domenica 7 maggio 2023

Origini Sociali del CristianesimoLa religione romana

 (segue da qui)


La religione romana.

Di fronte a tutti questi sforzi ai quali si dedicavano i professionisti, veri o falsi, della sapienza, per far prevalere le loro opinioni tra le élite, la religione tradizionale continuava a imporsi sulle masse. Si è detto fin troppo spesso che quando il cristianesimo apparve, essa era moribonda. Faceva prova, al contrario, di una salute robusta. Essa doveva dominare, per secoli ancora, sulla città, e farne, in contrasto con la Chiesa cristiana, la grande cittadella del paganesimo.

All'inizio dell'era cristiana, i templi erano più numerosi che mai. Si ergevano non solo nei grandi centri, nel Campidoglio, nel Campo Marzio, ma attraverso i quartieri più umili, in tutti gli angoli della città. Vi si offrivano gli stessi sacrifici come in passato con lo stesso cerimoniale arcaico. Gruppi particolari, come quelli degli Arvali, dei Luperci, dei Saliani, erano incaricati della cura di alcuni santuari e godevano di un grande prestigio che avrebbero mantenuto fino alla fine del paganesimo. Ma l'organizzazione generale del culto pubblico era compito del Collegio sacerdotale. Quest'ultimo, la cui origine risale ai primi tempi di Roma, teneva un posto di rilievo nella vita dello Stato. I suoi membri si reclutavano dalle famiglie più nobili. L'imperatore stesso ne aveva la direzione. Portava il titolo di «Sommo Pontefice». Questo attributo religioso aveva per lui una tale importanza che Costantino stesso, dopo la sua conversione, non volle rinunciarvi. Dopo il crollo dell'Impero, il vescovo di Roma lo avrebbe ripreso presto per suo conto.

Il culto della famiglia andava di pari passo con quello dello Stato. In ogni casa si venerava il genio del Padrone, che vegliava sulla sua persona; i Lari, che avevano la custodia del Focolare, della casa intera, e dei suoi dintorni; i Penati, incaricati del penus, o dispensa, in altri termini del cibo. I loro compiti erano complementari. Così si trovavano strettamente associati. Per assicurarsi il loro favore continuo, si elargivano loro premure e si facevano loro modeste ma molteplici offerte, alle quali partecipava tutta la famiglia. 

Questo culto domestico si estendeva al di fuori. In tutti i crocevia si ergeva un altare in onore degli dei Lari. Il genio del padrone di casa cedeva il posto a quello dell'imperatore. Il cerimoniale d'uso era assicurato da un'Associazione di rappresentanti del quartiere, che era come una famiglia allargata.

Quella religione popolare era così viva che, molto tempo dopo la conversione di Costantino, mantenne la sua presa sulle masse. Ancora alla fine del IV° secolo, una legge di Teodosio proibiva di «accendere il fuoco in onore dei Lari, di fare libagioni di vino al Genio, di offrire profumi ai Penati, di accendere lampade, di bruciare incenso, di appendere ghirlande attorno ai loro altari». [3]

I vecchi culti, però, quale che fosse la loro popolarità, non bastavano alla folla. Avevano un carattere troppo esclusivamente rituale. Tutto si limitava ad uno scambio di servizi, una sorta di baratto tra gli uomini e gli Dèi. Il cuore aveva solo una parte molto ridotta. I Lari, i Penati, i Genii avevano troppa poca personalità perché si potesse stabilire tra loro e i loro clienti un legame intimo. Quanto ai grandi Dèi, che si celebravano in Campidoglio o altrove, apparivano troppo lontani e troppo distanti perché un uomo comune potesse nutrire a loro riguardo una vera devozione. Accettavano di vegliare sullo Stato solo nella stretta misura in cui si riusciva a conquistare il loro favore  con invocazioni o riti appropriati. Ma si disinteressavano, in generale, del destino degli individui. Da dove viene ognuno di noi? Perché siamo sulla terra? Quale sorte ci attende dopo la morte? Cosa va fatto per assicurarsi un futuro felice? Queste domande, che appassionavano tante anime religiose, erano estranee alla teologia ufficiale di Roma.

Nessuno, forse, ne avrebbe sofferto se avesse potuto vivere in isolamento. Ma man mano che lo Stato era divenuto più forte e aveva sottomesso nuovi popoli, si era sforzato di conciliarli e aveva fatto, per politica, buona accoglienza ai loro Dèi. Molti di questi ultimi avevano un tempio nella capitale. Vi erano serviti da ministri della loro nazionalità, che osservavano fedelmente i loro riti. Questi stranieri suscitavano la curiosità. Il loro culto sorprendeva all'inizio per la sua stranezza. Poi attirò la gente per la vita intensa che emanava, per i suoi canti, le sue danze, le sue processioni, infine e soprattutto, per la promessa di una felicità senza fine assicurata in questo mondo e nell'altro. Ci si avvicinava per vedere, ci si lasciava trattenere dall'esempio,  presto ci si era conquistati.

Queste conversioni si facevano tanto più facilmente in quanto non implicavano l'abbandono delle osservanze ancestrali. Si continuava ad adorare in pubblico gli Dèi capitolini e tutti i loro associati, in privato i Geni, i Lari e i Penati. Si era più fedeli a Roma e ad Augusto solo ampliando come loro il proprio Pantheon.


NOTE DEL CAPITOLO 9

[3] Cod. Teodosiano 16:10-20.

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