(segue da qui)
II
IL DRAMMA SACRO
1. Il dramma sacro nelle religioni misteriche. — Il dramma sacro è un insieme di cerimonie rituali che si svolgono in un luogo sacro. Per farci un'immagine, trasportiamo con il pensiero all'alba della civiltà la grande messa cattolica, così come si celebra oggi nei paesi in cui si crede ancora. Alla luce di quella approssimazione, riprendiamo e completiamo la definizione del dramma sacro: [1] un insieme di cerimonie rituali, celebratesi periodicamente attorno ad un sacrificio, il quale ne è il centro e la ragion d'essere, con l'intenzione, non di offrirne lo spettacolo, ma di produrne gli effetti e di farne beneficiare i presenti.
Vedremo, qualche pagina più oltre, come il dramma come lo si intende comunemente oggi, vale a dire il «pezzo di teatro», sia derivato da questo dramma sacro; ma già qui constateremo, perché alcun malinteso sia possibile, la differenza capitale, essenziale, irriducibile che li separa l'uno dall'altro. Il pezzo di teatro ha per obiettivo di rappresentare qualcosa; se esercita un'azione morale sugli spettatori, è accidentalmente; è innanzitutto un'opera d'arte. Il dramma sacro ha per obiettivo (come lo abbiamo definito) non di rappresentare qualcosa, ma di produrre un risultato di ordine religioso, in particolare di far beneficiare i presenti della virtù del sacrificio; esso è, innanzitutto, un'operazione cultuale.
La morte del dio, la sua sepoltura, la sua resurrezione non sono quindi i tre capitoli di una leggenda; sono i tre atti di un'azione sacra, la quale si svolge periodicamente, a epoche predefinite, per secoli. In ciò, il dramma sacro, e altrettanto bene il dramma profano, emerge eminentemente dalla perpetuità.
In cosa consistono queste messe preistoriche? Cosa erano divenute nelle epoche che sono seguite? Studiare l'evoluzione del dramma sacro sarà equivalente a studiare allo stesso tempo l'evoluzione del sacrificio del dio.
Per quel che è delle epoche primitive, le cose si immaginano abbastanza bene.
Dapprima, messa a morte dell'animale-dio; più tardi, messa a morte dell'uomo-dio, e, attorno, un certo numero di pratiche accessorie e di cerimonie, canti, danze mimetiche, sulle quali è inutile soffermarsi attualmente.
In seguito, la sepoltura; qui possiamo riferirci, ad esempio, nella vecchia Bibbia, all'episodio del re di Ai: [2] al tramonto del sole si rimuove il corpo, lo si getta all'ingresso della porta della città e si erige su di esso un cumulo di pietre; tutto ciò che è descritto narrativamente dovendo essere inteso cultualmente.
Quanto alla resurrezione, abbiamo spiegato che nelle religioni primitive, quando il dio aveva forma animale, la resurrezione si operava non esplicitamente, in quanto lo stesso animale riviveva nei suoi simili; quando ebbe forma umana, la resurrezione era ottenuta nel fatto che un nuovo uomo-dio sostituiva, rinnovandolo, colui che era stato sacrificato; in nessun caso si vedeva uscire dalla tomba un dio risorto, vale a dire il nuovo dio.
Cosa dovevano divenire, nel corso delle civiltà, i vecchi riti neolitici?
Si sa come le religioni primitive, che erano per definizione religioni di «clan», si fossero a poco a poco trasformate in religioni di «tribù» (la tribù essendo, tecnicamente parlando, un insieme di clan), poi in religioni intertribali (vale a dire di tribù confederate). Da intertribali, alcune erano diventate nazionali. E così si erano costituite ciò che si possono chiamare le religioni ufficiali dell'antichità: religioni di città, religioni di popoli, religioni di imperi.
In queste ultime religioni (religioni di città, religioni di popoli, religioni di imperi), l'evoluzione è completa; il sacrificio del dio è puramente e semplicemente scomparso. Si offrono agli dèi delle vittime in sacrificio; da nessuna parte gli dèi sono le vittime che si sacrificano. Lungi dal morire e dal risorgere, gli dèi sono stati promossi al rango di Immortali; spingendo fino all'estremo limite l'evoluzione, il dio ebreo si definisce lui stesso l'Eterno.
Ma accanto alle religioni ufficiali, l'antichità ha avuto le religioni misteriche. [3]
Per «religioni misteriche», gli studiosi sono pressappoco unanimi nell'intendere alcune di quelle stesse religioni preistoriche di cui abbiamo appena evocato le selvagge pratiche, e che, dopo essersi oscuramente mantenute, erano più tardi riemerse ai margini delle religioni ufficiali, talvolta ignorate da queste ultime, talvolta proibite, talvolta requisite, talvolta semplicemente tollerate.
Cito da Paul Foucart un primo esempio.
«Secondo l'opinione che pare aver prevalso», scriveva qualche anno fa, [4] «Demetra (la dèa dei misteri di Eleusi) è una dea pelasgica, [5] cioè nata sul suolo della Grecia tra le più antiche popolazioni che occuparono la penisola; i misteri non sarebbero altro che l'antica religione, proscritta dai conquistatori che assoggettarono i Pelasgi, ma conservata in segreto dai discendenti dei vinti».
Tale, in Cappadocia, l'antica religione neolitica della Grande Madre, divenuta in epoca greco-romana i Misteri della Grande Madre e di Attis.
Tale ancora, arrivata dalla Persia, la religione di Mitra.
Tale infine, e questa è la nostra tesi, la religione di Gesù in Palestina... e ho qui la soddisfazione di riprendere puramente e semplicemente, cambiando i nomi, le frasi di Foucart... «Gesù è un dio cananeo (se non pre-cananeo) nato sul suolo della Palestina tra le più antiche popolazioni che occuparono quella regione; la religione di Gesù non sarebbe altro che l'antica religione, proscritta dai conquistatori che avrebbero assoggettato i Cananei, ma conservata in segreto dai discendenti dei vinti...».
Nella maggior parte di queste religioni, l'evoluzione del sacrificio del dio è la stessa, benché si compia a cadenze diverse.
La prima fase essendo quella delle religioni primitive stesse, la seconda fase ci porta alle epoche in cui quelle di queste religioni che non sono riuscite a imporsi (vale a dire ad entrare nella filiera delle religioni ufficiali) o che sono state schiacciate dai nuovi venuti (ma non sono scomparse) assumono l'aspetto di religioni inferiori e cominciano a trascinare attraverso i secoli un'esistenza tanto umile quanto oscura. Questa seconda fase si caratterizza dalla persistenza dei riti primitivi e dalla minimizzazione del loro significato. Il sacrificio del dio continua ad essere praticato, ma al ritmo sempre più meccanizzato che è quello delle religioni che invecchiano. Questo è il periodo più mal conosciuto di una storia che lo è pochissimo.
Un giorno, una sorta di semi-rinnovamento si verifica, pochissimo conosciuto esso stesso, di cui gli studiosi hanno potuto reperire le tracce. Nel sesto e quinto secolo prima della nostra era, tutt'attorno al Mediterraneo orientale, si verificò una sorta di effervescenza; i vecchi culti, già agonizzanti, si rianimano. Dopodiché, la fiamma si estingue, ma le cose non riprendono per tutti lo stesso corso.
La scorciatoia che noi presentiamo qui ci obbliga ad abusare un po' di questi termini: prima fase, seconda fase... Distingueremo quindi, per caratterizzare gli avatar del sacrificio del dio nelle religioni misteriche a partire da quell'epoca, una nuova fase, che denomineremo fase ellenico-ellenistica.
Fase ellenico-ellenistica. — Alcune, e in particolare quelle di Osiride, Demetra e Dioniso, si sviluppano sotto l'influenza delle civiltà che le circondano; diventano potenti e si impongono sui poteri costituiti; allo stesso tempo prendono la direzione che seguono queste civiltà, e che seguono tutte le civiltà; vanno dall'irrazionale al razionale, cioè si razionalizzano. Così si perderà il significato primitivo del sacrificio del dio; simboli altrettanto fondamentali sono immaginabili solo alle epoche in cui regna l'irrazionale. Ogni sentimento religioso non scomparirà, però, e le religioni misteriche rappresenteranno a lungo ciò che ne sussisterà nel mondo ellenico ed ellenistico. Razionalizzato, vale a dire snaturato, il vecchio mito vi resterà cosa religiosa.
Nella fase ellenico-ellenistica, il dio è ancora un dio messo a morte e che risorge, ma non è più un dio sacrificato. I lettori non specialisti ci comprenderanno senza difficoltà. Fino ad allora, il dio era immolato in quanto vittima sacrificale dai suoi fedeli stessi (o dagli agenti ai quali lo consegnavano a quella fine); nella terza fase, egli è messo a morte dai nemici che hanno voluto la sua perdita; non c'è più un sacrificio, c'è solo un crimine commesso... Una sera, forse un bel chiaro di luna, forse una notte senza luna, è capitato al dio di essere assassinato... ben fortunata disavventura peraltro, crimine «provvidenziale» se mai ce ne fosse stato uno, poiché i fedeli del dio vi troveranno la via della loro salvezza...
Così Zagreo, che primitivamente era immolato dai suoi fedeli, è ora ucciso dai Titani; così Osiride, invece di essere immolato ritualmente, è assassinato da suo fratello Set o Tifone.
Alfred Loisy ha perfettamente individuato il viaggio: [6] un sacrificio del dio che diventa un crimine contro la sua persona. È deplorevole che l'illustre maestro non abbia acconsentito a domandarsi se questo viaggio non fosse quello stesso che doveva seguire più tardi il dio che la sua leggenda presenta infine come messo a morte dal crimine degli ebrei e dei Romani.
A quella evoluzione del mito doveva corrispondere un'evoluzione del dramma sacro; il centro, l'oggetto di questo dramma non sarà più un sacrificio cultuale; questo sarà l'episodio, l'incidente, il fatto vario nel quale il dio è ritenuto aver trovato la morte: assassinio di Zagreo ad opera dei Titani, di Osiride ad opera di suo fratello e, in un ordine analogo di idee, rapimento di Core (Proserpina) da parte di Ade (Plutone).
La trasformazione che subisce la morte del dio non gli rimuove però il suo carattere primordiale di efficacia mistica. Se la morte del dio non è più un sacrificio espiatorio, resta un mezzo per portare ai fedeli ciò che il cristianesimo chiama la salvezza; ma il mezzo ha perso la selvaggia grandezza dell'irrazionalità; Osiride, risorgendo, apre ai suoi le porte dell'aldilà; le dèe di Eleusi mostrano ai loro miste il cammino che dovranno seguire per arrivare ad una immortalità beata. La passione divina è sempre per gli affiliati un'operazione utilitaristica.
Quella razionalizzazione del sacrificio e del dramma sacro primitivo è la conseguenza, diciamo, del movimento generale di razionalizzazione che coinvolge tutte le civiltà; corrisponde particolarmente a quella che, cominciata all'epoca dei poeti omerici, s impose alla civiltà ellenica dopo le guerre persiane e che Nietzsche ha studiato nell'Origine della Tragedia, — rendendone Socrate personalmente responsabile! Quando Nietzsche concepì e scrisse il suo libro, nel 1869-1871, non conosceva i lavori dell'antropologia inglese, che non faceva che nascere. Li ignorava ancora o voleva ignorarli quando pubblicò la sua nuova edizione, nel 1886. Cosicché le opinioni brillanti che abbondano nel suo libro continuano a stare accanto all'accozzaglia di teorie che nessuna realtà corrobora.
L'evoluzione, così come la esponiamo, del sacrificio del dio e del dramma sacro, in correlazione con la dottrina dell'irrazionale e del razionale, sembra gettare una luce meno arbitraria sulla questione dell'origine della tragedia.
Dioniso, Osiride (e Gesù) sono, nei tempi neolitici, dèi ritualmente sacrificati e divengono in seguito dèi criminalmente messi a morte. I personaggi caratteristici della tragedia greca sono antichi dèi, o re-dèi, o quelle entità che la mitologia ha chiamato semidèi? Ci basti sapere qui che anche loro sono stati, nei tempi pre-ellenici, vittime sacrificali, prima di essere gli eroi delle commoventi avventure di cui si sono impadroniti i poeti. I personaggi della tragedia greca, le loro avventure e la tragedia stessa che li ha messi in scena provengono direttamente dai miti sacrificali preistorici. La tragedia ha la sua origine nel sacrificio primitivo; ma ha potuto nascere solo all'epoca in cui quest'ultimo era scomparso.
Sofocle non sapeva evidentemente che prima di essere condannata dalla malvagità di un tiranno, Antigone era stata ritualmente sepolta viva, a titolo di vittima espiatoria, dalla pietà dei fedeli... Io ho sempre lamentato che il signor Jean Cocteau, scrivendo l'adattamento che il Théâtre de l'Atelier ha rappresentato, non ne sia stato più informato.
Ma non dimentichiamo che, se la tragedia è derivata dal dramma sacro, tutti e due hanno seguito vie opposte. Il dramma sacro lascia a queste avventure il carattere di efficacia mistica che ne fa un'operazione cultuale. Opera d'arte, il dramma secolarizzato non è altro che uno spettacolo da offrire agli occhi e all'intelligenza.
L'antica tragedia greca è dionisiaca in quanto ha la sua fonte nelle profondità dell'irrazionale e, perciò, del misticismo e della poesia nel senso musicale che conviene dare a questa grande parola. Essa non è dionisiaca in quanto tra la fonte da cui è emersa e il grande fiume dove scorre dieci secoli sono passati.
Attenendoci al dramma sacro delle religioni misteriche, ci domanderemo in che modo le avventure divine che ne erano oggetto fossero rappresentate all'epoca che ha preceduto e seguito immediatamente la nostra era.
Esattamente parlando, cosa si faceva vedere ai miste?
Ognuno sa che, se le dottrine dei misteri erano conosciute, i loro riti erano tenuti segreti e che il segreto fu gelosamente custodito; il poco che ne sappiamo ci è stato appreso dagli anatemi o dai sarcasmi dei Padri della Chiesa; il servizio che costoro hanno reso combattendo le pratiche del paganesimo può discutersi; quello che hanno reso facendole conoscere merita tutta la nostra riconoscenza.
La rappresentazione ad Eleusi del rapimento di Core, del dolore e delle ricerche di sua madre Demetra attraverso il mondo, della riunione finale delle due dèe, quella in Egitto della passione di Osiride, quella della morte e della resurrezione di Adone, erano rappresentazioni teatrali dove si svolgevano questi eventi alla nostra maniera moderna? Per niente. Su questo vi è accordo unanime tra gli studiosi che hanno studiato queste questioni. Cos'erano allora? Drammi liturgici, dice Paul Foucard. [7] Stessa conclusione di Charles Picard. [8]
Alfred Loisy espone [9] che gli scavi fatti ad Eleusi «hanno provato che il santuario non era attrezzato per i bisogni di un macchinario complicato, in vista di produrre illusioni sceniche... Cosa si vedeva? Nient'altra cosa probabilmente che una successione di cerimonie come ce ne sono in tutte le religioni, una serie di riti tristi che seguiva una serie di riti consolatori e gioiosi, le due parti di un dramma liturgico».
Per quanto riguarda l'Egitto, Alexandre Moret [10] arriva a risultati analoghi: riti dove sono associati parole e gesti, cose dette e cose mimate, la cui azione si completa reciprocamente. Infine, qualche anno fa, Gustave Glotz, in uno studio che ebbe il valore di una scoperta, [11] recava preziosi dettagli sul modo in cui si celebravano ad Alessandria le feste di Adone. Di queste feste, Teocrito aveva descritto nelle sue Siracusane i primi due giorni, nozze sacre e morte del dio; ma non parlava di un terzo giorno consacrato a celebrare la sua resurrezione, e alcuni studiosi ne avevano gioiosamente concluso che quella celebrazione non aveva avuto luogo; Glotz ha provato il contrario e, malgrado le resistenze degli stessi studiosi, si può dire con il signor Dussaud [12] che vi è ormai «un punto acquisito».
Come le cose si svolgevano dunque? Cosa si vedeva? Cosa si sentiva?
Una cantante sacra, una narratrice piuttosto, γυνή ἀοιδός, raccontava e fino ad un certo punto mimava il dramma, e un coro la accompagnava tanto con i suoi canti quanto con le sue danze. Questo è, insomma, ciò che qualche secolo dopo Teocrito, raccontava un Padre della Chiesa, Cirillo di Alessandria, nel brano seguente: [13]
«Quando Afrodite piangeva la morte di Adone, un coro gemeva e si lamentava con lei; quando lei risaliva dagli inferi e diceva di aver ritrovato colui che cercava, esso si rallegrava con lei e si metteva a danzare. Quella scena si è svolta fino ai nostri giorni nei tempi di Alessandria».
Sembra che ad Alessandria la cerimonia si sia trasformata un po' in spettacolo; le cose ad Eleusi si svolgevano in un'atmosfera più religiosa. Ma, se si trattiene solo l'osservanza esteriore, il programma seguito nelle feste di Adone era molto probabilmente quello di tutte le religioni misteriche: una recitazione mimata dell'evento mitico accompagnata da canti e da danze.
I miei lettori penseranno immediatamente alle forme arcaiche della tragedia greca, la quale ad un momento della sua evoluzione era una recitazione mimata, derivata a sua volta dal coro. Penseranno anche alle recitazioni omeriche di cui Victor Bérard ha messo in valore il lato drammatico. Ma è con le funzioni cattoliche che il confronto si impone. Si voglia ben considerare, infatti, ciò che si svolge nelle nostre chiese, per esempio, durante la Settimana Santa e il giorno di Pasqua: recitazione cantata dell'evento da uno o più solisti (come la lettura della Passione a tre voci, una che rappresenta Gesù, un'altra il popolo, un'altra l'evangelista) e partecipazione del coro, recitazione e coro non mimati, è vero, ma accompagnati da quei movimenti del corpo, evoluzioni e processioni che sono la trasposizione moderna delle antiche danze religiose; infine, talvolta, autentiche messe in scena, come la Via Crucis; ma nessuna traccia di quella pretesa di riprodurre l'evento nel suo realismo, la quale è il principio stesso del teatro contemporaneo.
Io manco dell'autorità necessaria per discutere di ciò che si svolge nelle sinagoghe; ma posso fornire un indizio che devo al signor Maurice Liber. Il giorno di Kippur, l'officiante recita un lungo racconto dove sono raccontate le cerimonie che avevano luogo a Gerusalemme prima della distruzione del secondo Tempio, in particolare i gesti del sommo sacerdote; e i presenti fanno i gesti corrispondenti; fanno mea culpa quando l'officiante dice che il sommo sacerdote si accusava di aver peccato, e si inginocchiano quando l'officiante dice che il sommo sacerdote si inginocchiava.
Di tutti questi fatti, la spiegazione non può mancare di apparire ai lettori che mi avranno seguito. Queste rappresentazioni del dramma sacro, tanto quelle del dramma sacro preistorico quanto quelle che si svolgono nelle nostre cattedrali, hanno per obiettivo non di offrire uno spettacolo, ma di produrre effetti di ordine religioso e sacramentale. Esse sono «azioni efficaci». La rappresentazione delle corse di Demetra attraverso il mondo ha un obiettivo preciso: insegnare ai miste come dopo la loro morte essi otterranno una sopravvivenza di felicità; la rappresentazione del dio che muore e risorge ha un obiettivo preciso: far beneficiare i presenti delle virtù di quella morte e di quella resurrezione; tutte le pompe delle nostre cattedrali sono, di norma, subordinate allo stesso scopo finale: la salvezza dei fedeli.
Questo carattere liturgico e non teatrale delle raffigurazioni che le religioni danno degli eventi mitici che esse celebrano, quella assenza completa di tutto ciò che poteva rassomigliare ad una recitazione drammatica esercitata da attori, costituisce una legge generale di cui abbiamo appena visto l'applicazione tanto nelle religioni moderne quanto nelle religioni misteriche pagane, e che sarebbe facile verificare nelle religioni ufficiali dell'antichità pagana oltre che nel giudaismo. Nelle religioni primitive essa si era manifestata fin dalla loro più lontana origine nei riti dell'iniziazione. [14] Si vede quanto siamo lontani da Oberammergau! Tra la rappresentazione drammatica che realizza il teatro contemporaneo e la rappresentazione cultuale che realizza il dramma sacro, c'è l'abisso che separa il profano dal sacro. Infatti, in tutte le religioni, il sacerdote ha saputo evitare ciò che Mallarmé chiamava, per criticare le dottrine wagneriane, «la personalità adulterata dell'attore».
... E altrettanto bene il sacerdote ha evitato da sempre quella non meno adulterata dello sfondo.
Fase precristiana. — [15] Non c'è dubbio che l'antica religione di Gesù abbia seguito la stessa evoluzione delle altre religioni primitive e sia diventata, allo stesso modo e pressappoco nella stessa epoca, una religione misterica. La cosa si verificò, infatti, quando il clero gerosolimitano si impegnò a imporre a Gerusalemme prima, poi in tutta la Giudea, il culto unico di Jahvé. [16]
Ma mentre alcune delle religioni misteriche prendevano il loro slancio, le altre, una volta esaurita l'effervescenza del sesto e quinto secolo, erano ricadute nella loro vecchiaia, e tale sembra essere stato il caso della religione di Gesù.
Le religioni che invecchiano, i nostri lettori sanno cosa significa. Ciò si manifesta in riti che continuano a essere praticati e i cui significati si dimenticano. Tale sarà la sorte del sacrificio del dio nell'antica religione di Gesù e nel pre-cristianesimo: un rito che si continua, ma che si assopisce... fino al giorno in cui si risveglierà nel rinnovamento che sarà il cristianesimo.
Nelle pagine che precedono, vale a dire in ciò che concerne il dramma sacro delle religioni misteriche, non ci siamo discostati dalle opinioni più comunemente ricevute; saremo ora obbligati a esporre opinioni nuove, il pre-cristianesimo essendo generalmente negato altrettanto bene dagli studiosi razionalisti come dagli studiosi ortodossi, o non essendo stato studiato (soprattutto dal nostro punto di vista) da coloro che lo ammettono.
Abbiamo sommariamente esposto, attendendo di ritornarci come conviene, come, nella religione di Gesù come nelle altre religioni misteriche, il sacrificio del dio si fosse mutato nella passione del dio: dopo essere stato messo a morte e crocifisso dai suoi fedeli, si aveva detto che Gesù era stato messo a morte e crocifisso dai demoni, le circostanze di quella presa di possesso del dio da parte dei demoni e della sua crocifissione da parte loro restando vaghe. Quanto alla data di quella trasformazione, supporremo la fine dell'età neolitica.
Se il dramma sacro primitivo, quello del sacrificio propriamente detto, è, come abbiamo detto, facile da immaginare, sarà meno facile rappresentarsi quale forma poté prendere questo dramma sacro, quando il sacrificio si fu mutato in passione, e quale poteva essere all'epoca del pre-cristianesimo e intorno all'anno 1.
La ricerca scientifica ci permetterà di penetrarne le tenebre?
Come per tutti i problemi di questo tipo, essa dovrà comportare un duplice studio: quello, critico, dei documenti relativi al problema e quello, comparativo, dei dati della storia generale delle religioni.
I documenti sono evidentemente i libri del Nuovo Testamento, le epistole in particolare, nella misura in cui, senza raccontare il dramma sacro, vi si riferiscono indirettamente, e i vangeli, nella misura in cui lo raccontano sotto la forma distorta che gli aveva data la tradizione all'epoca in cui essi sono stati scritti. Dovremo quindi, qui più che mai, ricordarci che i loro autori espongono non come le cose si erano svolte, ma come credevano che si fossero svolte; il dovere dello storico è di cercare sotto i loro racconti le tradizioni che questi implicano.
Il dramma sacro precristiano è essenzialmente, lo sappiamo, un triduo, vale a dire un dramma sacro in tre giorni.
Per quanto riguarda il primo giorno, quello della crocifissione, i vangeli, pur presentando la messa a morte di Gesù come l'esecuzione di una sentenza giudiziaria, lasciano facilmente riconoscere le tradizioni soggiacenti del dramma sacro.
Non ritorneremo sui tratti secondari (effusione del sangue, flagellazione, ecc.) che abbiamo studiato già [17] e che non riguardano direttamente l'argomento del presente capitolo. Tra tutti gli episodi della Passione che raccontano i vangeli, l'incoronazione irrisoria di Gesù e la salita al Calvario appaiono sicuramente, e al primo colpo d'occhio, come la trasformazione di una tradizione antica.
Appena si ricordano, abbiamo scritto (pagina 155), le innumerevoli cerimonie serie o comiche che rileva, per esempio, il Ramo d'oro, con i loro finti re immolati, ci si domanda per quale oscura coincidenza l'esecuzione di Gesù avrebbe accomunato la maggior parte dei caratteri di queste terribili feste.
L'argomento più forte, dal semplice punto di vista del buon senso, contro la storicità della Passione non è, aggiungiamo noi, il suo carattere leggendario, il quale poteva, a dire il vero, essere aggiunto a uno sfondo storico; è che, in fondo, al di fuori di ogni aggiunta leggendaria, essa si presenta come una «passione» del dio morto e risorto; è che ne possiede essenzialmente tutti gli elementi fondamentali.
L'unzione del re-dio è il preludio necessario del dramma sacro, il dio-re essendo per definizione un Unto. Dopodiché, l'incoronazione: si veste il dio di porpora, gli si mette sul capo una corona, nelle mani uno scettro. Ma l'incoronazione è irrisoria; la corona è di spine; lo scettro è una canna; e il dio è deriso, picchiato, coperto di sputi, percosso.
Questo rito di derisione era antico? Tutto porta a crederlo; non si spiega tanto con la malvagità che si cela nel fondo dell'animo umano quanto con ragioni di natura magica. Quel che ne sia, fa parte della maggior parte delle cerimonie popolari descritte nel Ramo d'oro nel corso delle quali l'eroe della festa era deriso prima di essere messo a morte.
In seguito la salita al Calvario, vale a dire una processione con canti e danze liturgiche.
Questa è la passione stessa di Gesù. La trasposizione è solo nella qualità dei presenti; anche così, i soldati potranno essere assimilati ai demoni a cui il Signore è consegnato.
La consegna ai demoni, si ricorda, è la forma che era stata assunta dal sacrificio del dio, quando questo sacrificio diventò una passione; Gesù non è più immolato dai suoi fedeli, è crocifisso dai demoni a cui è consegnato. In tutta evidenza, i soldati romani, ai quali Gesù è consegnato secondo i racconti evangelici, hanno preso nella tradizione il posto dei demoni: la consegna ai soldati è la trasposizione della consegna ai demoni; consegnare, Παραδιδόναι, è il termine adeguato; si potrebbe dire il termine tecnico.
Non immaginiamo però attori travestiti da demoni e che ne recitano il ruolo. Sappiamo che con il dramma sacro non siamo «a teatro». Gli uomini che si impadroniscono del dio, che lo incoronano e lo oltraggiano, non sono più attori di quanto non lo siano i preti e la folla di fedeli che nelle nostre chiese partecipano alle funzioni sacre; se si vuole un esempio più tangibile, non «si mascherano» più di quanto lo fanno i preti e i fedeli che da noi seguono la Via Crucis.
La Via Crucis delle nostre chiese è, infatti, l'immagine sotto la quale è permesso rappresentarsi, trasportandolo col pensiero nel rurale ambiente palestinese, il dramma sacro precristiano.
Quanto ai fedeli, il loro ruolo è evidentemente minimizzato, salvo quello delle donne, che ritroveremo tra poco.
Eccoci alla messa in croce.
La processione è arrivata sull'alto luogo; [18] cosa succede?
Nel Dieu Jésus, a pagina 233 abbiamo intravisto le possibilità seguenti. Quanto alla persona del crocifisso: sostituto umano o effigie, e noi abbiamo propeso per il sostituto umano. Quanto all'operazione della crocifissione: gesto rituale di messa a morte o simulacro di crocifissione, e abbiamo avuto il torto di non esaminare la questione; ma l'impressione che risultava dal nostro studio andava piuttosto per un simulacro di crocifissione.
È quell'ultima ipotesi che ci fa abbandonare lo studio filologico di un termine che si legge nel corso del racconto della Passione nei vangeli e sul quale la nostra attenzione non si era portata (non più di quella di nessun critico a nostra conoscenza). Ma bisogna ritornare innanzitutto a quella grande legge della Sostituzione che governa la storia delle religioni e in particolare della religione di Gesù.
Riprendiamo innanzitutto le spiegazioni preliminari fornite nel nostro primo volume. [19]
Come, sotto quali specie, il sacrificio del dio poteva effettuarsi, tanto nei riti primitivi quanto nei drammi sacri che sono seguiti? Nessuna difficoltà a immaginarlo nelle epoche primitive in cui il dio era concepito sotto la forma di un animale; bastava immolare questo animale. Immolando una volpe, si immolava il dio volpe.
Ad una fase posteriore, quando il re o il sacerdote è egli stesso il dio, la questione, per un certo tempo, resta semplice: immolare il re o immolare il sacerdote è equivalente ad immolare il dio.
Quando i re o i sacerdoti decisero di allontanare da loro quella parte onorifica ma dolorosa della loro funzione, due soluzioni furono possibili. Una: viene loro inferta, sul braccio per esempio, una piccola ferita; così si vedono i rappresentanti di Adone, di Attis, di Osiride subire una semplificazione del sacrificio. L'altra: delegano uno dei loro figli, poi un terzo, generalmente un condannato, che recita il loro ruolo ed è immolato al loro posto.
Ma, a poco a poco, l'uomo si era disgustato del sacrificio umano e aveva cominciato a praticare sia il sacrificio per simulacro, vale a dire che, come da noi a teatro, si simulava lo sgozzamento; sia il sacrificio in effigie, vale a dire che si fingeva di immolare questa volta un manichino. A volte era un animale, che non era più l'animale-dio delle origini, ma solo il sostituto del dio. Qualche volta, infine, era un oggetto, senza forma umana o animale, per esempio un covone di grano, per esempio una pagnotta di pane che si distruggeva.
Non bisognerebbe credere, tuttavia, che vi fosse in quella pratica della Sostituzione solo un'ingegnosa procedura destinata a risparmiare ai re e ai sacerdoti la parte dolorosa della loro funzione o solo un semplice ammorbidimento dei costumi; difficilmente essa avrebbe trionfato sulla resistenza intrattabile che le masse oppongono a chiunque violi i loro costumi religiosi, se non avesse avuto radici nel profondo di quella mentalità primitiva (si dice anche mentalità magica, si dice altrettanto bene mentalità religiosa) che Lévy-Bruhl ha caratterizzato come indifferenza al principio di contraddizione: [20] una cosa è e non è, una cosa è un'altra cosa, il segno è la cosa significata... Così, nei tempi d'anteguerra, la banconota sostituiva l'oro e praticamente era d'oro, perché la fede vi era... Paragone difettoso, perché per il primitivo una cosa non vale solo un'altra cosa; essa è quell'altra cosa. Ben meglio è l'esempio che non cesseremo di asserire: per il cattolico credente, ancora oggi, l'ostia eucaristica non rappresenta, essa è il corpo di Gesù. Per il primitivo, il sostituto non rappresenta il dio; esso è il dio.
Ma non abbiamo distinto con sufficiente precisione nel nostro primo volume i due modi secondo i quali si realizza quella legge della Sostituzione.
Essa si realizza, da una parte, come abbiamo detto in questo primo volume e come abbiamo appena riassunto in questo, con la sostituzione delle persone o degli oggetti, secondo la quale l'uomo o l'effigie che sostituisce il dio sull'altare dei sacrifici è diventato esso stesso il dio. Ma si realizza ancora, d'altra parte (e questo è ciò che abbiamo insufficientemente indicato), con la sostituzione degli atti, secondo la quale un atto che ne sostituisce un altro diventa quell'atto stesso; così, quando, al posto di immolare il re-dio, gli si fa una ferita al braccio, la ferita, per il primitivo, non rappresenta l'immolazione, essa è l'immolazione; e, infatti, il gesto è il più sovente accompagnato da una parola che ne precisa il significato. Si dice, in teologia, che quella parola, che questo gesto è «efficace» proprio perché produce gli stessi effetti dell'atto che sostituisce. Esempio: il sacerdote che oggi battezza un bambino mette sulla sua fronte la goccia d'acqua che sostituisce l'immersione e pronuncia nello stesso tempo le parole «io ti battezzo» che precisano il significato del gesto.
Così, per praticare l'immolazione rituale, e in virtù di ciò che si potrebbero chiamare i due articoli della legge di Sostituzione: da una parte, un sostituto umano o un'effigie sarà, nel dramma sacro, il dio sacrificato, e d'altra parte, un gesto rituale accompagnato da parole rituali costituirà il sacrificio, senza che ci sia bisogno di simulare un'immolazione (o una crocifissione) con gran rinforzo di macchinari alla maniera del teatro contemporaneo.
Tale, beninteso, non sarà più il caso quando, al posto di immolare il dio, si immoleranno animali in suo onore; i sacerdoti del tempio di Gerusalemme, come pure dei templi greco-romani, si sarebbero trovati molto male se, invece di buoni e belli montoni e di buoi ben in carne, si presentasse loro buoi o montoni di carta. Nelle religioni, al contrario, in cui il dio stesso è messo a morte, è impossibile che la legge di Sostituzione non entri in gioco, sia quanto alla persona del dio, sia quanto al fatto della messa a morte, sia quanto ad entrambe le cose nello stesso tempo.
Così arriviamo all'ipotesi di una crocifissione rituale, realizzata con un gesto rituale che accompagnano parole rituali — ciò in concordanza con tutti i dati della storia delle religioni.
Non ritorniamo alla questione dell'uomo o del manichino o dell'immagine che rappresentava il dio, questione alla quale abbiamo accordato troppa importanza nel nostro primo volume, e che era solo insignificante per i fedeli. Una sola cosa conta: la crocifissione del dio; se quella crocifissione è una crocifissione rituale, la questione è per noi di ricercare quale fosse il gesto e quale la parola in cui consisteva quest'ultimo.
Arrivati sull'alto luogo, diciamo, se si preferisce, sul Calvario, la croce è eretta, sia che la si conficchi in terra sia che la tenga per mano come la cosa si pratica oggi nelle nostre chiese, in particolare alla stazione della crocifissione della Via Crucis. Ma il fatto di erigere la croce non basta a «dare» la crocifissione; occorrono il gesto rituale e la parola rituale.
Quanto al gesto, si deve sapere che, per la Chiesa cristiana come pure per i primitivi, il fatto essenziale della crocifissione (che, in origine, è un'esposizione) è sempre consistito nel sollevare il crocifisso al di sopra del suolo; il crocifisso è dappertutto e sempre, nel cristianesimo come nelle religioni primitive, colui che «è elevato». «Bisogna che il Figlio dell'Uomo sia innalzato», dice per due volte il vangelo secondo san Giovanni 3:14, e 12:34. E non si creda che si tratti dell'Ascensione; i testi evangelici sono espliciti. «Quando sarò stato elevato da terra», fanno dire a Gesù, 12:32, «attirerò tutti a me; parlando così», aggiungono, «indicava di quale morte doveva morire»; altrove, 8:28, è agli ebrei che Gesù dice: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo...»
Benché il dio padre sia comunemente chiamato nella Bibbia l'Altissimo, ci si domanderà se l'espressione «Osanna nei luoghi altissimi» (Matteo 21:9 e Marco 11:10) non si riferisca piuttosto al dio messo in croce. Si dimentica fin troppo, in effetti, che il significato della parola osanna non è «Gloria a...» ma «Vieni in nostro soccorso»; ora, se questo soccorso, la mentalità ebraica e la mentalità cristiana evoluta lo implorano dalla bontà intermittente del dio padre, la mentalità primitiva lo attende dalla virtù sacramentale ed efficace del sacrificio, — il che è molto più sicuro.
Si ricorda, d'altra parte, il racconto del libro dell'Esodo 17:11-12 che riporta come, durante il combattimento contro gli Amaleciti, Mosè alzò la sua mano (o le sue mani), dando così la vittoria a Israele. Altrove, in Numeri 21:6-9, c'è l'episodio del serpente di bronzo che Mosè fa porre su un palo, vale a dire fa crocifiggere; ma che questo fatto sia stato compreso come un atto di «elevazione», il vangelo secondo san Giovanni lo testimonia, nel passo citato sopra, 3:14, precisando: «Come Mosè innalzò il serpente, così bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato».
Dal secondo secolo, il cristianesimo interpretò questi racconti come prefigurazioni della crocifissione di Gesù. [21] Abbiamo esposto come la prefigurazione comporti il più sovente una tradizione antica che si accomoda alle tradizioni nuove. Non ricercheremo qui se i riti riportati (Esodo 17:11-12 e Numeri 21:6-9) siano stati in rapporto con le pratiche dell'antica religione di Gesù, e constateremo semplicemente che sono in rapporto con la crocifissione sacrificale.
Da questi fatti concluderemo, a titolo di ipotesi probabile, che il gesto rituale della crocifissione precristiana, che simboleggiava e in realtà «operava» la crocifissione stessa, consisteva per gli Antichi nell'alzare le mani pressappoco come fa oggi il prete cattolico in ciò che si chiama «l'Elevazione».
Quale parola accompagnava il gesto? Esaminiamo se i vangeli non contengano qualche traccia di una tradizione che ne avrebbe conservato il ricordo. Ora, tutti e quattro raccontano che, quando Gesù comparve davanti a Pilato, la folla gridò: «Sia crocifisso!» (Matteo 18:22-23), oppure, rivolgendosi direttamente al procuratore: «Crocifiggilo!» (Marco 15:13-14; Luca 23:21; e Giovanni 19:15). Già, si può sospettare in questo racconto la trasposizione di una tradizione secondo la quale la parola rituale che ricerchiamo sarebbe stata questa stessa espressione, «Sia crocifisso!», pronunciata dai fedeli e non da una folla ostile, e che precisava il senso del gesto rituale, pressappoco come «Io ti battezzo» precisa oggi il senso della goccia d'acqua deposta sul capo del bambino.
Ma si può andare molto più oltre. Quell'espressione «Crocifiggilo!», che essi prestano alla folla, i vangeli secondo san Luca (18) e secondo san Giovanni (ibid.) la fanno precedere dalla parola: ἄρον, che letteralmente significa: «Togli» all'imperativo. Le traduzioni interpretano: «Toglilo dal mondo», «Fallo morire»...
Le parole rituali sarebbero state: «Sia messo a morte! Che sia crocifisso!»
Un'obiezione ci ha fermato. Se «Che sia crocifisso» è l'espressione corretta che conveniva, questo «Sia portato via!» che significa «Sia messo a morte!» è lungi dall'essere un'espressione così naturale. Il verbo αἴρειν, spesso impiegato nel Nuovo Testamento, lo è quasi costantemente nel senso di togliere, portare via; Gesù dice al paralitico che ha guarito: «Levati e togli il tuo letto» (Matteo 9:6 e paralleli). Il senso di distruggere una cosa è meno frequente; quello di far perire una persona si riscontra solo in un racconto degli Atti 21:36 (ripetuto in 23:22), e sembra essere un richiamo (la situazione è pressappoco la stessa) all'impiego del termine in Luca 23:18 e Giovanni 19:15. Per ritrovare questo impiego del verbo αἴρειν, bisogna discendere fino al Martirio di San Policarpo 3:2 e 9:2, dove sembra avere la stessa origine.
Tra i numerosi impieghi della parola nel senso di rimozione, nonché di distruzione di una cosa, ne notiamo uno che, al contrario, lascia alla parola la pienezza del suo significato. Lo stesso vangelo secondo san Giovanni racconta che il profeta Giovanni scorgendo Gesù gridò (1:29):
— Ecco colui che «toglie» il peccato del mondo.
Qui «tollis» peccata mundi, canterà la Chiesa.
E la prima epistola di San Giovanni ripete (3:5):
Egli è apparso per «togliere» i peccati.
Ora, la rimozione dei peccati, la distruzione dei peccati, è esattamente l'obiettivo del sacrificio di Eliminazione, il quale, lo abbiamo abbondantemente dimostrato, è la forma per eccellenza del sacrificio del dio in generale e in particolare del sacrificio di Gesù.
Le parole rituali del dramma sacro precristiano non erano pronunciate in greco, ma in ebraico (o in aramaico). Il verbo αἶρειν è la traduzione della parola ebraica נשא che attraverso tutto l'Antico Testamento ha il significato di togliere e si applica specialmente all'espiazione dei peccati.
Concludiamo che la parola rituale che, nel dramma sacro precristiano, accompagnava e precisava il gesto rituale della crocifissione era l'imperativo del verbo נשא che è stato tradotto in greco: ἆρον, e che significava:
Togli! Leva i peccati..., il che era esattamente, letteralmente ed essenzialmente lo scopo della crocifissione.
Quanto all'espressione «crocifiggilo», più ipotesi si presentano. Forse è stata inventata dal più antico evangelista per sostituire o spiegare l'espressione «togli», la quale, non dimentichiamolo, non poteva essere impiegata nel senso di «mettere qualcuno a morte», deviandola dal suo uso normale, e per quella ragione sarebbe stata soppressa in seguito. Forse, al contrario, proviene dalla stessa tradizione dell'espressione «togli» ed è appartenuta anch'essa al rituale dell'antico dramma sacro. San Paolo dice infatti, almeno implicitamente, che i peccati sono stati crocifissi con Gesù, [22] il che è sempre la pura dottrina del sacrificio di Eliminazione: l'espressione rituale può essere stata non solo «togli i peccati», ma «togli, crocifiggi i peccati».
È inutile spiegare come la tradizione evangelica si trovò costretta a sostituire al complemento oggetto «i peccati» (togli, crocifiggi i peccati) il complemento oggetto «Gesù» (togli, crocifiggi Gesù), e a mettere queste parole in bocca alla folla ostile, per il fatto che Gesù, al posto di essere crocifisso ritualmente in quanto vittima espiatoria, era rappresentato come condannato dai Romani al supplizio penale della croce sotto la pressione degli ebrei. [23]
Proponiamo quindi per l'antico dramma sacro precristiano lo scenario seguente, al quale manca solo la musica per fare un oratorio all'avanguardia: arrivata la processione sull'alto luogo; la croce è eretta; tutti si prostrano; gli Anziani fanno il gesto e pronunciano le parole rituali; e allora comincia il canto dei lamenti, accompagnato dalla danza funebre.
Le donne si battevano il petto e si lamentavano, dice il vangelo secondo san Luca 23:27, e tutte si battevano il petto, aggiunge, 48.
Così, nel culto di Adone, le donne piangevano la morte del dio, come sapeva benissimo il profeta Ezechiele, 8:14.
Insomma, nient'altra cosa che una cerimonia religiosa, una sorta di Via Crucis che si conclude con una crocifissione rituale, con i canti e i movimenti che avremo il cattivo gusto di chiamare danze sacre. A parte le scene di derisione, qualcosa di non molto diverso da ciò che si svolge nelle nostre cattedrali moderne. Con le scene di derisione, qualcosa di non molto diverso forse da ciò che si è svolto talvolta nelle cattedrali del medioevo.
Tale poteva essere il primo giorno.
Quanto al secondo giorno, nessuna difficoltà. Secondo l'usanza ebraica, esso comincia al tramonto del sole; comprende quindi due parti: una sera, dedicata ad una sepoltura tanto rituale quanto la crocifissione, e il giorno successivo, durante il quale il dio «è nel cuore della terra», e i fedeli restano nel loro riposo.
La morte è un sonno per tutto il cristianesimo primitivo. [24]
Terzo giorno, la resurrezione. — Se un'esitazione è stata possibile quanto al carattere di sostituzione che hanno preso gli episodi della crocifissione e della sepoltura, nessuna è possibile quanto alla maniera in cui era rappresentata la resurrezione. Il tentativo di mostrare il dio emergere dalla tomba e apparire nella sua gloria per mezzo di trucchi, corde ed effetti luminosi, avrebbe singolarmente oltrepassato i mezzi degli uomini che furono i precristiani, ed è fin troppo certo che gli ascensori dei nostri teatri non facevano loro meno difetto che ai miste, eppure di gran lunga più opulenti, di Eleusi.
Si dirà che quella uscita dalla tomba essi avrebbero potuto realizzarla nelle condizioni modeste e rudimentali che furono quelle delle sfilate del medioevo e che sono ancora oggi quelle di certi spettacoli popolari? Ecco ciò che è impossibile ammettere. Il sacrificio è un'operazione materiale che deve essere fisicamente realizzata (per sostituzione o realmente, poco importa), senza cui non vi sarebbe alcun sacrificio; ma non ne è lo stesso della resurrezione. Benché questa sia il complemento di quello, sappiamo che nelle religioni primitive essa poteva non realizzarsi, e di fatto si realizzava solo implicitamente. L'animale-dio sacrificato riviveva nei suoi simili; l'uomo-dio in colui che gli succedeva. La resurrezione, in ogni caso, non si «rappresenta». Neppure si vedeva nelle religioni misteriche Osiride o Adone ritornare in vita. Neppure si doveva vedere Gesù uscire dalla sua tomba nel pre-cristianesimo.
Ad esaminare, in effetti, tanto i quattro racconti evangelici della resurrezione, quanto quello della prima epistola ai Corinzi 15:6-7, si constata che essi sono unanimi nel raccontare che i fedeli hanno visto Gesù apparire loro dopo la sua resurrezione, ma nessuno di loro racconta che l'abbiano visto uscire dalla tomba e abbiano assistito alla resurrezione stessa. Vale a dire che l'evento stesso non è stato visto (almeno dai fedeli). Ora, se nella leggenda l'evento non è stato visto, è perché non era visto nel dramma sacro.
Le apparizioni sono un'altra faccenda; non dimentichiamo che, se la resurrezione è una cosa, l'apparizione è un'altra; si è visto il dio dopo la sua resurrezione, non si è assistito a quest'ultima.
Sembra, quindi che nel dramma sacro la resurrezione invece di essere «rappresentata», sia stata solo... diciamo presunta. Ma in che modo?
Nessuno ha dimenticato il pittoresco e delizioso quadro che con qualche variante hanno tracciato i quattro vangeli. Le Pie Donne, proprio quelle che abbiamo visto figurare nel corteo che saliva al Calvario e che abbiamo sentito lamentarsi sulla morte di Gesù, vanno alla tomba la mattina di Pasqua, vale a dire la mattina del terzo giorno, per portarvi degli aromi; la trovano vuota e sono ricevute da un angelo (alcuni dicono da due angeli) che spiega loro che Gesù era risorto.
Cosa pensare di questo racconto?
Racconto veridico, professa la Chiesa, i fatti essendosi effettivamente svoltisi così. Di fronte a quella affermazione, non abbiamo che da inchinarci; le cose della fede non si discutono.
Alcuni pseudo-studiosi di cento anni fa spiegano: le Pie Donne hanno preso per angeli due infermieri che Giuseppe d'Arimatea aveva inviato e che... Questa volta, accontentiamoci di alzare le spalle.
A malapena possiamo prendere di più sul serio l'ipotesi che vede nei racconti evangelici l'invenzione volontaria degli scrittori.
Degna di attenzione è per contro la tesi di una formazione popolare e folcloristica.
Egualmente degna di attenzione la teoria che fa dei racconti leggendari i simboli di verità spirituali, benché vi sia sempre molto di arbitrario. Forse riusciremo meglio interpretando l'episodio come la messa in leggenda di un mito derivato da riti antichi, accresciuti di un supplemento importante di temi folcloristici.
Se si confronta con quella scena quella che si svolgeva alla celebrazione delle feste di Adone, come Glotz ne ha precisato le condizioni, il parallelismo è impressionante. L'angelo e le Pie Donne svolgono i ruoli del narratore e delle corifee.
Le Pie Donne dapprima. San Paolo, nell'enumerazione precisa e dettagliata che fa, nella prima epistola ai Corinzi 15:5-7, delle persone a cui il Signore risorto è apparso, omette le Pie Donne e mai, né lì né altrove, vi fa la minima allusione. Una delle ragioni di questo silenzio sembra essere che il loro ruolo era stato assolutamente diverso da quello degli uomini che nomina san Paolo. Infatti, il ruolo che è attribuito loro nella leggenda è quello che avevano svolto nel dramma sacro, e questo ruolo era consistito in questo: primo, venire a bagnare con le loro lacrime, lacrime di disperazione poi lacrime di gioia, la tomba del Signore e, secundo, aprire le loro orecchie al racconto dell'angelo, se non dargli la risposta (come vuole san Giovanni, 20:13).
Quanto al ruolo dell'angelo, esso consisteva nel fare il racconto della resurrezione. Si concepisce che san Paolo abbia trascurato questi dettagli della messa in scena.
Ma bisogna citare tutt'intero il racconto evangelico. I quattro vangeli riportano, [25] con una concordanza di fondo che è tanto più impressionante quanto è più rara, che un angelo (Matteo e Marco) (due angeli in Luca e Giovanni) si mostrò alle Pie Donne, che era vestito di una veste bianca abbagliante (che è l'abito di rigore in paradiso) e fece loro un discorso che può riassumersi così:
Perché piangete?...
Non temete nulla; io so che voi cercate Gesù il crocifisso...
o ancora:
Perché cercate tra i morti colui che è vivo?...
Egli non è più qui; egli è risorto...
Ricordatevi di ciò che vi è stato detto, che egli doveva essere crocifisso e risorgere il terzo giorno.
Questo angelo vestito di bianco abbagliante è la trasposizione leggendaria del narratore che, nel dramma sacro, annuncia la resurrezione di Gesù, pressappoco allo stesso modo in cui ad Alessandria era annunciata quella di Adone. Similmente le Pie Donne trasportano dal dramma sacro nella leggenda le corifee (o danzatrici sacre, o narratrici esse stesse, non tenterò di precisare l'impiego che era loro attribuito nella distribuzione dei ruoli) che venivano a piangere il dio sepolto, ad ascoltare il narratore, forse a conversare con lui e a celebrare con la loro mimica o i loro canti il miracolo che si era compiuto. E così si realizzava il rito del terzo giorno, tutto ciò accompagnato da processioni e canti dell'assemblea.
Dopodiché, il pasto sacro.
Il pasto sacro. — Abbiamo ricercato nel nostro precedente volume [26] cosa fosse stato in origine il pasto sacro e come si fosse evoluto.
C'è bisogno di far rimarcare che, nella cerimonia, il pasto sacro segue il sacrificio invece di precederlo come lo raccontarono più tardi i vangeli? [27] Ciò in tutta evidenza: si può mangiare un animale solo dopo averlo immolato; si mangerà l'effigie che è suo sostituto solo dopo aver compiuto il sacrificio.
Resta da determinare il luogo dove si svolge la cerimonia.
Il luogo dove si svolge la cerimonia è quello che in origine è considerato la dimora dove abita il dio e che gli resterà specialmente consacrato.
Abbiamo spiegato al seguito di quali circostanze il culto del dio Gesù poté stabilirsi successivamente, non solo in Galilea, ma in diverse regioni della Palestina, in particolare nella regione che si estende intorno al sito dove si edificò la città di Gerico. Quello studio non può proseguirsi però senza entrare in certi sviluppi. Conviene ricordare inoltre, tanto concisamente quanto possibile, la situazione generale di alcune delle diverse regioni che aveva inglobato l'impero romano, e in particolare quella della Palestina.
NOTE
[1] Dieu Jésus, pagine 96 e seguenti.
[2] Giosuè 8:29.
[3] Lasceremo a lato, a scopo di semplificazione, i culti agrari, nei quali le pratiche primitive si continuarono.
[4] Mystères d'Eleusis, pagina 2.
[5] Si dice più comunemente oggi: pre-ellenica.
[6] Mystères païens, 29, 33 ?
[7] Mystères d'Eleusis, 1914.
[8] Episode de Baubô, Congresso Loisy.
[9] Mystères païens, pagina 75.
[10] Mystères égyptiens, 1911, nuova edizione nel 1922.
[11] Fêtes d'Adonis sous Ptolémée II, Revue des Etudes grecques, 1920, 169.
[12] Revue de l'Histoire des Religions, 1921, n° 249, pagina 229.
[13] In Isaiam, Migne, 70, colonna 441.
[14] Lo spazio ci è sfortunatamente mancato per studiare il ruolo considerevole dell'iniziazione nel dramma sacro, costretti come siamo stati ad attenerci al sacrificio stesso del dio.
[15] Ricordiamo che chiamiamo «pre-cristianesimo» il periodo dell'antica religione di Gesù che ha immediatamente preceduto l'instaurazione del cristianesimo, — precisamente primo secolo prima della nostra era e inizio del primo secolo dopo.
[16] Abbiamo esposto questi fatti nella Source du fleuve chrétien.
[17] Dieu Jésus, pagine 191 e seguenti.
[18] Sull'antico ghilgal che è il Golgota dei vangeli, si veda le Dieu Jésus, pagine 222 e seguenti.
[19] Dieu Jésus, pagine 98 e seguenti.
[20] Mentalité primitive.
[21] Dall'epistola di san Barnaba 12:2 e 5-7, e da Giustino, Dialogo 94:1-4.
[22] Galati 3:24 e Colossesi 2:14-15.
[23] Quella esegesi della parola ἆρον, che non avevamo ancora intravisto quando abbiamo pubblicato il Dieu Jésus, aggiunge un forte argomento all'ipotesi concernente Barabba, esposta in questo volume, pagine 194-196.
[24] Più di venti riferimenti nella Concordanza di Bruder.
[25] Matteo 28:5-6; Marco 16:5-6; Luca 24:4-7 e Giovanni 12-13.
[26] Première génération chrétienne, pagina 59.
[27] Abbiamo spiegato quale ragione ha condotto quest'ultimi a quell'inversione.
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