martedì 16 agosto 2022

L'APOSTOLO DI FRONTE AGLI APOSTOLIFLAVIO GIUSEPPE E I CRISTIANI

 (segue da qui)


II

FLAVIO GIUSEPPE E I CRISTIANI

Il silenzio di Giuseppe su Gesù sarebbe stato, da sé solo, un sufficiente argomento contro la realtà della sua carriera umana? A dire il vero, esso è tutt'al più un argomento di conversazione, diciamo un argomento da bar. Noi abbiamo, per contro, esposto molte volte che un completo silenzio sui cristiani si spiegherebbe meno facilmente. Gli storici che vedono in Gesù solo un uomo divinizzato dopo la sua morte ammetteranno che la Storia non ha trattenuto e non poteva trattenere i nomi di tutti gli agitatori che furono messi a morte in Giudea durante il mezzo secolo che precedette la distruzione di Gerusalemme; gli altri non avranno dunque da trionfare su questo silenzio. Ma la presenza di gruppi cristiani in Palestina e a Roma anteriormente all'anno 70 non sollevando alcun dubbio, bisognerebbe che abbiano avuto un'esistenza straordinariamente oscura perché uno storico del calibro di Giuseppe non abbia mai dovuto segnalarli.

Ci proponiamo, principalmente, di ricercare le menzioni che egli ha fatto dei cristiani e, secondariamente, di esaminare i pochi casi in cui, i cristiani avendo giocato un ruolo in vista, il suo silenzio può sembrare straordinario.

Le informazioni di Giuseppe potevano venirgli in tre modi:

dapprima, da fonti scritte;

in seguito, da informazioni verbali sugli eventi che si erano compiuti poco prima della sua nascita, o durante la sua infanzia e più tardi, ma al di fuori della sua presenza

infine, dai suoi ricordi personali, per quelli ai quali aveva assistito.

Di queste tre modalità di informazione, Giuseppe preferisce incontestabilmente le fonti scritte. Giuseppe è soprattutto l'uomo delle fonti; ne fa un tale uso che si è potuto stabilire che ne aveva utilizzate persino per raccontare gli eventi ai quali aveva assistito. È così che, per gli eventi che hanno preceduto la rivolta, le Antichità sono spesso più ricche della Guerra, per la ragione che scrivendo le Antichità egli ha potuto utilizzare fonti che non possedeva scrivendo la Guerra.

Per gli eventi contemporanei di cui non era stato testimone, e per quelli che si erano svolti durante la sua infanzia e durante gli anni anteriori alla sua nascita, è evidente che sapeva ciò che era di notorietà pubblica attorno a lui, e che ne sapeva anche un po' di più; è egualmente certo che quella conoscenza generale degli eventi contemporanei doveva, nel racconto che ne ha fatto, aggiungere il suo contributo a quello delle fonti scritte; ma quanto alle informazioni particolari che avrebbe potuto ricevere da persone specialmente informate, è un genere di informazione che sembra essere stato estraneo alla mentalità di Giuseppe; la storia, per lui, si fa ricopiando o sistemando ciò che è stato già scritto; nulla nella sua opera dà l'impressione che egli abbia mai interrogato testimoni, raccolto ricordi vissuti, in una parola, aperto un'inchiesta.

I suoi ricordi personali, al contrario, giocano un ruolo, e la cosa si spiega psicologicamente. Per utilizzare i suoi propri ricordi non è affatto necessario aprire un'inchiesta; l'inchiesta è la cosa alla quale Giuseppe non ha mai pensato; ma quando scrive, mentre colleziona le sue fonti, i suoi ricordi personali intervengono naturalmente... Non ha inoltre la sua propria causa da difendere? 

Ma i ricordi personali giocano un ruolo quando, tra due eventi, ce n'è uno al quale ha assistito e che, proprio perciò, assume un'importanza maggiore, e un altro al quale non ha assistito. Conseguenza: tende a dare la preferenza a quest'ultimo rispetto a quello, a magnificare l'uno e a sminuire l'altro, e persino a tacere su quello per soffermarsi su questo. Proporremo presto alcuni esempi di questo fatto e ne spiegheremo la notevole importanza.

Riassumiamoci attribuendo ai ricordi personali di Giuseppe un certo ruolo nella composizione dei suoi libri; ammettiamo l'influenza di ciò che si potrebbe chiamare la notorietà pubblica; scartiamo ogni idea di inchiesta e, in primo piano, mettiamo le fonti scritte.


I tre testi concernenti certamente il cristianesimo che si trovano in Giuseppe sono quelli su Gesù, su Giovanni Battista e su Giacomo il Fratello del Signore.

Quanto al testo relativo a Gesù, Antichità 18:3, 3, non ricominceremo, dopo mille altre, la discussione; la questione sembra risolta e l'inautenticità totale provata, fin dalla grande discussione di Schürer, nel volume I della sua Histoire, 3° edizione, pagina 544, e non si vede perché si debba riprendere l'esame di una tesi alla quale si sono allineati similmente, tra i protestanti, Reuss, Nouvelle Revue de Théologie di Strasburgo, 1859, e, tra i cattolici, Monsignor Batiffol, Orpheus et l'Evangile. Pressappoco solo Theodore Reinach, Revue des Etudes Juives, 1897, ha ripreso la tesi dell'autenticità parziale; non vediamoci però una protesta del giudaismo contro la tesi protestante e cattolica, Salomon Reinach, Orpheus 8:28, essendo al contrario partigiano intransigente dell'inautenticità. 

Il testo relativo a Giovanni Battista, Antichità 18:5, tutto al contrario, ha nel suo insieme l'aspetto dell'autenticità e, salvo alcune riserve, della storicità.

Su Giacomo il Fratello del Signore, Giuseppe si esprime come segue (Antichità 20:9, 1; oppure: 20:3), dopo aver raccontato come, alla morte di Festo, Albino fu nominato procuratore della Giudea, verso l'anno 62:

«Anano (il sommo sacerdote) vide nella morte di Festo un'occasione favorevole: mentre Albino era ancora in viaggio, egli riunì un'assemblea di giudici, fece comparire dinanzi a loro il fratello di Gesù detto il Cristo, chiamato Giacomo, con alcuni altri, accusati come lui di trasgredire la legge, e li condannò ad essere lapidati. Tutti gli animi moderati che si trovavano nella città, e gli stretti osservanti delle leggi, videro questo eccesso con preoccupazione»

Il passo è citato integralmente da Eusebio (Storia Ecclesiastica 2:23, 21-24).

Una parola in questo testo risalta all'occhio come un'interpolazione e, diciamo, come un'interpolazione cinica. Che Giuseppe abbia lui stesso dichiarato che Gesù era chiamato il «cristo» è un'idea che ha potuto venire in mente solo ad un falsario molto credulone. È evidente che, riportando il testo il nome di Giacomo, il copista ha voluto specificare che si trattava proprio di Giacomo il Fratello del Signore; e ha creduto di farlo nello stile di Giuseppe.

Per contro l'interpolazione dei dettagli proverebbe l'autenticità dell'insieme.

Ma Origene (Contro Celso 1:47) sembra conoscere un altro passo dove Giuseppe avrebbe ancora parlato della morte di Giacomo e avrebbe detto che la rovina di Gerusalemme ne fu il castigo.

Questo secondo passo manca nel testo di Giuseppe che abbiamo riprodotto. Eccolo (ibid., 19-20):

«Ecco ciò che Egesippo racconta per esteso, concordando, del resto, con Clemente. Giacomo era così ammirevole e così lodato da tutti per la sua rettitudine, che i più sensibili tra i Giudei pensarono che il suo martirio fosse la causa dell'assedio che seguì immediatamente: credettero che una tale calamità non avesse altra ragione che questo sacrilegio audace». Origene non esita del resto a concordare con questa opinione e lo testimonia in questi termini:

«Queste disgrazie», scrive, «capitarono ai Giudei a causa del crimine che essi commisero contro Giacomo il Giusto; egli era fratello di Gesù chiamato il Cristo, e i Giudei lo misero a morte malgrado la sua giustizia eminente».

Eusebio continua:

«Egli racconta anche la sua morte nel ventesimo libro delle sue Antichità. Ecco le sue parole...». Segue il testo che abbiamo citato.

Si nota, in questo secondo brano come nel primo, dopo il nome di Giacomo, che vi è chiamato il Giusto, l'interpolazione cristiana: il fratello di Gesù, colui  chiamato il Cristo.

Le informazioni che dà Giuseppe su Giacomo e i suoi compagni sono duplici:

da una parte, Giacomo e i suoi compagni sono pia gente; ciò emerge non solo dal primo testo citato da Eusebio, ma, nel testo classico, dall'indignazione che la loro condanna causa ai giudei onesti; 

d'altra parte, essi sono accusati di trasgredire la legge mosaica e sono particolarmente odiosi ai Sadducei.

A ciò sembrano limitarsi, a prima vista, le informazioni che Giuseppe ci dà sui cristiani; 

come eventi in cui hanno giocato un ruolo: la morte di Giacomo;

come descrizione della setta: la loro santità e l'accusa di trasgredire la legge mosaica.

È tutto?

Evidentemente Giuseppe e le fonti di Giuseppe hanno potuto conoscere i cristiani solo in due modi:

o come semplici giudei o giudaizzanti, senza menzione speciale di una setta; è il caso di Giacomo, il Fratello del Signore; si noterà che egli non è rappresentato in alcun modo come affiliato ad una setta determinata; Giuseppe e le sue fonti avrebbero potuto conoscere Paolo allo stesso modo e parlarne come di un giudeo tra i giudei, senza menzionare e persino senza conoscere che fosse altra cosa;

oppure come affiliati alla setta cristiana, e, in questo caso, solo sotto i nomi allora usati per designarla, la cosa è troppo evidente. In Palestina, Giuseppe li avrebbe conosciuti come Nazareni o come Esseni, o sotto tutt'altro nome che avrebbero potuto portare e che noi ignoriamo; a Roma, è molto più probabile che li avrebbe conosciuti come Christiani, il solo nome che portarono lì; le sue fonti romane, ancor meno di lui, non avrebbero potuto conoscerli sotto i loro nomi aramaici.

Notiamo che al suo passaggio ad Alessandria durante la guerra, non poté sentirne parlare,  il cristianesimo non essendo probabilmente ancora penetrato in quella data. Quanto agli eventi della propaganda cristiana in Asia Minore e in Grecia, non si concepisce che Giuseppe abbia potuto conoscerli o, perlomeno, interessarsene. È quindi sui Nazareni, o gli Esseni, in Palestina, e sui Christiani a Roma, che Giuseppe avrebbe potuto raccogliere informazioni.


Quali sono gli eventi, oltre alla morte di Giacomo il Fratello del Signore, in cui la setta ha giocato un ruolo e che avrebbero potuto attirare la sua attenzione?

In Palestina.

Dapprima, intorno all'anno 27, la morte di Giovanni Battista, anteriore di circa diciassette anni alla nascita di Giuseppe.

Poco dopo, mettiamo, se si vuole, la morte di Gesù.

In seguito la morte di Stefano.

Poi, una decina d'anni dopo, tra il 41 e il 44, la morte di Giacomo, figlio di Zebedeo.

Poco più di una dozzina di anni passano, durante i quali non notiamo alcun evento, per quanto minimo fosse; la riunione di Gerusalemme raccontata dagli Atti e dall'epistola ai Galati è evidentemente un evento dal punto di vista cristiano; non lo è dal punto di vista di Giuseppe.

Ed eccoci al tafferuglio che seguì l'arrivo di Paolo a Gerusalemme, ad una data che i critici collocano tra il 54 e il 58. La vicenda si svolge durante le feste della Pentecoste. I nemici di Paolo sollevano contro di lui il popolo, proprio sotto il pretesto che doveva servire in seguito all'arresto di Giacomo; lo si accusa di trasgredire la legge mosaica; si aggiunge che ha profanato il tempio. Tumulto. Il tribuno della coorte raduna i soldati e si impadronisce di Paolo. La rivolta continua;  si vuole sgozzare Paolo. Infine il tribuno lo fa condurre alla fortezza e, dopo episodi più o meno storici, lo fa condurre a Cesarea, dove il procuratore Felice lo trattiene prigioniero.

Alcuni anni passano senza che troviamo qualcosa da segnalare; e arriviamo, intorno al 62, alla morte di Giacomo.

Troviamo dunque, tra la morte di Giovanni Battista e l'anno 66, data dell'insurrezione, i sei eventi seguenti:

intorno all'anno 27, la morte di Giovanni Battista;

poi, morte di Gesù;

poi,  morte di Stefano;

tra il 41 e il 44, la morte di Giacomo, figlio di Zebedeo; 

tra il 54 e il 58, il tafferuglio di Paolo;

intorno al 62, la morte di Giacomo il Fratello del Signore, e dei suoi compagni.

Non cercheremo perché Giuseppe o le sue fonti tacciono sulle morti tragiche di Gesù, di Stefano e di Giacomo figlio di Zebedeo; passeremo ai due eventi di cui Giuseppe è stato contemporaneo, il tafferuglio di Paolo e la morte di Giacomo il Fratello del Signore, e ci domanderemo:

Tra questi due eventi di importanza e di rilievo eguali, perché il primo è omesso, mentre il secondo è raccontato?

Risponderemo:

Perché Giuseppe è stato il testimone oculare del secondo e non lo è stato del primo, — e quel fatto porterà alla cronologia di Paolo un contributo che, senza avere un valore di certezza, avrà la sua parte di probabilità.

Prima di venire agli eventi che si sono svolti a Roma, ricordiamo quelli che si sono svolti nella parte orientale del bacino del Mediterraneo.


L'arresto di Paolo a Gerusalemme. — Si sa che gli studiosi hanno tentato di fissare la cronologia paolina con l'aiuto di sincronismi presi dalla storia pagana. L'editto di Claudio, menzionato da Svetonio, gli Atti, Dione Cassio e Orosio, in primo luogo, e, in secondo luogo, il richiamo di Felice, menzionato da Giuseppe e Tacito, avrebbero potuto servire a datare, l'uno, il momento del primo arrivo di Paolo a Corinto, l'altro, il momento del suo imbarco per Roma; sfortunatamente, e malgrado gli sforzi di Harnack per fissare per sempre nel 54 il richiamo di Felice, gli studiosi non hanno potuto mettersi d'accordo sulla data di nessuno di questi due eventi. La scoperta dell'iscrizione di Delfi da parte di Bourguet nel 1905 ha fornito un terzo sincronismo, quello del proconsolato di Gallione in Acaia; ma per una persistenza di cattiva sorte, esso fornisce la data di questo proconsolato solo uno o due anni dopo, e non fa che aggiungere una verosimiglianza ad alcune delle indicazioni precedentemente conosciute.

Secondo l'opinione più generalmente accettata, [1] dall'iscrizione risulta che Gallione ha esercitato la sua carica in Acaia dalla primavera del 51 alla primavera del 52; si sa che gli anni di proconsolato si contano da primavera a primavera o, a rigore, da estate a estate. Tuttavia, alcuni studiosi posticipano quella datazione di un anno, mentre altri l'anticipano di altrettanto. Non si vede, però, come sia possibile prescindere da queste tre soluzioni: 50-51, 51-52, 52-53, la seconda la più generalmente accettata.

D'altra parte, gli Atti 18:11 fissano a diciotto mesi il soggiorno di Paolo a Corinto; dal confronto dei vari racconti, si può dedurre che il suo arrivo ebbe luogo alla fine dell'inverno o all'inizio della primavera (diciamo alla primavera, per abbreviare); la sua partenza deve quindi collocarsi alla fine della seconda estate o all'inizio del secondo autunno (abbreviamo dicendo all'autunno).

Ora, gli Atti 18:12-17 raccontano che, mentre si trovava a Corinto, Paolo comparve davanti a Gallione, allora proconsole d'Acaia. Anche se non si credesse alla storicità della comparsa di Paolo davanti a Gallione, si dovrebbe ammettere che il narratore sapesse che Paolo si era trovato a Corinto nello stesso tempo di Gallione, e il sincronismo conserverebbe il suo valore.  

Secondo quale dei tre anni che si assegnerà al proconsolato di Gallione, si dovrà quindi dire che Paolo è comparso davanti a lui tra la primavera del 50 e la primavera del 51, o tra la primavera del 51 e la primavera del 52 (versione più probabile), oppure tra la primavera del 52 e la primavera del 53.

Inoltre, gli Atti 18:18 specificano che Paolo dimorò a Corinto «un certo numero di giorni» dopo l'incidente; l'espressione «un certo numero di giorni» rende abbastanza esattamente ἡμέρας ἱκανὰς. Il suo soggiorno totale a Corinto essendo stato di diciotto mesi, è facile concludere che la sua comparsa davanti a Gallione deve essere collocata durante la seconda metà del suo soggiorno a Corinto, vale a dire infine alla primavera o all'estate che ha preceduto la sua partenza. 

Le varie date che abbiamo appena enumerato come quelle in cui Paolo ha potuto comparire davanti a Gallione riconducono  quindi l'arrivo di Paolo a Corinto ad una delle seguenti quattro date: primavera del 49, primavera del 50, primavera del 51, primavera del 52.

Un altro dato è quello di Atti 18:2. Vi è detto che quando Paolo arrivò a Corinto, Aquila, cacciato da Roma per l'editto di Claudio che ne aveva espulso i Giudei, era arrivato proprio a Corinto προσφάτως, che significa «da poco» e anche «da pochissimo tempo», «molto recentemente». Se si conoscesse in maniera certa la data dell'editto di Claudio, questo testo da solo basterebbe a datare l'arrivo di Paolo a Corinto. Sfortunatamente né Svetonio (Claudio 25), né Dione Cassio (Hist. 60:6) precisano quella data; solo Orosio (Hist. 7:6,15) lo fissa al nono anno di Claudio, vale a dire all'anno trascorso tra il 25 gennaio 49 e il 25 gennaio 50; ma quella datazione non si impose fino a questi tempi recenti con sufficiente certezza da raccogliere l'unanimità degli studiosi, e Schürer poteva dichiararla solo molto probabile; altri studiosi, rifiutando di tenerne conto, la riportavano all'anno 50-51 o all'anno 52-53. I testi degli Atti, obbligando a collocare l'arrivo di Aquila e Paolo alla primavera, obbligano a collocare l'editto durante l'inverno che lo ha preceduto, vale a dire o il gennaio del 49 (passata la data del 25), o il gennaio del 50 (prima della data del 25).

Combiniamo ora i dati relativi alla comparsa davanti a Gallione con i dati relativi all'editto di Claudio; otterremo le seguenti quattro ipotesi:

Essendo dati:

il tempo del viaggio da Roma a Corinto;

il fatto che Aquila era arrivato «da poco» a Corinto, alla primavera,

siamo costretti a collocare la sua partenza da Roma in un mese di gennaio o di febbraio,

 o un po' prima del 25 gennaio, o un po' dopo il 25 o all'inizio di febbraio,

 il che riporta l'editto di Claudio o all'inizio del gennaio del 50, o alla fine del gennaio del 49.


1° ipotesi:

gennaio del 49 (passata la data del 25): editto di Claudio;

primavera del 49: arrivo a Corinto di Aquila, poi di Paolo;

primavera o estate del 50: comparsa davanti a Gallione;

autunno del 50: partenza di Paolo.

2° ipotesi:

gennaio del 50 (prima della data del 25): editto di Claudio;

primavera del 50: arrivo di Paolo;

primavera o estate del 51: comparsa;

autunno del 51: partenza.

3° ipotesi:

inverno del 50-51: editto di Claudio;

primavera del 51: arrivo di Paolo;

primavera o estate del 52: comparsa;

autunno del 52: partenza.

4° ipotesi:

inverno del 51-52: editto di Claudio;

primavera del 52: arrivo di Paolo; 

primavera o estate del 53: comparsa;

autunno del 53: partenza.

La e la sono eliminate dai dati di Orosio. Restano le prime due.

Prima di far intervenire il sincronismo di Giuseppe che vogliamo proporre, e senza prescindere dai dati che abbiamo appena studiato, diciamo: che le probabilità sembrano scartare la prima di queste ipotesi (benché sia quella di Harnack) se accettiamo la data del 51-52 come la più probabile (ed è la più generalmente accettata) per il proconsolato di Gallione, e, che essa è anche più conforme ai dati della vita di Paolo.

Passiamo, in effetti, agli eventi della vita di Paolo che si sono svolti tra la sua partenza da Corinto e il suo arrivo a Gerusalemme.

Le diverse cronologie che sono state stabilite fissano la durata di questi eventi: le une a cinque anni (sistema Jacquier), le altre a sei anni (sistema Goguel). 

Per collocare ad ogni costo nel 54 la partenza di Felice, Harnack è obbligato a violentare ancora una volta la vita di Paolo, comprimendo questi eventi in quattro anni, contrariamente ad ogni probabilità, nel modo seguente:

50: partenza da Corinto;

inverno  del 50-autunno del 53: soggiorno a Efeso;

Inverno del 53-54: secondo soggiorno a Corinto;

Pentecoste del 54: arresto a Gerusalemme.

Una durata di cinque anni, combinata con la nostra seconda ipotesi, darebbe la tabella seguente:

Soluzione n° 1.

autunno del 51: partenza da Corinto;

inverno del 51-52: ad Antiochia;

i tre inverni successivi: a Efeso;

inverno del 55-56: secondo soggiorno a Corinto;

Pentecoste del 56: arresto a Gerusalemme.

Combinata con la nostra terza ipotesi, la durata di cinque anni darebbe la tabella seguente:

Soluzione n° 2.

autunno del 52: partenza da Corinto;

inverno del 52-53: ad Antiochia;

i tre inverni successivi: ad Efeso;

inverno del 56-57: secondo soggiorno a Corinto;

Pentecoste del 57: arresto a Gerusalemme.


Infine, una durata di sei anni (sistema Goguel), combinata con la nostra seconda ipotesi, darebbe la tabella seguente:

Soluzione n° 3.

autunno del 51: partenza da Corinto;

inverno del 51-52: ad Antiochia;

53-53: da Antiochia a Efeso;

i tre inverni seguenti: a Efeso;

inverno del 56-57: secondo soggiorno a Corinto;

Pentecoste del 57: arresto a Gerusalemme.

Quella durata di sei anni sembra eccessiva, non giustificando affatto in particolare la durata di un anno attribuita al viaggio da Antiochia ad Efeso; non si può, tuttavia, respingerla senza altra cerimonia...

La soluzione n° 1, stabilita secondo l'ipotesi più probabile, è essa stessa la più probabile; ma le altre due soluzioni restano possibili. La data della partenza di Felice risolverebbe la difficoltà, se fosse perfettamente fissata: in mancanza di ciò, vediamo se i sincronismi di Giuseppe non possano fornire un'indicazione.


Stabiliamo una piccola tabella della vita di Giuseppe:

37: nascita;

50-53: è studente a Gerusalemme; si istruisce sulle sette;

53-56: nel deserto con Banno;

57-63: vita pubblica a Gerusalemme;

63-66: a Roma;

66: ritorno in Palestina.

L'anno 56 è l'ultimo dei tre anni che Giuseppe passa alla scuola di Banno, nella regione desertica, fuori Gerusalemme. Quando è tornato a Gerusalemme? Probabilmente prima dell'inverno, vale a dire alla fine dell'anno. In ogni caso, non era rientrato al momento della Pentecoste, la quale si colloca all'inizio dell'estate.

Giuseppe non ha dunque assistito agli eventi che si sono svolti durante le feste della Pentecoste dell'anno 56.

Per contro, egli era a Gerusalemme durante gli anni 57 e 58; è stato quindi presente alle feste della Pentecoste degli anni 57 e 58; avrebbe assistito agli eventi che avrebbero potuto verificarsi.

Se non parla del tafferuglio di Paolo, non lo si può affermare, ma supporre che sia perché quel tafferuglio si è verificato o nell'anno 56, o nell'anno 55, o persino nell'anno 54. Ha potuto sentirne parlare al suo ritorno, ma la cosa raccontata non poteva avere, ai suoi occhi, l'importanza della cosa vista; e, siccome non era dopo tutto che un evento secondario, si spiega che, anche se lo ha conosciuto, lo abbia passato sotto silenzio.

Riteniamo quindi che il silenzio di Giuseppe sul tafferuglio del Tempio e sull'arresto di Paolo porti non una prova, ma una presunzione che questi eventi si siano svolti mentre egli non era a Gerusalemme, vale a dire al più tardi alla Pentecoste del 56.

Unendo questi tre sincronismi:

editto di Claudio: inverno del 49-50;

proconsolato di Gallione: 51-52;

assenza di Giuseppe: 54-55-56.

stabiliamo la tabella seguente:

inverno del 49-50: editto di Claudio;

primavera del 50: arrivo di Paolo a Corinto;

primavera del 51: arrivo di Gallione;

autunno del 51: partenza di Paolo;

inverno del 51-52: soggiorno ad Antiochia;

primavera del 52-primavera del 55: soggiorno ad Efeso;

inverno del 55-56: secondo soggiorno a Corinto;

Pentecoste 56: arresto a Gerusalemme.


A Roma.

Veniamo ora agli eventi della storia del cristianesimo che si sono svolti a Roma e che Giuseppe avrebbe potuto raccontare. Ne scorgiamo quattro:

le agitazioni messianiche che hanno preceduto e provocato l'editto di Claudio dell'anno 49, di cui abbiamo parlato;

il processo di Paolo, che il nostro sistema cronologico ci fa collocare nel 59-61;

l'incendio di Roma nel luglio del 64 e la «persecuzione» dei cristiani che ne seguì.


Abbiamo parlato più sopra della data dell'editto di Claudio, senza entrare in altri dettagli. Il testo di Svetonio ne riserva poche righe:

«Claudio espulse da Roma i Giudei che, sotto l'impulso di Cresto, impulsore Chresto, causavano tumulti» (Claudio 25).

Noi interpretiamo, conformemente al significato generalmente accettato:

«Claudio cacciò da Roma i Giudei che erano in fermento al seguito di agitazioni messianiche, vale a dire al seguito dell'arrivo di uno o più propagandisti cristiani».

Si sa che «Chrestus» è una forma spesso impiegata per «Christus», come «Chrestianus» per «Christianus»; abbiamo egualmente notato che il nome Christus (o Chrestus) era diventato molto rapidamente, nel mondo che non parlava aramaico, il nome comune di Gesù e vi era molto più impiegato del nome stesso di Gesù, essendo «Gesù» un nome di origine semitica, mentre «Christus» (o «Chrestus») era un nome di origine greca. Non si deve quindi cercare nel Chrestus o Christus di Svetonio il nome di un agitatore che avrebbe operato a Roma, ma il nome del Cristo stesso in quanto oggetto o causa dell'agitazione. Questa interpretazione è peraltro confermata dal testo di Atti 18:2, di cui abbiamo parlato poco fa; questo testo, per la verità, non dice che l'agitazione messianica sia stata il motivo dell'espulsione; ma nomina, tra gli ebrei espulsi, due cristiani, Aquila e sua moglie Priscilla, il che implica che il cristianesimo fosse coinvolto in qualche modo in quell'affare.

L'evento, infine, rientra perfettamente nel contesto della storia del cristianesimo, come noi la conosciamo dal libro degli Atti. Quest'ultimo fa, in effetti, della predicazione ad Antiochia, intorno all'anno 44, il punto di partenza della propagazione del cristianesimo nei paesi greco-romani. Immediatamente dopo gli eventi raccontati in 11:19-30, Paolo, dapprima accompagnato da Barnaba, parte in missione per Cipro, poi per l'Asia Minore. Che altri propagandisti si siano recati a Roma è proprio quello che implicano l'editto di Claudio e l'episodio di Aquila e di Priscilla; è anche quello che conferma il testo degli Atti 28:14-15, appartenente al molto autentico Diario di Viaggio, che mostra Paolo, al suo arrivo in Italia, dieci anni più tardi nel 59, ricevuto dai «fratelli» stabiliti a Pozzuoli e da altri venuti da Roma per incontrarlo, ma che lo conoscevano solo di nome.

Si spiegano dunque gli eventi.

Poco dopo l'anno 44, nello stesso tempo e nello stesso modo in cui Paolo andò a predicare il Cristo tra gli ebrei d'Asia Minore e di Grecia, uno o più cristiani sarebbero andati a predicare il Cristo tra gli ebrei di Roma; quella predicazione avrebbe suscitato, tra gli ebrei di Roma, gli stessi tumulti di quella di Paolo tra gli ebrei d'Asia Minore e di Grecia; la polizia sarebbe intervenuta e, sentendo dire che questi disordini erano causati dalla predicazione di Christus, avrebbe preso Christus, senza spingere più oltre l'inchiesta, per l'agitatore e, con la decisione che le si riconosce, avrebbe proceduto all'espulsione di tutti i perturbatori, ebrei cristianizzanti ed ebrei ortodossi. Non dimentichiamo che a quella data nessun pagano distingue gli uni dagli altri.

Tre quarti di secolo più tardi, Svetonio, trovando una menzione dell'incidente negli archivi della città o nel racconto di uno storico contemporaneo, avrebbe riprodotto quella menzione puramente e semplicemente, senza cercare altra informazione sul Chrestus di cui essa gli forniva il nome.

L'autenticità e la storicità dell'informazione di Svetonio sembrano al di sopra di ogni sospetto; la confusione stessa che vi è commessa sul nome di Chrestus è una prova della sua sincerità.

Noi conosciamo i nomi dei propagandisti che, poco dopo l'anno 44, andarono a portare il nome di Cristo in Asia Minore: questi furono Paolo e Barnaba. Quale è il nome o quali sono i nomi del propagandista o dei propagandisti che si recarono a Roma nella stessa epoca, o poco dopo, e le cui attività provocarono l'editto di Claudio nell'anno 49 ?

I testi ce ne forniscono due: Simon Pietro e Simon Mago, che per evitare ogni confusione chiameremo Simone di Gitton.

Verificando i dati relativi a questi due personaggi, esamineremo allo stesso tempo la natura delle agitazioni messianiche che avevano portato all'espulsione dell'anno 49.

Guignebert ha concluso, dopo un'analisi molto attenta dei testi, per la non-venuta di Pietro a Roma; ma ha dovuto ammettere che la maggioranza dei critici, anche dei critici protestanti e dei critici indipendenti, fosse attualmente di un avviso contrario. Harnack, ad esempio, ha dichiarato a più riprese che considera certo il soggiorno di Pietro a Roma. 

La tradizione è, infatti, universalmente accettata dalla metà del secondo secolo; anteriormente a quella data, essa è non affermata esplicitamente, ma confermata implicitamente da più testi:

dapprima la prima epistola di Pietro, per il fatto che, in 5:13, essa si fa risalire a Babilonia, vale a dire a Roma; è evidente che se l'epistola non è autentica, il fatto che il falsario la faccia risalire a Roma prova che costui sapesse che Pietro era venuto a Roma;

in seguito, Clemente di Roma, 1 Corinzi 5:6;

poi Ignazio, Romani 4;

infine, Papia, in Storia Ecclesiastica 2:15, 3.


Il soggiorno di Simone di Gitton a Roma è attestato da Giustino, 1 Apologia 26:2 e 56:1, e Dialogo 120:6. Ma, se il testo di Giustino è conosciutissimo, non mi sembra che sia stato sufficientemente chiarito. Quando lo si esamina da vicino, si vede che esso poggia, da una parte, su una tradizione propria di Roma e, d'altra parte, su un'identificazione che è, al contrario, il fatto personale di Giustino.

La tradizione romana raccolta da Giustino conosce la venuta a Roma, sotto il regno di Claudio, di un mago o, come si diceva allora, di un ciarlatano, vale a dire di un operatore di miracoli, il quale era cristiano e si chiamava Simone; ma ignora se questo Simone sia samaritano o ebreo. Per convincersene basta rileggere attentamente i testi:

1 Apologia 26:2: Il samaritano Simone di Gitton viene a Roma; vi esercita la magia; è adorato come un dio; gli si erige una statua; tutti sanno che la storia di quella statua è un grossolano fraintendimento di Giustino;

ibid. 3: i Samaritani lo adorano così come Elena;

ibid. 4: è il maestro di Menandro;

ibid. 6: tutti questi eretici sono chiamati cristiani;

ibid. 8: legge il Syntagma;

56:6: Simone il Samaritano è mago;

ibid. 2: ripresa di 26:2;

ibid. 4: si deve distruggere la statua;

2 Apologia 15:1: ripetizione senza interesse; forse interpolata;

Dialogo 120:6: informazioni puramente samaritane; nulla su Roma.

Si vede in questi testi che la tradizione romana sa solo una cosa: un mago cristiano di nome Simone viene a Roma e vi fa dei prodigi.

Ma Giustino vuole saperne di più; egli cerca chi sia questo Simone; trova proprio negli Atti la storia di un Simone, mago samaritano, cristiano anche lui, e lo identifica al Simone di Roma; aggiunge solo un tratto al racconto degli Atti: il luogo di nascita del Simone samaritano, Gitton, il che prova che il Simone samaritano aveva la sua leggenda in Palestina all'epoca di Giustino. Ma questo è tutto ciò che Giustino sa di preciso su colui che che è suo compatriota. Abbiamo mostrato che, benché nato a Sichem, Giustino non sa pressappoco nulla della Samaria semitica e che, a dire il vero, non è un samaritano ma un pagano, un greco nato in Samaria, il che è del tutto diverso. Quasi tutto ciò che sa della Samaria semitica lo ha appreso dopo la sua conversazione a Efeso e altrove. Su Simone non possiede altre informazioni personali e vissute che queste: l'esistenza della setta e la patria del suo fondatore; egli dipende, per il resto, dagli Atti degli Apostoli e dalle dicerie d'Asia Minore o altri centri cristiani.

Nulla prova quindi che l'identificazione di Giustino sia giusta. Alcun testo al di fuori del suo conferma la venuta del Simone samaritano a Roma; tutti i testi successivi derivano da lui. Detto altrimenti, nessun testo dà all'identificazione di Giustino il minimo punto di appoggio. Quanto alla cattiva reputazione del Simone romano, essa gli è venuta proprio perché è stato identificato con il Samaritano; nessun testo, a parte Giustino e quelli che ne dipendono, fa di questo Simone di Roma un cattivo cristiano.

Se l'identificazione di questo Simone con il Simone samaritano è una fantasia esegetica di Giustino, per contro l'identificazione del mago di Roma con Simon Pietro potrebbe appoggiarsi su un certo numero di fatti:

Simon Pietro era specialmente, nel gruppo dei primi cristiani, l'operatore di miracoli, vale a dire, per parlare senza precauzioni oratorie, il ciarlatano e il mago; basta leggere i primi capitoli degli Atti per vedere che la sua specialità è il miracolo. Paolo fa miracoli solo eccezionalmente; Giacomo non ne fa; gli altri non ne fanno minimamente; Pietro ne fa costantemente; non si può dubitare che abbia esercitato la sua arte a Roma come altrove. Ognuno sa che Roma era il punto di ritrovo di tutti i taumaturghi del mondo; essi vi erano nel contempo, ciò è umanissimo, estremamente ricercati e abominevolmente disprezzati; il miracolo era, a Roma, tra tutti i mestieri, uno dei più lucrosi e dei più infami. Simon Pietro è un operatore di miracoli, vale a dire un ciarlatano, vale a dire un mago; vi sono grandi probabilità che egli sia Simon Mago. 

Seconda ragione che conferma l'identificazione: la venuta di Simon Pietro a Roma è attestata come abbiamo appena visto, e quella di Simone di Gitton non lo è; 

il poco che la tradizione sa del Simone di Roma concorda, salvo l'alterazione peggiorativa del personaggio, con quanto dice del soggiorno di Simon Pietro in quella città;

tutte le leggende successive sul Simone romano e sulla sua lotta con Simon Pietro si spiegano con l'identificazione iniziale di Giustino e non hanno altro supporto, ogni scrittore non facendo che riprendere e abbellire il suo predecessore, ciò sin da Ireneo.

Quel che ne sia, che questo Simon Mago sia Simone di Gitton o Simon Pietro, resta nondimeno il fatto che l'agitazione messianica che suscitò l'espulsione del 49 è un'agitazione di messianisti, ma di messianisti ciarlatani; e questo è il primo dei tre eventi riguardanti il cristianesimo che troviamo a Roma. 

Il secondo evento riguardante il cristianesimo è il processo di Paolo.

Non abbiamo sfortunatamente alcun dettaglio in merito; non sappiamo nemmeno se terminò con un'assoluzione o una condanna; conosciamo solo la sua durata, che gli Atti fissano in due anni. [2]

Il nostro sistema cronologico ci fa situare questo processo negli anni 59-61.

Il terzo evento, il più celebre di tutti, è l'incendio di Roma nel luglio 64.

Tutti sanno il testo di Tacito, Annali 15:38-44 e 52.

Tacito è il solo storico che abbia riportato l'accusa incorsa dai cristiani, e il loro castigo. Svetonio, Nerone 38, Plinio il Vecchio, Storia Naturale 17:1, Dione Cassio 62:16-18, Sulpicio Severo 2:29, Orosio 7:7, raccontano l'incendio senza aggiunte. Questo silenzio ha fatto sospettare l'autenticità della parte del testo di Tacito che riguarda i cristiani. La discussione ne è stata fatta molte volte ed è stata riassunta da Hocharth. [3] Non la ripeteremo qui; basterà ricordare le conclusioni alle quali siamo giunti nel nostro precedente volume. [4] Secondo l'ipotesi alla quale ci eravamo soffermati, era la polizia che, obbedendo agli ordini di Nerone, aveva essa stessa appiccato l'incendio e, siccome doveva ad ogni costo trovare dei colpevoli per dare soddisfazione alla popolazione e sviarne i sospetti che cominciavano a correre sul ruolo dell'imperatore, essa aveva accusato i cristiani, accusa che sembravano giustificare d'altronde le violenze apocalittiche della predicazione di alcuni tra loro.

Che il testo di Tacito sia autentico o no, che di conseguenza i cristiani abbiano subito o no i terribili supplizi che vi sono raccontati, non c'è da dubitare in ogni caso che essi non siano stati, quattro anni più tardi, l'oggetto della repressione di cui parla Svetonio; perché i tormenti che avrebbero seguito l'incendio della città e la persecuzione che racconta Svetonio sono due cose diverse, e se la prima ha potuto essere messa in dubbio, la seconda deve essere considerata storica. Così vedremo il quarto degli eventi riguardanti i cristiani che non poté ignorare Giuseppe e di cui non disse parola.

Al seguito dell'incendio e della repressione, Nerone avrebbe reso, come vuole la tradizione, un editto che proibiva il cristianesimo? Ancora una questione importante, ma non è essenziale affrontarla qui, poiché basta al nostro scopo constatare che in quell'epoca (e almeno nel 68) i cristiani di Roma sono stati improvvisamente attirati alla piena luce della Storia. 

Quale è la posizione di Giuseppe relativamente a questi quattro eventi?

Nel 49 Giuseppe ha dodici anni e vive in Palestina, può quindi aver avuto solo più tardi un'informazione sull'evento. Ora Giuseppe cita l'espulsione sotto Tiberio nel 19 e non cita quella che seguì l'editto di Claudio nel 49; si deve supporre che abbia conosciuto quella e ignorato questa?

Stessa difficoltà quanto al processo di Paolo. Giuseppe è arrivato a Roma nel 63. Occorrerebbe retrodatare inverosimilmente il processo di Paolo per collocarlo successivamente; bisogna, al contrario, collocare l'arrivo di Giuseppe in un momento in cui tutto è terminato, e riconoscere che egli non è più stato il testimone delle avventure di Paolo a Roma più di quanto sia stato quello delle sue avventure in Giudea.

Il destino non volle che Paolo si trovasse sulla strada di Giuseppe.

Ma se non assistette alla vicenda, è poco probabile che non ne sia stato informato. Eppure mantiene il silenzio.

Una sola spiegazione è possibile: il silenzio delle sue fonti, in aggiunta al fatto che non è stato testimone personale.

Stesso silenzio sull'incendio di Roma. Questa volta, è impossibile immaginare che egli abbia ignorato l'evento e l'accusa che sarebbe stata portata contro i cristiani. Egli è in questo momento, se non a Roma, almeno in Italia, — ricordiamoci in quali condizioni. Egli è arrivato a Roma a titolo di avvocato; è stato presentato a Poppea, la favorita di Nerone, che lo ha ben accolto; tutto porta a credere che, sull'esempio degli ebrei ricchi di soggiorno a Roma, frequenti la corte e l'alta società di Roma piuttosto che il ghetto.

È poco probabile che egli abbia conosciuto personalmente cristiani di Roma. Avrebbe dovuto vivere in comunicazione con il ghetto romano, mettersi al corrente dei suoi piccoli incidenti interni, conoscere le rivalità, gli odi, i litigi che lo dividevano, infine prendere parte nelle sue minuscole agitazioni; così avrebbe incontrato, tra gli ebrei di Roma, quella setta di messianisti in lotta più o meno dichiarata con i loro compatrioti. Aggiungiamo che gli ebrei ricchi avevano per gli incantatori del ghetto lo stesso disprezzo degli aristocratici romani.

Che Giuseppe, per contro, abbia sentito parlare, anche prima dell'incendio, dei cristiani di Roma, è un altro affare; ma non si può dubitare che questo sia stato con tutto il disprezzo che i giudei ufficiali, ricchi e ortodossi avevano per gli infimi settari accusati del doppio difetto di essere nel contempo messianisti e ciarlatani.

All'improvviso, l'incendio divampa.

È probabile che in questo momento Giuseppe sia l'ospite di qualche potente e ricco personaggio e in procinto di villeggiare in qualche sontuosa villa della campagna o della costa; non dimentichiamo che siamo alla fine di luglio. L'incendio di Roma è l'oggetto di tutte le conversazioni... Tuttavia, voci straordinarie circolano... Chi ha appiccato il fuoco ?... Ed ecco che si accusa quella setta di ebrei e di giudaizzanti dissidenti di cui egli ha più o meno appreso l'esistenza; li si accusa; e gli ebrei benpensanti non sono lontani dal sacrificare questi fratelli dissidenti, questi fratelli nemici, questi fratelli disprezzati.

Giuseppe, favorito di Poppea, ben inserito nella corte, avrà sposato le accuse imperiali, i sospetti del giudaismo ufficiale... Avrà creduto i cristiani colpevoli dell'incendio, o li avrà fortemente sospettati.

Ecco ora questi sfortunati arrestati, gettati in prigione e il castigo terribile comincia.

È impossibile che in questo momento, in presenza dell'accusa formidabile che pesa sulla setta, in presenza dei supplizi terribili che li si fa loro subire, Giuseppe non si sia domandato, se non li conoscesse già, cosa fossero questi chrestiani, come li si appellava allora.

L'intera questione è sapere cosa gli si è risposto, cosa ha ben potuto apprendere. Ora, poniamo la domanda: nelle informazioni che ha ricevuto, Giuseppe ha potuto riconoscere in loro la stessa setta che in Palestina si chiamava i Nazorei, o, per parlare più esattamente, i Nasraya? Ciò gli era impossibile, tanto  per ragioni linguistiche quanto per ragioni di fatto. Mediocre ellenizzante (almeno a quell'epoca), non dovette comprendere che la parola chrestiani significava Messianisti; ma se l'avesse compreso, quale rapporto un uomo poco al corrente delle cose della setta poteva stabilire tra questi e quelli? Là una setta di battisti, di pia gente, si Esseni sognatori, di devoti personaggi come Giacomo... Qui, spregevoli ciarlatani, e inoltre degli incendiari! Li prese ben piuttosto per gli emuli nel contempo di quei terribili Zeloti che, nel suo paese, seminavano il terrore e desolavano la Palestina, e di quegli incantatori che ingannavano il popolo per mezzo di demoniaci prestigi.  

Quanto a questo Paolo, il cui processo si era appena concluso, come si vuole che in Paulos o Paulus egli abbia riconosciuto il Saul (o Schaul) di cui aveva conosciuto solo per sentito dire, qualche anno prima, la disavventura a Gerusalemme? Ricordiamoci che il nome che Paolo portava tra gli uomini che parlavano aramaico non aveva nulla in comune con il nome che portava tra gli uomini che parlavano greco o latino; non era nemmeno un equivalente; era un altro nome.

Se almeno Giuseppe lo avesse visto, avrebbe potuto riconoscerlo; ma non lo aveva mai incontrato. Se avesse fatto parte di un gruppo conosciuto da lui, avrebbe potuto avere su di lui informazioni esatte; ma un abisso separava il personaggio ortodosso e ufficiale che era Giuseppe e l'attivista propagandista che era Paolo. Se, infine, si fosse obbligato ad una vera inchiesta? Ma non siamo nel 63-66; Giuseppe ha 27 anni; non si sogna ancora di scrivere la storia di Israele; per il momento è un avvocato e un personaggio politico, non altra cosa.

Si capisce quindi perché Giuseppe non abbia voluto parlare né dell'accusa di incendio rivolta contro i cristiani, né del processo di Paolo. È certo che si interessa a tutto ciò che riguarda gli ebrei, non solo in Giudea, — ma in tutto l'Impero e particolarmente a Roma, — ma che tace quando crede che tale sia l'interesse degli ebrei. Ora, ecco un'umile setta ebraica che è accusata di aver appiccato il fuoco alla città eterna; come vengono considerati questi incendiari? Basta leggere Tacito; la pietà che gli ispira l'atrocità del loro castigo non gli impedisce di dichiarare che essi sono la feccia dell'umanità.

Ma non bisogna dimenticare che, benché dissidenti ed eretici, questi messianisti sono lo stesso ebrei, giudaizzanti, «timorati di Dio» in ogni caso. Quale obbrobrio per Israele, se i suoi figli, anche se sono figli rifiutati, hanno commesso un tale crimine!

Giuseppe credette di agire nell'interesse della sua patria nascondendo l'onta dei figli decaduti di Israele.

Certo, racconterà i crimini degli incantatori che ingannano il popolo, dei Sicari che riempiono la Giudea di sangue; ma, per quanto spaventosi siano questi crimini, sono solo atrocità comuni all'epoca; e poi, gli ebrei non sono allora in guerra con Roma? Le più orribili scelleratezze hanno, se non una loro scusa, almeno la loro spiegazione. Ma raccontare che degli ebrei, che dei giudaizzanti, abbiano appiccato il fuoco a Roma? Mai l'uomo che si è dato per missione di far ammirare il giudaismo dai romani acconsentirà ad una tale ammissione.

Insomma, Giuseppe ha sentito parlare, a Roma, di una banda di Chrestiani che gli si è rappresentata, a lui ebreo ortodosso, ebreo ufficiale, come una banda di incantatori e assassini diventati incendiari. Non li ha identificati con i pii sognatori, gli asceti, i battisti che in Palestina sentiva chiamare i Nazareni e di cui Giacomo il Giusto era il capo e il perfetto esempio. Egli non ha neppure identificato Paulus o Paulos al Saul (o Schaul) di cui gli si è parlato un tempo e che il destino non gli ha mai permesso di incontrare. È mal informato e in nessun momento prova il bisogno di fare un'inchiesta. Ha potuto parlare di questo devoto personaggio che era Giacomo e che aveva visto mettere così ingiustamente a morte. Vorrà tacere sul crimine dei Chrestiani ciarlatani e incendiari. 

...Altrimenti, non vedremmo per il suo silenzio che una spiegazione: questa sarebbe che i cristiani non sono stati accusati di aver incendiato Roma, che il famoso testo di Tacito non sia autentico e che, sull'incendio del 64, si deve attenersi a ciò che racconta Svetonio... 


NOTE

[1] Si veda Maurice Goguel, Revue de l'Histoire des Religions, maggio-giugno 1912, e A. Brassac, Revue Biblique, gennaio 1913. 

[2] Abbiamo concluso, in Première génération chrétienne, pagine 201-202, per la probabilità di un'assoluzione.

[3] Studio pubblicato nel 1884 dagli Annales de la Faculté des Lettres de Bordeaux, e libro pubblicato nel 1890 da Thorin, a Parigi. Si veda anche un articolo dell'abate Douain, Revue des questions historiques, ottobre 1885, che ne intraprende la confutazione, e Boissier: resoconto dell'Accademia delle Iscrizioni, 26 marzo 1886.

[4] Première génération chrétienne, pagine 250 e seguenti.

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