitiva. Eppure, era nel mondo prima di Cristo e dopo Cristo, soltanto non nell'orizzonte ristretto del Salvatore! Naturalmente, allora, Harnack trova del tutto impossibile inserire o l'influenza o la personalità di Gesù nel proprio quadro storico. Infatti, lungi dallo spiegare il corso degli eventi, l'angusto predicatore ebreo puramente umano rende ogni cosa inspiegabile e incomprensibile. Egli è solo una parentesi disturbante, un'onda isolata nel flusso della Storia. 
Harnack può abbozzare splendidamente i presupposti della predicazione mondiale (capitoli 1-3), delineare magistralmente il suo progresso attraverso l'Impero romano; ma cosa c'entra il Gesù puramente umano? Aspettiamo ancora una risposta. Sì, in effetti, Gesù fu certamente il contenuto di quella predicazione: per nulla però in quanto un uomo, bensì unicamente in quanto un Dio. Non solo la Personalità umana non recita alcun ruolo in questo annuncio, ma secondo Harnack potrebbe semplicemente ostacolare o annullare la missione mondiale, poiché tale predicazione non fu né comandata né auspicata dal Salvatore. Infatti, Harnack reca la testimonianza dei giudeo-cristiani, che rimasero fedeli ai precetti e all'esempio di Gesù, che “schiacciati dalla lettera di Gesù morirono di una morte prolungata”. 
Queste sono parole forti e coraggiose, ma non troppo coraggiose né troppo forti. Ad avviso di Harnack, gli Apostoli furono nettamente superiori al Gesù puramente umano. I discepoli furono più grandi del maestro, i servi più grandi del signore. Ma non è tutto qui. Almeno in un punto, Loisy, in sintonia con Harnack, rappresenta Gesù come un visionario oltre misura, come di fatto un pazzo. Egli pensa che il Salvatore avesse indubbiamente pronunciato le parole: “Io distruggerò questo tempio e in tre giorni lo riedificherò” (i, 99), che, come immagina Loisy, furono copiate dal processo reale e (naturalmente) trasferite al processo notturno puramente fittizio, dinanzi a Caifa (i, 102; ii, 599: “ce proces nocturne, qui sans doute n'a pas eu lieu”). Inoltre, concordando con Wellhausen, egli attribuisce al Salvatore una cautela che sa sgradevolmente di codardia: “Siccome viaggiava per la Galilea e non voleva che nessuno lo sapesse” (Wellhausen). Loisy spiega “questo viaggio in incognito” con “l'ansia di non attirare l'attenzione di Erode” (i, 93). In generale, nel valutare l'opera monumentale di Loisy, si può ricordare il suo giudizio sul risultato netto del lavoro illuminante del suo collega di Gottinga, “il quale, se chiarisce molti dettagli, non tende certo a rendere più comprensibile né la vita né la morte di Gesù”. Sì, possiamo andare ancora oltre. Non solo le opere di questo trio di critici rappresentativi non contribuiscono per nulla alla nostra comprensione, né della vita né della morte di Gesù, ma il loro notevole effetto è quello di svuotare sia l'una che l'altra di ogni significato per il movimento protocristiano ben attestato e, cosa ancora peggiore, di privare la personalità del Salvatore di tutto ciò che avrebbe potuto ispirare amore o riverenza o persino ammirazione. Possiamo sorridere del ritratto romantico e brillantemente vivido di Renan, ma è per molti versi preferibile alla bozza fioca e scarna dei maestri successivi. 
Di sicuro Wellhausen ha percepito chiaramente che il suo Gesù storico è solo un'ombra, e privo di qualsiasi valore religioso e, proprio per quella ragione, quasi immediatamente offuscato dalla comunità primitiva. Pesantissime sono le parole dell'ultima pagina della sua “Introduzione”: "Per ciò che è andato perduto con il Vangelo, il Gesù storico, come base della religione, è solo una compensazione molto dubbia e insoddisfacente. Se non fosse stato per la sua morte, non sarebbe mai stato storico del tutto. L'impressione lasciata dalla sua carriera è dovuta al fatto che non fu completata, ma interrotta bruscamente quando era appena cominciata”. Similmente Harnack apre l'importante quinto capitolo (op. cit.) con le parole: “La morte di Cristo fu più potente della sua vita... ma non poté infrangere la fede in lui come messaggero inviato da Dio, e da lì nacque la convinzione della sua Resurrezione”. 
Questo è proprio il meglio che il liberalismo ha da offrire come spiegazione dell'origine della predicazione protocristiana. Ci fu mai stato un fenomeno così importante da qualche parte spiegato in maniera così insufficiente? Non solo la spiegazione è palesemente inadeguata, ma è persino autocontraddittoria. Centinaia di persone nobili e carismatiche hanno subìto una morte improvvisa, prematura e tragica, ma chi di loro è stato immediatamente predicato in tutto il mondo come sorto dalla tomba, asceso al cielo e rivestito di tutta la potenza, la maestà e il dominio dell'Altissimo? Chi di loro è stato rapidamente intronizzato come Signore e Dio, come l'Alfa e l'Omega, come Alfa e Omega, come sovrano dell'universo e co-eguale alla divinità suprema? No, la morte non spiega proprio nulla di nulla. Non avrebbe mai potuto essere “più potente della vita”, se la vita non fosse stata ineguagliabile, senza alcun parallelo e al di là di ogni imitazione. 
Il presunto effetto meraviglioso della morte presuppone una vita ancora più meravigliosa: sì, addirittura miracolosa; nient'altro avrebbe potuto entusiasmare e incantare i discepoli in modo così stupefacente e inaudito. Iil popolo credeva pure in Giovanni come inviato da Dio; apparentemente l'impressione della sua personalità in vita fu altrettanto profonda di quella suscitata da Gesù; anche la sua carriera si interruppe altrettanto bruscamente; né la fiducia in lui si infranse in tal modo. Nondimeno i suoi seguaci più fedeli non sognarono mai che egli fosse risorto e asceso al cielo, per essere l' adorato, assiso alla destra di Dio. 
Accanto alla proclamazione istantanea di Gesù Divino dopo la sua presunta morte sulla croce del malfattore, l'enigma più urgente del cristianesimo antico è la missione praticamente immediata ai pagani, direttamente contro il presunto precetto e precedente di Gesù, e senza alcuna origine comprensibile — una missione che divenne nel contempo mondiale nella sua estensione e nel suo successo. Come si espone in Der vorchristliche Jesus, la predicazione di Paolo non può gettare alcuna luce su questo mistero, perché non può spiegare Anania di Damasco, né Apollo di Alessandria, né i Dodici a Efeso, né Aquila e Priscilla a Roma. Il fatto del culto primitivo di Gesù e il fatto della missione primitiva a tutti i gentili sono i due fatti cardinali del proto-cristianesimo, entrambi vanno spiegati da ogni teoria accettabile delle origini cristiane, entrambi vanno spiegati pienamente interpretando il proto-cristianesimo come un movimento più o meno concertato fin dal principio per illuminare i gentili, per introdurre ovunque il culto monoteista di Gesù, e nessuno dei due è mai stato spiegato in alcun modo dalla massima ingegnosità nella manipolazione dell'idea liberale del Gesù puramente umano. 
Se qualcuno ne dubita ancora, legga i lavori recenti di Wrede e di J. Weiss, e l'eloquente difesa della tesi “escatologica” di quest'ultimo da parte di Schweitzer, la cui grande opera, Von Reimarus zu Wrede (“La ricerca del Gesù storico”), è un cimitero di ipotesi abbandonate, compresa la stessa tesi “escatologica”. Non è questa la sede per discutere quest'ultima in dettaglio, né è necessario, perché Schweitzer deve rimproverare a Weiss di essersi allontanato, nella sua opera successiva, dalla sua stessa dottrina, che, di fatto, vede nel Gesù solo un agitatore messianico il cui entusiasmo, come nella rappresentazione di Loisy, sfiorò la follia. Di tutti i “profili di Gesù”, questo sembra il meno amabile e il più inadeguato. Non spiega nessuno dei due fatti cardinali; al contrario, li rende dieci volte più difficili da capire di prima. La tesi escatologica è, in effetti, la reductio ad absurdum dell'ipotesi liberale puramente umana; mentre il suo logico successore, la tesi psicopatica di Binet-Sanglé e dei suoi colleghi, è la reductio ad nauseam
Sembrerebbe, allora, che la dottrina del Gesù puramente umano non sia che sabbia mossa; che non offra basi solide ai critici liberali, per quanto possano enfatizzare con forza questo o quel dettaglio come certo o indubbio o addirittura indispensabile. Tutte queste asserzioni hanno solo un significato retorico. Quanto siano vuote logicamente si può dedurre da questa circostanza: il loro unico fondamento è il fatto che il dettaglio in questione concorda con una concezione preconcetta su Gesù. Nel frattempo non viene fatto un solo passo per giustificare questa concezione, per provarne la necessità o per mostrare che l'episodio in questione non sia mai accaduto realmente. A titolo di esempio, si consideri quanto segue: Harnack parla del ringraziamento (Matteo 11:25-30): chiaramente un inno, un'effusione della coscienza cristiana in vista del vasto trionfo del culto di Gesù tra i gentili; ma egli ritiene che sia immaginabile che il suo Gesù immaginario possa aver effettivamente detto qualcosa del genere, e perciò si esprime così: “Il detto quindi non contiene nulla che possa essere contestato e perciò può essere utilizzato come una delle fonti più importanti per la nostra conoscenza della personalità di nostro Signore” (I Detti di Gesù, pag. 220). Si noti bene la parola “perciò” e la premessa principale implicita: tutto il (rilevante) materiale evangelico, che non contiene nulla di discutibile, può essere usato come fonte della nostra conoscenza della personalità di Gesù: cioè, nessun Evangelista avrebbe potuto e voluto inventare un “detto” di Gesù del tutto incontestabile!  Perché no? È proprio vero? Cosa c'è di meno contestabile della preghiera sulla croce? Eppure essa “è al di la di ogni dubbio interpolata”. L'imprudenza di questa premessa principale è chiaramente evidente, eppure proprio questo filo oscuro di supposizione affrettata si estende attraverso l'intera rete di argomentazioni di Harnack-Loisy-Wellhausen. Sicuramente una tale fallacia non può sempre sfuggire all'occhio perspicace del Liberalismo; e non c'è da stupirsi che Bousset, in un discorso recente a Berlino, sembri preoccuparsi di preparare l'animo dei suoi uditori a un completo e definitivo abbandono, in una data non lontana, di ogni forma di storicismo. 

Nell'ammirevole e inestimabile libro appena citato, Harnack richiama l'attenzione in una nota a piè di pagina sul fatto, che forse qualche dubbioso potrebbe essere tentato di sfruttare, che questa fonte primitiva (Q) si interrompa prima della settimana della Passione! Può essere una certa soddisfazione per lo storico del dogma apprendere che esattamente a questo punto il suo presagio fosse vero e ispirato; sì, che ancor prima di essere pronunciato si fosse già realizzato. Durante più di vent'anni è sempre sembrato al presente scrittore che i “Detti" presentassero la più antica forma letteraria esistente di cui il culto di Gesù si rivestì, mentre prendeva gradualmente forma tra i settari ebrei meno ortodossi nelle cerchie religiose interne della Diaspora. Anche il simbolismo marciano gli sembrava un pensiero alquanto più tardo, e molto dell'apparente storicità appariva come un'invenzione trasparente, per visualizzare o drammatizzare “Detti” già correnti. Si sicuro la controprova di Wellhausen sembra fortissima, e il suo ragionamento filologico è sempre istruttivo e talvolta sconcertante; ma difficilmente può servire a superare definitivamente l'altra impressione totale. Però questa interessante questione della priorità relativa non sembra comportare conseguenze particolari con la sua risposta; forse non può nemmeno essere risolta in modo categorico. Poiché sia i “Detti” che la fonte proto-marciana si originarono gradualmente — nessuno può dire in quanti anni — può darsi, come ha ipotizzato Julicher, che siano in qualche misura contemporanei, ciascuno il più antico, ciascuno il più giovane. In ogni caso, deve colpire il lettore attento che l'intero ministero in Giudea non sembra andare a braccetto con quello galileo, ma sembra piuttosto un ripensamento, un'appendice. Questa sensazione è balenata spesso al presente scrittore, e anni prima di avere la fortuna di leggere il libro di Harnack è stata grandemente rafforzata dall'osservazione del fatto, su cui Harnack richiama l'attenzione, che la fonte dei Logoi non sa nulla della Passione. Per un po' di tempo non se ne è percepita l'importanza; ma successivamente, anche a rischio di essere considerato assurdo e impertinente, lo scrittore è stato costretto a considerare il fatto altamente significativo, poiché suggerisce distintamente, anche se non può provare, che la forma storica personale di cui il culto di Gesù è rivestito nei Vangeli ha subìto uno sviluppo graduale. Al primo posto sembrerebbe esserci stata la grande idea del Redentore, del Dio Salvatore. La redenzione, la salvezza, si riferiva all'ignoranza di Dio, al falso culto, all'idolatria nelle sue miriadi di forme. Era solo la Gnosi, la vera conoscenza di Dio, a poter operare la cura. E la conoscenza poteva essere introdotta, comunicata, diffusa soltanto da una dottrina. Per cui Gesù fu presentato all'inizio come il Dio guaritore (in Marco e nel Vangelo secondo gli Ebrei), e dorse ancor prima come il Maestro (nella fonte di Logoi Q). Inoltre, il circuito di questa attività di guarigione e di insegnamento (due aspetti equivalenti dello stesso culto) fu strettamente galileo: cioè, la Galilea dei Gentili fu scelta opportunamente come regione simbolica, dove dalla mezzanotte dell'ombra della morte sorse la luce gloriosa del culto tutto salvifico. Col tempo la maestosa dottrina, “la dottrina relativa al Gesù”, si diffuse, germogliando e spuntando come un nobile albero, sul quale furono innestati molti rami selvatici: molte proposizioni correlate e non correlate furono incorporate nel nascente corpo dottrinale e furono assimilate più o meno perfettamente. Tra queste c'era la nozione del mondo antico di un “Dio Morente”, che si fuse col pensiero platonico del Giusto crocifisso e con l'idea isaiana del Servo di Jahvé sofferente in modo espiatorio. Nel frattempo, il crescente allontanamento degli Ebrei suggerì che Gerusalemme, e solo Gerusalemme, fosse il luogo dove si sarebbe dovuto svolgere il commovente quinto atto di questo dramma del “più maestoso e più regale argomento”. Da qui sorse la settimana della Passione come il terribile culmine, anche se non originariamente previsto, e naturalmente la Resurrezione come necessario epilogo. Coerentemente, il fatto che Q non trovi posto per questo sublime finale non deve sconcertare nessuno, e si accorda perfettamente con la visione qui esposta del protocristianesimo, sebbene difficilmente o per nulla conciliabile con la visione finora prevalente. 

Nella sua preziosa edizione delle Odi di Salomone, l'infaticabile berlinese, pur lamentandosi del fatto che un “dilettante non autorizzato” abbia “disturbato la cristianità”, si rallegra comunque del fatto che le Odi non siano state pubblicate in precedenza, altrimenti il disturbatore le avrebbe certamente pervertite per i suoi usi empi. Un caso evidentemente di speciale provvidenza. Non è questa la sede per discutere quelle Odi oppure la questione dell'interpolazione cristiana; ma può essere lecito richiamare l'attenzione su un sillogismo in base al quale esse sono forzatamente inserite tra i testimoni del “Jesusbild” liberale. 
Harnack ammette e sottolinea che queste Odi ci scoprono una possibile fonte sia del pensiero e del temperamento, sia della forma di espressione, che si incontrano nelle Scritture giovannee. La grande importanza della scoperta di Harris è chiara a questo proposito; infatti, leggendo le Odi, sembra di muoversi nell'atmosfera del Quarto Vangelo. “Anche nei dettagli”, dice Harnack, “il 'giovanneo' sembra essere preparato in anticipo in queste Odi”. Però egli non vi trova il “Gesù che si presenta a noi nell'anima purificata delle Scritture: ossia, il Gesù storico”. Concesso. E cosa ne conclude Harnack? “La storicità e l'originalità di Gesù appaiono nuovamente confermate”. Un ragionamento notevole. Improvvisamente viene alla luce un libro di salmi da tempo scomparso, che attesta chiaramente l'esistenza di una forma finora insospettata di intenso individualismo religioso in tempi cristiani antichi o precristiani (dal 50 A.E.C. al 67 E.C.) in un ramo remoto del giudaismo. Su una cerchia di idee e di concezioni di Gesù (quella giovannea) questa scoperta inattesa mostra una luce quasi accecante; su un'altra (quella sinottica) getta appena un raggio; se ne deduce che su quest'ultima non può essere gettata nuova luce! “La storicità e l'originalità di Gesù appaiono nuovamente confermate”. Consideriamo il sillogismo che garantisce questa conclusione: 
Ciò che è attestato nel manoscritto appena pubblicato (come il pensiero e il sentimento delle Scritture giovannee) non può essere tenuto storico o originale degli evangelisti; 
Il purificato “profilo di Gesù” sinottico non è così attestato nel manoscritto; 
Perciò questo profilo può essere tenuto storico e originale (la sua “storicità e originalità sono nuovamente confermate”). 
Da due premesse negative si trae una conclusione positiva. Non è scritto così nei testi di logica approvati. Perché, domani potrebbe essere rinvenuto un altro testo di salmi di qualche altra setta, che potrebbe illuminare i sinottici in modo altrettanto brillante di quanto queste Odi hanno illuminato i testi giovannei. 
Questo porta a considerare la recentissima pubblicazione del dottor Schechter, Fragments of a Zadokite Work. Nonostante la grande preparazione e l'ingegno che egli ha profuso su questo libro misterioso, i suoi sigilli non sembrano ancora essere pienamente sciolti. Lo stesso scopritore lascia ampio spazio alle divergenze di opinione. Tuttavia, di una cosa possiamo essere sicuri: che le premature esposizioni di Margoliouth, che hanno cercato così ardentemente di trovare nel venerabile documento una qualche conferma dei pregiudizi prevalenti a favore della storicità di Gesù, sono irrimediabilmente fallite. Anzi, non è affatto facile prenderle seriamente. Identificare questi Zadokiti con i cristiani primitivi, anche quelli genuinamente ebrei, scoprire Gesù stesso nel “Maestro di giustizia” (ossia di esatta osservanza della Legge), ciò richiede davvero una critica coraggiosa. Anche le parti haggadiche, e ancor più quelle alachiche, di questo frammento si ribellano quasi ad ogni pagina a tale esegesi. Questa comunità, infatti, supera di gran lunga persino i Farisei nella severità del suo nomismo — ad esempio, è dichiarato (contro la regola rabbinica): “Se (una bestia) cade in una fossa o in un fosso, non la si può sollevare in giorno di Sabato......E se una persona cade in una pozza d'acqua o in un luogo di......non la si può tirare su con una scala o una corda o uno strumento”. Davvero questa è una giustizia che “supera la giustizia degli scribi e dei farisei” e forse Matteo 5:20 può far pensare a qualcosa del genere; ma che essa provenga da un Gesù storico o si sia manifestata nel proto-cristianesimo è del tutto impensabile. L'intera interpretazione di Margoliouth è così evidentemente distorta e fatta su misura che non c'è bisogno di soffermarsi di più su di essa. Con il rabbino Margolis possiamo essere certi che la data di origine del documento è decisamente precristiana (Jewish Comment, xxxiii, 18, 1). Possiamo anche accettare il giudizio di Schechter (pag. xxix): “Naturalmente tutta questa classe di pseudepigrapha è di suprema importanza per la storia del cristianesimo, che indubbiamente fu la consumazione di tutti gli sforzi settari che lo avevano preceduto, e deve aver assorbito tutti gli elementi ostili schierati contro il giudaismo ufficiale”. 
Questa scoperta interessante ci rivela una fase del settarismo ebraico quasi diametralmente opposta a quella rivelata nelle Odi di Salomone. Ora, questi due estremi formano l'intera sfera del giudaismo non ufficiale? O dobbiamo piuttosto credere che una ricca e folta crescita fiorì nella regione intermedia? Certamente questo regno intermedio era ampio, e sarebbe contro ogni precedente e ogni sana comprensione umana non assumervi la presenza di forme intermedie. A meno che l'occhio di falco e la mano spietata dell'antica Chiesa cattolica non abbiano fatto il loro lavoro fin troppo bene, possiamo aspettarci che le ricerche future facciano luce sui Sinottici. In ogni caso, perfino nel peggiore dei casi, l'assenza di tali testimonianze può marciare contro l'esistenza di tali sette e idee protocristiane solo nello stesso senso e nella stessa misura in cui i ben noti “anelli mancanti” smentiscono la dottrina generale dell'evoluzione con modifiche. 
L'autore sarà lieto di apprendere da ogni avversario che richiamerà la sua attenzione su eventuali errori di esposizione dei fatti o di ragionamento presenti in questo volume; non può infatti dubitare che tali lacune vi siano presenti, soprattutto in considerazione delle circostanze che hanno accompagnato sia la composizione che la pubblicazione dei suoi lavori critici. Ma nemmeno molte di queste potrebbero indebolire veramente la struttura generale del pensiero, proprio come un muro può rimanere ancora saldo e incrollabile nonostante la rimozione di diverse pietre fatiscenti. È il giudizio collettivo che deve infine prevalere, ed è alla formazione e alla giustificazione dello stesso che il lettore attento dedicherà la sua particolare attenzione. 
Non sembra necessario aggiungere che la più aspra polemica contro le opinioni di critici illustri non comporta affatto una svalutazione delle loro capacità o dei loro risultati. Proprio in quanto il miglior fiore all'occhiello della critica liberale, essi sono stati scelti come oggetto speciale di attacco, poiché permettono l'argomento a fortiori: se fanno queste cose all'albero verde, cosa si farà a quello secco? Se l'apprendimento e l'acume impareggiabili devono ancora lasciare irrisolto quasi tutto ciò che richiede una soluzione, che cosa c'è da sperare da qualsiasi altro sforzo lungo le stesse linee? Sicuramente l'errore non sta negli uomini, ma nei metodi, nei postulati con cui è stato affrontato il problema. Questa è la convinzione più profonda dell'autore, ed è proprio la percezione di questa necessità di una nuova ipotesi che lo ha spinto a scendere nell'arena contro specialisti assai più eruditi di lui. È  ogni giorno più evidente, infatti, che nessuna acutezza o erudizione potrà mai essere utile per derivare la propaganda protocristiana da un unico specifico punto focale, puramente umano, così come né la pazienza, né la conoscenza, né l'abilità matematica potranno mai bastare per trisecare un angolo o per quadrare un cerchio. Il presente è un caso dove la battaglia non è per i forti, dove i deboli possono confondere i potenti. 
Un recensore ben disposto di Der vorchristliche Jesus ha espresso l'opinione che il libro contenga le maggiori e le principali argomentazioni a disposizione dell'autore. Questo volume dovrebbe rivelare e correggere quell'errore. Non si supponga, tuttavia, che la faretra dell'autore sia con ciò svuotata. Al contrario, le prove non ancora prodotte gli sembrano sia abbondanti che convincenti.

“La Musa nutre per me le frecce più possenti”.

W. B. S.

New Orleans, 15 Aprile 1912. 


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