(segue da qui)
III. — LO SPIRITO SANTO
NEL MANDEISMO
E NEL CRISTIANESIMO
1. LO SPIRITO SANTO NEL MANDEISMO
Il vangelo insegna che tutti i peccati che può commettere un uomo gli saranno perdonati, salvo uno solo che non troverà alcun perdono né nel mondo presente, né nel mondo a venire. Questo solo peccato imperdonabile — i primi tre vangeli sono unanimi nel proclamarlo — è la bestemmia contro lo Spirito Santo.
Perché questa posizione unica riservata alla bestemmia contro lo Spirito Santo, quando la bestemmia contro il Cristo è espressamente dichiarata perdonabile, e la bestemmia contro Dio è implicitamente inclusa nelle altre bestemmie e peccati che saranno perdonati?
Neanche per un istante ci arresteremo all'interpretazione che questi testi hanno ricevuto nella Chiesa. La teologia si è applicata alla costruzione arbitraria di un peccato che, per sua stessa natura e sua definizione, sembra escludere ogni possibilità di perdono. È così venuta ad ammettere che il peccato contro lo Spirito Santo è un atteggiamento mentale ribelle a qualsiasi azione della grazia divina, ma non ha mai spiegato perché il Vangelo designa questo atteggiamento con il termine di «bestemmia», che sembra improprio e oscuro.
Da buon metodo esegetico, conviene esaminare prima di tutto se è possibile prendere alla lettera i termini di un testo. Poiché vi è la parola «bestemmia», comprendiamo che si tratta effettivamente di una bestemmia, e cominciamo col chiederci se tra i contemporanei del cristianesimo primitivo potesse esserci della gente tentata di bestemmiare contro lo Spirito Santo. Non potevano essere gli ebrei, che adoravano lo Spirito Santo come l'ispirazione dei loro libri sacri. Cerchiamo piuttosto tra le religioni concorrenti e le eresie del cristianesimo primitivo, poiché per colpire questo peccato con la sanzione più inesorabile, il cristianesimo ha dovuto annoverare gli uomini che lo commettevano tra i più irriducibili dei suoi avversari.
Esiste una religione sistematicamente ostile allo Spirito Santo, dei testi sacri che sono ricolmi di bestemmie contro di lui. Questa religione, noi la conosciamo: è il mandeismo. Si legge nella Preghiera sacerdotale dell'Uomo-Dio mandeo:
Che io soffra nei figli dei miei discepoli
su cui lo Spirito ha riversato l'impurità
e che ha gettato a terra!...
Loro su cui lo Spirito ha gettato l'immensa impurità:
lussuria, depravazione e fornicazione,
tale che nessuno di loro
possa ascendere alla Luce.
Un po' più avanti, è lo Spirito Santo che, con l'aiuto di sette pianeti suoi figli, ha confezionato l'Antico Testamento, libro di abominazione e di impostura. Negli scritti mandei, lo Spirito Santo è indicato talvolta con la parola spirito e basta (ruha), talvolta espressamente con il nome di Spirito Santo, e il termine mandeo che lo indica così (ruha dqutschah) deriva direttamente dal termine ebraico in uso tra gli ebrei (ruach haqodschah). È dunque in particolare la concezione ebraica dello Spirito Santo che è odiosa ai Mandei, e nel giudaismo, la funzione propria dello Spirito è di aver ispirato i profeti e gli altri autori dei libri sacri. Agli occhi degli ebrei, è equivalente peccare contro lo Spirito Santo e disprezzare la loro Legge. Uno dei loro autori di questi libri tuona contro i suoi avversari: «Essi profanano il loro Spirito Santo aprendo la loro bocca per bestemmiare contro le ordinanze dell'Alleanza di Dio, dicendo: Esse sono caduche. Quello che ne dicono è abominevole». [1]
Si comprende così per qual motivo i Mandei hanno fatto dello Spirito Santo uno spirito del male. Per loro, bestemmiare lo Spirito Santo era il mezzo per emanciparsi dalla Legge ebraica. Questa ostilità contro la Legge ebraica si spiega meglio se si ammette con noi che i Mandei sono ex pagani proseliti, e che dopo aver adottato il giudaismo, in seguito hanno avuto un cattivo rapporto con la sinagoga e si sono rivoltati contro di essa. Al posto della rivelazione ebraica per mezzo dello Spirito Santo essi hanno sostituito un altro modo di rivelazione, lo stesso che era alla base del pitagorismo: la rivelazione da parte di un essere divino disceso dal cielo sulla terra.
Questo rivelatore divino, per loro, era Giovanni. Come Pitagora, Giovanni, negli scritti mandei, è un essere divino disceso dal cielo. Egli nasce «dall'Alto», e quando nasce, sua madre è una donna anziana e suo padre non ha conosciuto donna da ventidue anni. Il bambino, disceso dai luoghi più alti, è trovato nel bacino del Giordano e introdotto nel corpo di Elisabetta, dove è celato per nove mesi (Libro di Giovanni 70, 72, 76, 116, 121).
È questo rivelatore divino disceso dal cielo che da solo ha portato la vera rivelazione. L'altra rivelazione tramite i libri ispirati dallo Spirito Santo non è che impostura. È per questo che i Mandei bestemmiano contro lo Spirito Santo, e quando i Vangeli dichiarano che il solo peccato imperdonabile è la bestemmia contro lo Spirito Santo, essi polemizzano contro i Mandei. L'eccezionale gravità della sanzione permette di apprezzare fino a che punto gli autori dei Vangeli temessero la concorrenza dei Mandei, la cui dottrina ostile allo Spirito Santo minacciava un principio essenziale del cristianesimo nascente. [2]
2. LO SPIRITO SANTO
NEL CRISTIANESIMO ARCAICO
Il cristianesimo nascente, nei suoi scritti più arcaici, come l'Apocalisse di Giovanni e le Epistole paoline, cerca per un'altra via di emanciparsi dalla Legge ebraica. Esso mantiene la rivelazione per mezzo dello Spirito Santo, ma per lui questa rivelazione non è più un fatto che si è prodotto una volta per tutte nel passato, e che ormai è conservato come pietrificato nei libri sacri; è una rivelazione vivente, una forza che si manifesta attualmente nei credenti, mediante l'estasi e il dono di parlare in lingue, la «glossolalia».
Per mezzo dell'estasi, come spiega Paolo, 2 Corinzi 12:2-4, il credente è rapito al terzo cielo o al paradiso, senza che si sappia esattamente se è rapito con il corpo o senza. Egli vi intende parole ineffabili. Oppure vede il cielo aperto e, come nell'Apocalisse, contempla Dio faccia a faccia.
La glossolalia non è ancora quello che diventerà più tardi, nel racconto della Pentecoste: il dono miracoloso di parlare in lingue straniere senza averle mai apprese. La parola «lingua» (glossa) ha anche qui il significato che aveva in Aristotele e in altri autori greci: parole profetiche incomprensibili o enigmatiche, che richiedono di essere interpretate da sacerdoti o profeti particolarmente qualificati. In Diodoro 4:66, il termine è impiegato a proposito della Sibilla, in Plutarco (De Pyth. orac. 406) a proposito della Pizia, in Aristofane (Ran. 353) a proposito delle baccanti. [3] Nel periodo arcaico del Nuovo Testamento, la glossolalia è ancora il fenomeno descritto in 1 Corinzi 12 e 14, che consiste nel proferire suoni inarticolati e parole sconnesse. Per dare a queste espressioni un significato comprensibile, sono necessari profeti che abbiano ricevuto da Dio una grazia speciale: il dono «di interpretare le lingue» (1 Corinzi 12:10).
La glossolalia cristiana non era una innovazione. In Isaia 28, il profeta si fa beffe dei sacerdoti pagani che proferiscono sillabe senza senso. Secondo TAUFIK CANAAN (Dämonenglaube im Lande der Bibel, Lipsia, 1929, pag. 46), esistono ancora attualmente in Palestina uomini che si sentono attratti verso Dio da una forza irresistibile, al punto di perdere il loro equilibrio mentale: essi proferiscono dei suoni incomprensibili come farebbe un pazzo. È quello che si definisce un mağdūb, dal verbo ğadaba, tirare, perché egli si sente tirato, attratto da Dio, al contrario del mağnūn, che è un uomo posseduto da uno spirito maligno. Anche se diametralmente opposti in teoria, questi due fenomeni presentano praticamente una tale analogia che nel linguaggio comune i due termini sono comunemente scambiati uno per l'altro.
Allo stesso modo Filone ci insegna che lo Spirito di Dio, quando si impadronisce di un uomo per manifestarsi attraverso il suo organo, comincia ad «oscurare» la sua intelligenza naturale. Il termine tecnico che impiega per «oscurare» è épiskiazein, e vedremo più avanti la sorte curiosa che si procurerà a questo verbo, prima nel racconto della nascita di Giovanni il Battista, poi in quello della nascita di Gesù.
I due modi di rivelazione, la rivelazione mandea per mezzo di un rivelatore disceso dal cielo e la rivelazione cristiana per mezzo delle manifestazioni estatiche dello Spirito Santo, si contrastano con un sorprendente rilievo nel racconto della conversione dei dodici discepoli di Giovanni il Battista ad Efeso, Atti 19:2-7.
Paolo domanda ai discepoli di Giovanni il Battista se hanno ricevuto lo Spirito Santo. Rispondono: «Non abbiamo nemmeno sentito dire se esiste uno Spirito Santo». Dopo che sono stati battezzati nel nome di Gesù e che Paolo ha imposto loro le mani, lo Spirito Santo discende su di loro. Subito parlano in lingue e profetizzano.
Questo testo fa emergere nettamente la differenza fondamentale tra la rivelazione mandea e la rivelazione cristiana. I Mandei ignorano o rigettano lo Spirito Santo, ma non appena sono diventati cristiani mediante il battesimo e l'imposizione delle mani, lo Spirito Santo si manifesta in loro tramite i doni della glossolalia e della profezia.
I testi sacri ci hanno conservato due esempi di fonemi emessi dai glossolali del cristianesimo primitivo, con l'interpretazione che ne hanno dato i profeti incaricati di tradurli in linguaggio comprensibile. Siamo così in condizione di apprezzare il ruolo fondamentale che la glossolalia ha svolto nella costituzione della dottrina cristiana.
Il primo di questi fonemi è costituito dai suoni più elementari del linguaggio umano, quelli che può già emettere il bambino al seno, perché per produrlo basta un movimento delle labbra analogo a quello della suzione: un labiale, m, b o p, accompagnato dalla vocale a. Da questi elementi si formano le prime parole balbettate dal bambino: mama, che indica la mammella o la madre, e papà, bab, ab o abba, che indica il padre. I glossolali, la cui intelligenza era oscurata dall'estasi, ricadevano in questi balbettii infantili. Soprattutto il fonema abba sembrava tornare spesso nelle loro espressioni, almeno questo è ciò che credevano di poter distinguere i profeti incaricati di interpretarli. Ed ecco l'interpretazione che hanno dato di questo fonema, così come è riprodotta nelle Epistole paoline:
Galati 4:6ss: «E, perché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: Abbà! Padre! Così tu non sei più servo, ma figlio; e se sei figlio, sei anche erede per grazia di Dio».
Romani 8:15ss: «E voi non avete ricevuto uno spirito di servitù per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: Abbà! Padre! Lo Spirito stesso rende testimonianza con il nostro spirito che siamo figli di Dio. Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui».
Il significato di questi passi è chiaro: è perché lo Spirito Santo, che è lo Spirito del Cristo, per mediazione del glossolalo, grida Abbà! che Dio è il Padre del Cristo, e il Cristo è suo Figlio. E d'altra parte: è perché il credente, per mezzo dello Spirito Santo, grida Abbà! che il credente è anche figlio di Dio, e di conseguenza coerede del Cristo. Questa è la dottrina delle Epistole paoline.
Ritorniamo ora al nostro bambino: dopo i labiali, egli impara a pronunciare i linguali d e t. Non ho bisogno di insistere sul ruolo che il fonema dada ha avuto in una scuola d'arte moderna dove era diventato il simbolo di una tendenza che, per risalire alle manifestazioni dell'istinto primitivo, pretendeva, come faceva il cristianesimo arcaico, di scartare ogni intervento della ragione, della logica e della riflessione.
I profeti interpreti dei balbettii glossolalici avevano creduto di comprendere la parola atha, che significa: Vieni! Ecco perché leggiamo alla fine di quella raccolta di visioni estatiche che è l'Apocalisse di Giovanni: «E lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!» (12:17). La sposa che dice: Vieni! è quella del Cantico dei Cantici. Lo Spirito che dice: Vieni! è lo Spirito che anima i glossolali che gridano atha, grido di cui si è anche fatto maranatha: Signore, vieni! oppure: Il Signore viene (1 Corinzi 16:22).
Questa maniera di interpretare i fonemi più elementari del linguaggio umano può sembrare eccessivamente ingenua, ma resta nondimeno il fatto che per l'autore delle Epistole paoline queste rivelazioni costituiscono la base stessa della sua teologia. Vi è là quella Sapienza divina che è follia agli occhi degli uomini, ma per mezzo della quale è piaciuto a Dio di confondere la sapienza di questo mondo, nella fattispecie la filosofia dei Greci; è «la Sapienza di Dio, misteriosa e nascosta, che Dio, prima dei secoli, aveva destinato per la nostra gloria». Queste cose, «A noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito, perché lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1 Corinzi 2:11).
Il lettore moderno del Nuovo Testamento si fa generalmente un'idea molto evoluta di questa rivelazione dello Spirito che sonda le profondità di Dio. Non si accorge a qual punto distorce il senso delle Scritture. Collocati nel loro contesto storico e geografico, questi testi ci insegnano che si tratta di semplici farfugliamenti come abba e atha, proferiti da poveri nevrotici nelle loro crisi di esaltazione.
Se abbiamo a volte difficoltà a comprendere le Epistole paoline, non è che manchiamo di intelligenza; è piuttosto che siamo troppo intelligenti. È necessario rifarsi un'anima di bambino per comprendere le cose che sono del Regno di Dio.
3. LO SPIRITO SANTO
NEL CRISTIANESIMO GIOVANNEO
Ancora attualmente, in certi circoli come per esempio i circoli spiritualisti, dei fenomeni nervosi perfettamente paragonabili alla glossolalia sono presi per manifestazioni dell'aldilà. Da questo punto di vista, i progressi che abbiamo fatto dall'antichità non sono così evidenti come si potrebbe desiderare.
Se queste rivelazioni ci lasciano scettici, i contemporanei dei primi cristiani non lo erano meno di noi. Nel passo classico sulla glossolalia, 1 Corinzi 12 e 14, l'autore si rende già perfettamente conto degli inconvenienti di queste manifestazioni dello Spirito: non servono all'edificazione della comunità; le paragona a un flauto o a un'arpa incapace di emettere suoni diversi, a una tromba il cui timbro non sarà chiaro. Benché si gloria in Dio di sorpassare tutti i suoi lettori nell'arte della glossolalia, dichiara che nell'assemblea preferirà pronunciare cinque parole comprensibili piuttosto che migliaia in lingue.
Tuttavia, in 14:22, l'autore conta ancora sull'impressione che la glossolalia può produrre sui non-credenti. Ma nei versi seguenti 23-25, che sono una piccola interpolazione con ripresa, [4] l'interpolatore ha già compreso benissimo che la glossolalia è inadatta a convincere coloro che non sono in anticipo prevenuti a suo favore, che al contrario rischia di scandalizzarli. Si immagina facilmente il quadro che evoca: La comunità è riunita, e ciascuno si mette a proferire dei suoni inarticolati, cercando di sorpassare il suo vicino con le alterazioni dei suoi farfugliamenti, al fine di mostrare la maggior parte della grazia che gli è toccata in sorte. I non iniziati e i non credenti (idiôtaï kaï apistoï) sopraggiungono, e credono di essersi imbattuti in un manicomio. Diffonderanno per la città che i cristiani sono dei folli (erousin hoti maïneste). Abbiamo appena visto che in Palestina il popolo confonde ancora attualmente il maǧdūb, il glossolalo posseduto da Dio, con il maǧnūn, l'uomo posseduto dal diavolo, il folle. E nel racconto della Pentecoste i glossolali sono presi per persone «ebbre di vino dolce».
L'estatico che ascendeva al cielo, vi udiva parole ineffabili e vedeva Dio faccia a faccia, lasciava il profano altrettanto scettico. Si prendevano questi illuminati per psicopatici, a meno che non li si prendeva per dei volgari mistificatori.
Queste critiche erano tanto più pericolose in quanto il cristianesimo doveva sopportare un'aspra lotta competitiva contro i seguaci del Battista e contro quelli di Pitagora che, al posto della rivelazione per mezzo dello Spirito, avevano un altro modo di rivelazione che sfuggiva a questi inconvenienti: la rivelazione da parte di un essere divino disceso dal cielo, come Giovanni il Battista «nato dall'Alto» o Pitagora, figlio di Apollo, esseri leggendari o semi-leggendari la cui vita e rivelazioni erano consegnate in un libro venerato, che aveva l'autorità di un testo sacro.
Ma il cristianesimo non era ancora una religione pietrificata, arenata nei metodi tradizionali; era ancora giovane, pieno di vita, abbastanza flessibile per adattarsi alle circostanze.
Vedendosi svantaggiato dal suo modo di rivelare, si affretta a cambiare tattica. Bruscamente, nega la rivelazione da parte dello Spirito, e adotta il modo di rivelazione dei suoi avversari: la rivelazione da parte di un essere divino disceso dal cielo. Non restava altro da fare che di redigere il racconto della sua vita terrena e delle sue rivelazioni.
Il visionario dell'Apocalisse affermava di aver contemplato Dio faccia a faccia. Il Vangelo di Giovanni, nella conclusione del suo prologo, gli rinfaccia una brutale negazione: «Nessuno ha mai visto Dio; il Figlio unico, che è nel seno del Padre, è colui che lo ha fatto conoscere» (1:18). Un po' più oltre, insiste: «Non che alcuno abbia visto il Padre, se non colui che è da Dio, è lui che ha visto Dio» (6:46). E la prima Epistola di Giovanni ripete: «Nessuno ha mai visto Dio» (4:12). [5]
L'autore delle Epistole paoline conosceva un uomo che l'estasi ha trasportato al terzo cielo. Il Vangelo di Giovanni gli oppone una negazione altrettanto categorica: «E nessuno è salito in cielo, se non colui che è disceso dal cielo: il Figlio dell'uomo» (3:13). Il punto di polemica che contiene questo passo è stato ben realizzato da BEVAN, in «Sibylls and Seers», opera sulla quale il dottor COUCHOUD ha richiamato la mia attenzione, come pure sull'importanza fondamentale dei due modi di rivelazione.
Un altro passo del Vangelo di Giovanni sembra rigettare in una maniera generale tutte le manifestazioni dello Spirito (3:34): «Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio, Dio infatti non dà lo Spirito con misura». Penso che si debba parafrasare: Dio non dona il suo Spirito per piccole porzioni, in rivelazioni frammentarie come l'estasi e la glossolalia; egli ha dato tutta la pienezza in una sola volta al suo Figlio, il grande Rivelatore.
Così il Cristo, essere celeste che i farfugliamenti dei glossolali avevano proclamato Figlio di Dio, diventa inoltre, nel periodo della reazione contro la glossolalia, un rivelatore del tipo di Pitagora o del Giovanni dei Mandei, vale a dire discende dal cielo sulla terra per proclamarvi le verità eterne. D'ora in poi, come per Giovanni e come per Pitagora, si potranno fabbricargli delle biografie che saranno nello stesso tempo raccolte delle sue rivelazioni. Si daranno a questi scritti il nome di Vangeli.
L'adozione da parte del cristianesimo di un modo di rivelazione di origine anticristiana era un'innovazione audace che non ha potuto essere imposta senza provocare l'opposizione dei seguaci della glossolalia, degli ambienti in cui circolavano le Epistole paoline. Una testimonianza di questa opposizione ci è stata conservata. Si legge in Romani 10:6:
Non dire in cuor tuo: «Chi salirà in cielo?» — questo è farne scendere Cristo. — Né: «Chi scenderà nell'Abisso?» — questo è far risalire Cristo.
Domandare: «Chi salirà in cielo?» equivale ovviamente a negare, come lo fa il Vangelo di Giovanni: «Nessuno è mai salito in cielo». Il rimprovero di aver fatto discendere il Cristo dal cielo e di averlo fatto risalire dal soggiorno dei morti per farlo vivere sulla terra come il Rivelatore dei Mandei e dei pitagorici non può rivolgersi che al Vangelo di Giovanni, o alle persone schierate dalla sua parte.
Quel passo è una citazione corrotta dell'Antico Testamento (Deuteronomio 30:11-14). Al contesto conviene solo la citazione corretta, che non comporta la replica al Vangelo di Giovanni. Il passo non esisteva, né con il testo corretto né con il testo corrotto della citazione, nell'edizione marcionita delle Epistole paoline come la ha ricostruita Harnack. Il punto contro il Vangelo di Giovanni è quindi posteriore al testo primitivo dell'Epistola.
Contro la nostra interpretazione del Vangelo di Giovanni si potrebbe sollevare un'obiezione: Compreso come abbiamo appena fatto, questo scritto sembra volgersi in un circolo vizioso. Esso insegna che non esiste rivelazione per mezzo dello Spirito Santo, ma soltanto da parte del Rivelatore disceso dal cielo, Gesù. Tutte le righe del racconto convergono verso la rivelazione capitale che Gesù farà infine ai suoi discepoli alla vigilia della sua morte, e quella rivelazione capitale, il punto culminante di tutto il vangelo, consiste in questo:
Allo stesso modo in cui Giovanni il Battista è stato mio precursore, così io stesso non sono che il precursore della rivelazione finale che verrà dopo di me. È lui che vi rivelerà tutta la verità, che io ho potuto solo parzialmente rivelarvi. Questo rivelatore definitivo invece sarà il Paraclito, [6] e il Paraclito è... lo Spirito Santo.
Non valeva la pena lottare con tanta veemenza contro la rivelazione per mezzo dello Spirito Santo per condurre, in fin dei conti, dopo aver girato in tondo, di nuovo alla rivelazione per mezzo dello Spirito Santo.
Questa obiezione sembra seria. Io credo tuttavia poter fare a meno di rispondere, perché le è già stato risposto in anticipo. Nella Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft, 1925, Hermann Sasse ha dimostrato che, nei discorsi di addio del Vangelo di Giovanni, la parte 13:31-14:31 è un'interpolazione. Essa costituisce un doppione dei capitoli dal 15 al 17, che costituiscono la prima stesura dei discorsi di addio. Si tratta di una seconda edizione di quei discorsi, originariamente destinata a sostituirsi alla prima, ma nel nostro testo attuale è venuta ad aggiungersi. Nella prima edizione, la missione del Paraclito era di rivelare interamente la verità parzialmente annunciata da Gesù; nella seconda edizione, il suo ruolo si limita a ricordare quel che Gesù ha detto. Riteniamo che nell'intervallo che separa le due stesure, la Chiesa sia passata da un periodo di innovazione e di creazione ad un periodo di consolidamento. Non si tratta più d'ora in avanti di rivelare nuove verità, ma solo di confermare e di accreditare quelle che sono consegnate nei testi sacri.
Ora, è unicamente in questa seconda redazione che il Paraclito è identificato allo Spirito. Nella prima redazione, se si esclude la piccola parte della frase interpolata 15:26, il Paraclito non è lo Spirito. Appare come un uomo in carne e ossa. Sasse pensa che è l'autore del Vangelo a raccomandarsi così lui stesso come il rivelatore definitivo delle verità divine. È forse altrettanto legittimo pensare che l'autore del Vangelo raccomandi uno dei suoi contemporanei, l'ispiratore o il capo del gruppo religioso al quale appartiene, e di cui è lui stesso uno zelante propagatore.
Sia come sia, il Vangelo di Giovanni, nella sua prima stesura, non conosce che un Paraclito in carne e ossa. Egli è ostile al principio della rivelazione per mezzo dello Spirito. Eppure, il Vangelo di Giovanni resta il Vangelo spirituale. È necessario rinascere in Spirito, è necessario adorare Dio in Spirito. Ma la concezione giovannea dello Spirito non è più quella del cristianesimo apocalittico e paolino: lo Spirito non è più esterno all'uomo, non è più quell'essere celeste, ardente, pesante, emanato da Dio, che cade violentemente, tra il tumulto degli elementi, e che si manifesta nell'estasi e nella glossolalia. La concezione giovannea dello spirito è vicina a quella che abbiamo trovato nel primo autore di Atti: [7] Lo Spirito è una forza interiore, uno dei poteri dell'anima, una virtù, come la fede o la sapienza, o la gioia, con le quali ci piace associarlo. Lo Spirito è opposto alla carne. Impone catene che la carne ignora. Ha passioni proprie, temibili, trascendenti. Ama, si attrista, si irrita... Non balbetta, non banalizza.
Gli scritti giovannei non sono i soli che ha prodotto la reazione contro il paolinismo e la glossolalia. Dal testo classico sulla glossolalia, 1 Corinzi 12 e 14, abbiamo già evidenziato la piccola interpolazione con ripresa 14.23-25, che è molto scettica a riguardo di questa manifestazione dello Spirito. Tra i capitoli 12 e 14 si interpone un'altra interpolazione con ripresa egualmente ostile alla glossolalia: è l'Inno alla Carità che costituisce il capitolo 13 (la ripetizione si fa sulle parole zêlouté dé ta charismata 12:23, e zêlouté dé ta pneumatika 14:1):
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli,
ma non avessi la carità,
sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
E più oltre, nel verso 8:
Le profezie scompariranno,
il dono delle lingue cesserà
e la gnosi svanirà...
I balbettii infantili dei glossolali sembrano intravisti al verso 11:
Quand'ero bambino,
parlavo da bambino,
pensavo da bambino,
ragionavo da bambino.
Ma, divenuto uomo,
ciò che era da bambino l'ho abbandonato.
La tendenza anti-paolina non è meno netta: la fede è destituita del suo rango di prima delle virtù teologali, per far posto alla carità. Forse va visto anche un punto polemico contro il temperamento violento dell'autore delle Epistole paoline in allusioni come queste:
La carità non si irrita...
La carità non si gonfia di orgoglio...
La carità è paziente.
BUONAIUTI ha dimostrato che il termine carità (agapê), nell'accezione religiosa del termine, è di origine alessandrina. [8] È un tratto in più che attesta il legame di parentela tra l'Inno alla Carità e il Vangelo di Giovanni.
Come questo Vangelo, l'Inno alla Carità interpolato nella Prima Epistola ai Corinzi è un testo ostile alla rivelazione paolina per mezzo dello Spirito Santo.
4. LO SPIRITO SANTO
NEL CRISTIANESIMO CATTOLICO
Al periodo arcaico e al periodo giovanneo del cristianesimo succede il periodo cattolico, che si annette e si assimila gli scritti dei periodi precedenti. Nella prima edizione del Vangelo di Giovanni, il Paraclito era un uomo in carne e ossa, in quanto rivelatore di verità divine superiore persino a Gesù. È evidente che la Chiesa, quando si è annessa questo scritto, non ha potuto lasciar sussistere tale eresia. Occorreva rendere innocuo il termine Paraclito, e svuotarlo del veleno dell'eresia che conteneva, mediante un procedimento che spesso ha avuto successo: procurandogli un'altra interpretazione. Prima di tutto, tentò di fare del Paraclito Gesù stesso. Ecco perché leggiamo nella prima Epistola di Giovanni 2:1: «Se qualcuno commette un peccato, noi abbiamo un Paraclito [9] presso il Padre: Gesù Cristo, che è giusto». Ma questa identificazione del Paraclito con Gesù era incompatibile con la distinzione nettissima che il Vangelo stabilisce tra i due. Dovette ben presto cedere il posto all'identificazione del Paraclito con lo Spirito Santo come lo abbiamo trovato nella seconda stesura dei discorsi d'addio.
Quest'ultima fase dell'evoluzione dell'idea del Paraclito doveva dar luogo ad un singolare malinteso. Abbiamo visto che il termine greco del Paraclito può assumere diversi significati, tra cui quello di avvocato. Quando i cristiani hanno dovuto rispondere della loro fede davanti ai tribunali romani, hanno creduto di vedere, nel titolo di avvocato dato allo Spirito Santo, la promessa che lo Spirito Santo sarebbe stato il loro avvocato. È per questo che hanno messo in bocca a Gesù questa promessa (Luca 12:10ss.): «Non preoccupatevi di di quello che direte a vostra difesa; lo Spirito Santo vi ispirerà in quel momento stesso quello che dovrete dire».
Nel periodo cattolico, lo Spirito diventa di nuovo quello che era nel periodo arcaico: qualcosa di esterno all'uomo, scaturito da Dio. Ma non gli rende più il suo antico ruolo di agente della rivelazione; il periodo delle rivelazioni è chiuso. Il Paraclito-Spirito Santo non dovrà più far altro d'ora in avanti che ricordare ai discepoli ciò che Gesù ha detto loro. È il Figlio ad essere il rivelatore, come nel periodo giovanneo; ma al contrario di quest'ultimo, la rivelazione da parte del Figlio non si oppone più a quella dell'Antica Alleanza: essa la continua. Nel Vangelo di Giovanni, tutti coloro che sono venuti prima del Figlio, vale a dire Mosè e i profeti dell'Antico Testamento, sono dichiarati ladri e briganti (10:8), e il Figlio stesso non è che un rivelatore parziale e provvisorio, precursore del rivelatore definitivo che sarà il Paraclito. Negli scritti cattolici, al contrario, il Figlio diventa lui stesso il rivelatore definitivo, colui che continua, completa e chiude la serie di rivelazioni dell'Antica Alleanza.
È quanto proclama fin dal suo primo verso l'Epistola agli Ebrei , in un ampio periodo con allitterazioni sulla lettera pi, [10] come pure nei periodi egualmente pomposi che servono da esordio ai due scritti lucani:
Dio, che aveva già parlato in passato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi tempi, ci ha parlato per mezzo del Figlio...
Ma se lo Spirito Santo, nel cristianesimo cattolico, ha definitivamente perduto la sua funzione di rivelatore, acquisisce una nuova qualità: quella di una cosa sacra la cui manipolazione è riservata alla gerarchia, ai legittimi successori degli apostoli. Troviamo questa nuova attribuzione in particolare nel secondo autore degli Atti: quando i Samaritani si convertono al cristianesimo, il diacono Filippo ha il diritto di dare loro il battesimo, ma non ha il potere di conferire loro lo Spirito Santo. È necessario a questo fine che gli apostoli autentici Pietro e Paolo si spostino, e che facciano apposta il viaggio in Samaria (Atti 8).
Questa è la nuova funzione dello Spirito Santo. Non siamo più nel periodo arcaico, con le sue rivelazioni di una grossolana, ma robusta ingenuità; né alla rivelazione da parte del Paraclito, uomo in carne e ossa, istruttore di grande rilievo, genio religioso di elevata portata spirituale e filosofica. La rivelazione diventa di nuovo ciò che era nell'ebraismo: un fatto passato, definitivamente chiuso, consegnato e codificato nei testi sacri. Lo stesso Spirito Santo è disciplinato, addomesticato, prigioniero della gerarchia.
Così si chiude il cerchio. Emancipatorio e rivoluzionario nei suoi inizi, il cristianesimo diventa a sua volta conservatore. Qualsiasi innovazione gli diviene sospetta. D'ora in poi, è al di fuori di esso che avverranno le manifestazioni dello Spirito, le rivelazioni, le grandi creazioni spirituali.
Tra i testi cattolici del Nuovo Testamento che trattano dello Spirito Santo, ve ne sono due che tratterranno più particolarmente la nostra attenzione: il racconto dell'effusione dello Spirito il giorno della Pentecoste, e il racconto lucano della nascita di Giovanni il Battista, che ci permetterà di distinguere tre tappe successive nell'evoluzione della leggenda di Giovanni il Battista.
NOTE
[1] Scritto di Damasco pubblicato da SCHECHTER nel 1910: Documents of Jewish Sectaries. Vol. 3: Fragments of a Zadokite Work.
[2] Per il problema sinottico dei testi sulla blasfemia contro lo Spirito Santo, si veda Appendice pag. 201.
[3] Testi citati da LEISEGANG, Pneuma Hagion, pag. 118.
[4] Si veda appendice 1.
[5] Per la priorità di Giovanni sui sinottici, si veda il mio «Documento 70» (Strasburgo 1923), dove ho abbozzato una critica dei motivi per i quali la teologia tedesca ha classificato cronologicamente i Vangeli nell'ordine inverso.
[6] Paraclito è un termine ispirato alla filosofia alessandrina di Filone. Nel Vangelo di Giovanni, ha il senso di supplente, sostituto. Può anche prendere il senso di intercessore, avvocato, ed è così che lo interpreterà la 1° Epistola di Giovanni. Infine può anche avere il senso di consolatore; è il senso che gli sarà dato dalla Chiesa e dalle versioni correnti.
[7] P.-L. COUCHOUD e R. STAHL, Les deux auteurs des Actes des Apôtres (Revue de l'Historie des Religions, gennaio-marzo 1928).
[8] ERNESTO BUONAIUTI, I vocaboli d'amore nel N.T. (Saggi di Filologia e di storia del N.T.), Roma 1907.
[9] Paraclito ha qui il significato di intercessore. Si veda nota a pag. 75.
[10] Sulle prime quattro parole dell'Epistola agli Ebrei, tre cominciano con pi, e la quarta non è che il particolare congiuntivo kai (et), di un valore tonico e fonetico pressappoco nullo. Nel Vangelo di Luca, le prime tre parole contengono quattro sillabe che cominciano con pi.
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