mercoledì 15 settembre 2021

L'Apollo gioannita

(segue da qui)

 VI. — L'APOLLO GIOANNITA

Nella leggenda mandea della nascita di Giovanni, i sacerdoti ebrei, nemici implacabili dei Mandei, sono colpiti da stupore per i segni che annunciano la nascita del grande rivelatore mandeo. Per tre volte ripetono che Giovanni «sarà chiamato profeta (nabi) a Gerusalemme». [1]

Un nabi, per i Mandei, è un profeta ebreo, dunque un profeta di impostura, un uomo ispirato da quel potere delle tenebre che è lo Spirito Santo. Quando l'autore mandeo fa dire ai sacerdoti ebrei che Giovanni sarà chiamato profeta a Gerusalemme, ciò significa dunque che gli ebrei accaparreranno il rivelatore mandeo e ne faranno un nabi, un profeta a loro maniera, un profeta ispirato dallo Spirito Santo. 

Nella fonte ebraica del Vangelo dell'infanzia abbiamo constatato che gli ebrei hanno effettivamente fatto di Giovanni un profeta ispirato dallo Spirito Santo. È forse a questo scritto, o a uno scritto di questo genere, che il testo mandeo fa allusione. 

Ma se gli ebrei hanno fatto del rivelatore mandeo un profeta a loro maniera, ciò non significa che ne abbiano fatto un profeta alla maniera classica, un profeta del tipo di Isaia o di Geremia. Fin da Daniele, il profetismo ebraico si manifestava esclusivamente sotto la forma apocalittica. «Giovanni sarà chiamato profeta a Gerusalemme» non può dunque significare che una cosa: gli ebrei faranno di Giovanni un visionario del tipo degli autori di apocalissi. 

In questo caso, gli ebrei dovevano essere tentati di attribuire a Giovanni uno dei numerosi testi apocalittici che si fabbricavano allora, e forse non è impossibile identificare, con un certo grado di probabilità, il testo apocalittico al quale essi prestarono l'autorità del loro profeta Giovanni. 

Secondo la fonte ebraica dei testi su Giovanni il Battista nei nostri Vangeli, la predicazione di Giovanni aveva per scopo di annunciare l'imminenza della fine del mondo. Noi conosciamo giustamente un'apocalisse che ha lo stesso intento, ed essa circola ancora attualmente sotto il nome di Giovanni. Secondo la tradizione cristiana, questo Giovanni sarebbe Giovanni l'Apostolo, fratello di Giacomo e figlio di Zebedeo, il discepolo prediletto, l'autore del Quarto Vangelo. Ma fin da VISCHER si sospetta che il testo primitivo fosse ebraico, anche se negli ultimi anni questa tesi è stata combattuta dal teologo tedesco Lohmeyer. Se si ammette un originale ebraico, è ovvio che l'apostolo Giovanni non ha potuto esserne l'autore. Ma è possibilissimo che l'attribuzione di questo scritto a Giovanni l'Apostolo sia dovuta ad una semplice sostituzione dell'apostolo con il suo omonimo, il visionario e profeta, sostituzione che ha permesso al cristianesimo di annettersi e cooptare uno scritto che era ebraico per sua origine e sua ispirazione. 

Contro la tesi dell'origine ebraica dell'Apocalisse di Giovanni è stato obiettato che manca a questo scritto uno dei tratti caratteristici della letteratura apocalittica degli ebrei: le apocalissi ebraiche sono generalmente precedute da una nota biografica sui loro presunti autori. Così, per citare solo la più conosciuta: l'Apocalisse di Enoc è preceduta da una nota sulla vita di Enoc.

Ma chi ci dice che l'Apocalisse di Giovanni non fosse all'origine preceduta da una biografia del suo presunto autore, il profeta Giovanni? Di questa biografia possederemmo perfino il primo episodio, il racconto della nascita di Giovanni, nella fonte ebraica del Vangelo dell'Infanzia in Luca, così come alcuni echi dei successivi episodi nei passi dei Vangeli sul ministero e la predicazione di Giovanni. Questa biografia del profeta Giovanni avrebbe quindi costituito all'origine la prima parte della sua apocalisse, e la separazione delle due parti nel cristianesimo si spiegherebbe facilmente come conseguenza della sostituzione dell'apostolo Giovanni al profeta Giovanni. Tra l'Apocalisse e il Vangelo dell'Infanzia esiste una parentela di stile e di tendenza tanto sensibile quanto può esserlo in due scritti che trattano materie così diverse come una biografia e una raccolta di visioni. Essa è particolarmente evidente negli inni, che da entrambe le parti sono centoni costituiti da passi ispirati alla versione greca dell'Antico Testamento. 

L'Apocalisse del profeta Giovanni esordisce con sette Messaggi rivolti a sette chiese dell'Asia Minore. Questi Messaggi sono violentemente aggressivi. Essi combattono:

...quelli della sinagoga di Satana

i cosiddetti giudei,

 non lo sono, ma mentono!

(Messaggio a Filadelfia

Oppure ancora:

... i cosiddetti apostoli 

 e non lo sono! 

e li hai trovati bugiardi.

(Messaggio a Efeso

Chi altri se non un ebreo poteva rimproverare ai suoi avversari di essere falsi ebrei della sinagoga di Satana, di non essere veri ebrei della sinagoga di Dio? Sotto la sua leggera vernice cristiana, peraltro facilmente rimuovibile, lo sfondo dei sette Messaggi è quindi uno scritto di origine ebraica. È vero che i Messaggi sono rivolti agli «angeli delle sette chiese», ma il termine greco tradotto per «chiesa» significa propriamente «comunità, assemblea», e si applicava alle comunità ebraiche della dispersione prima di essere esteso alle comunità cristiane. Il termine «angelo» significa propriamente «inviato, delegato». «Delegato della comunità» è la traduzione letterale dell'ebraico scheliach zibbour, termine tecnico del linguaggio delle sinagoghe che indica il presidente dell'assemblea. [2] I sette Messaggi erano quindi rivolti ai presidenti di sette sinagoghe dell'Asia Minore. 

Allo stesso modo, quando i sette Messaggi combattono i «cosiddetti apostoli», bisogna intendere questo termine apostolo nel senso che aveva nel giudaismo prima di prendere un senso cristiano. Per gli ebrei, un apostolo era un emissario del sinedrio di Gerusalemme incaricato di riscuotere la tassa del Tempio nelle sinagoghe della dispersione, e di esercitare un controllo sulla loro ortodossia. 

È dunque tra gli ebrei della dispersione che occorre andare per ricreare l'atmosfera spirituale e l'ambiente circostante dell'Apocalisse. Per comprendere il linguaggio veemente e ispirato di Giovanni il profeta e il visionario, è necessario penetrare nelle preoccupazioni delle sinagoghe dell'Asia Minore, condividere le loro speranze e le loro paure, sposare i loro entusiasmi e i loro rancori. Bisogna soprattutto cercare di identificare gli avversari che egli ammonisce con tanta veemenza, che combatte con tanto accanimento.

Chi sono i cosiddetti ebrei della sinagoga di Satana? Chi sono i cosiddetti apostoli che sono dei mentitori?

Tentiamo di determinarli.

Ciò che il profeta Giovanni rimprovera loro con più veemenza, è di non osservare il decreto di Gerusalemme, di cui cita in parte gli stessi termini. Per convincersene è sufficiente confrontare da una parte i Messaggi a Pergamo e a Tiatira, dall'altra parte il testo del decreto stesso:

Messaggio a Pergamo, Apocalisse 2:14.

Ma ho qualcosa contro di te: 

hai alcuni che professano la dottrina di Balaam, 

il quale insegnava a Balac il modo di far cadere i figli d'Israele, 

inducendoli a mangiare carni sacrificate agli idoli e a fornicare.

Messaggio a Tiatira, Apocalisse 2:20-24.

Ma ho questo contro di te: 

che tu tolleri Gezabele, 

quella donna che si dice profetessa!

Lei insegna e induce i miei servi 

a commettere fornicazione, e a mangiare carni sacrificate agli idoli...

Non vi impongo altro peso.

Decreto di Gerusalemme, Atti 15:18 s.

Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia.

Impudicizia o fornicare, carni sacrificate agli idoli, non imporre altri doveri, questi sono i termini del decreto di Gerusalemme, riprodotti dai sette Messaggi. Il parallelismo è evidente.

Il profeta Giovanni è quindi sostenitore del decreto di Gerusalemme, e gli avversari che combatte rifiutano di sottomettersi ad esso. Questo aspetto ci permetterà di identificarli.

A tal fine, esaminiamo quale fosse il decreto di Gerusalemme.

Ecco il racconto che danno gli Atti degli Apostoli della sua origine:

I primi cristiani erano ebrei che, anche dopo la loro conversione, rimasero fedeli alla legge di Mosè. Ma quando il cristianesimo cominciò a uscire dal contesto ebraico e a reclutare seguaci tra i pagani, una questione si pose: i neofiti che non sono di origine ebraica, devono egualmente osservare la Legge di Mosè?

Per decidere quella questione, un concilio si riunisce a Gerusalemme, allora ancora centro della cristianità. Esso decide all'unanimità che gli ex pagani convertiti al cristianesimo non saranno più sottomessi alla legge di Mosè, ma che dovranno per lo meno osservare «l'indispensabile», vale a dire astenersi da quattro cose, ossia:

1. Le carni sacrificate agli idoli;

2. Il sangue;

3. Le carni soffocate;

4. L'impudicizia.

Cerchiamo di comprendere il senso di questi quattro divieti.

La proibizione n° 2, quella del sangue, è quella che gli ebrei impongono ai proseliti di primo grado, ai «timorati di Dio», a differenza dei proseliti di secondo grado chiamati proseliti di giustizia, completamente assimilati agli ebrei di razza per la circoncisione e l'osservanza della legge mosaica. Gli ebrei chiamano questa proibizione del sangue «la legge di Noè», in ricordo del racconto della Genesi che riporta che Dio, prima della sua alleanza con Mosè e il popolo d'Israele, aveva già concluso, immediatamente dopo il diluvio, una prima alleanza con Noè e i suoi discendenti, ovvero con tutta l'umanità. Agli occhi degli ebrei, quell'alleanza è quindi obbligatoria per tutti gli uomini. Essa comporta, da parte di Dio, l'impegno a non colpire l'umanità con un nuovo diluvio, ma a far regolarmente alternare le stagioni tanto a lungo finché durerà la terra; da parte dell'uomo, questa alleanza comporta la proibizione di sangue. Gli ebrei ritengono quindi indispensabile far osservare la proibizione del sangue ai proseliti, anche a coloro che non sono sottomessi alla legge mosaica. Ancora attualmente, gli ebrei mostrano poca premura ad assimilare completamente i proseliti tramite la circoncisione; preferiscono farne dei «noachiti», dei mezzi ebrei soggetti soltanto alla legge di Noè. [3

La proibizione n° 3, quella delle carni soffocate, cioè provenienti da animali non macellati secondo il rito ebraico, non è che una conseguenza della proibizione del sangue, perché quelle carni possono ancora contenere del sangue. Lo stesso vale per la proibizione n° 1 che riguarda le carni sacrificate agli idoli. I primi tre divieti del decreto di Gerusalemme possono dunque essere ricondotti ad uno solo: alla proibizione del sangue, alla legge di Noè.

Per il divieto n° 4, quello della impudicizia, rinviamo all'appendice 3.

Agli occhi del profeta Giovanni, i suoi avversari avrebbero dunque dovuto sottomettersi alla legge di Noè, alla proibizione del sangue confermata dal decreto di Gerusalemme. Essi erano quindi dei proseliti, infatti solo i proseliti erano tenuti all'osservanza della legge di Noè, senza essere soggetti agli obblighi molto più severi della legge di Mosè.

Per identificare gli avversari combattuti nei sette Messaggi, bisogna quindi cercare dei proseliti ribelli alla proibizione del sangue. 

Questi proseliti non possono essere i Mandei, che  osservano ancora  oggi fedelmente la proibizione del sangue. «Non mangiate il sangue degli animali», dicono i loro testi sacri. [4

Dobbiamo cercare altrove. 

Riprendiamo il racconto del concilio di Gerusalemme nel libro degli Atti. Secondo questo racconto, il Concilio era presieduto da Giacomo, fratello di Gesù e primo vescovo di Gerusalemme. Vi assistevano: Pietro, il principe degli apostoli, e Paolo, l'apostolo dei gentili. Secondo l'epistola ai Galati, c'era anche Giovanni, il discepolo prediletto. Mai più, nella storia della Chiesa, un Concilio riunirà vertici  così eminenti. Non esiste quindi, per ogni cristiano che non è di origine ebraica, regola più fondamentale, più assoluta, proclamata con più autorità e più solennità di quella cosa «indispensabile»: la proibizione del sangue.

E ora, constatiamo un fatto paradossale. Il decreto di Gerusalemme non era stato emesso soltanto per il periodo delle origini. La sua durata doveva essere illimitata, la sua regola obbligatoria, fino alla fine dei tempi, per tutti i cristiani tranne quelli che venivano dal giudaismo e rimanevano fedeli alla legge di Mosè. Eppure, nella Chiesa attuale, non rimane nulla di questo primo comandamento della Chiesa, della decisione del primo concilio, della regola imposta dai più grandi apostoli. I cristiani di oggi non si fanno il minimo scrupolo di mangiare un po' di sanguinaccio o di spezzatino...

Chi dunque ha avuto l'autorità necessaria ad abrogare questo primo comandamento della Chiesa? Dove sono le tracce dell'atto che l'ha abrogato? Oppure in quale periodo la proibizione del sangue è caduta in disuso?

Torniamo ai più antichi scritti propriamente cristiani, alle Epistole paoline. Nella Prima ai Corinzi si tratta lungamente della questione delle carni, ed in particolare delle carni sacrificate agli idoli. Mai il decreto di Gerusalemme viene citato. L'autore proclama addirittura, in principio, l'assoluta libertà del cristiano nei confronti di tutti gli alimenti senza eccezione, e non sembra sospettare che egli si mette in contraddizione formale con il decreto al quale Paolo stesso si ritiene abbia collaborato. L'autore delle Epistole paoline ignora totalmente il decreto di Gerusalemme.

In Atti 21:25, Paolo è ritenuto ignorare il decreto di Gerusalemme, e nella Epistola ai Galati (2:6) lui proclama con forza che la comunità di Gerusalemme non gli ha imposto nulla. 

Vi è di più: il rito della Cena con le sue parole di istituzione: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue» (Matteo 26:27 s.) forma con la proibizione del sangue un contrasto così sconcertante che è sorprendente che non sia nemmeno menzionato nei testi sacri, sia per spiegarlo e attenuarlo sia, al contrario, per ricavare dal paradosso stesso materia per la meditazione e l'edificazione. 

Se i primi cristiani non sono stati colpiti da questo contrasto, è perché ignoravano la proibizione del sangue.

La conclusione si impone: il decreto di Gerusalemme non è mai stato emanato in seno al cristianesimo. Né la sua istituzione né la sua abrogazione appartengono alla storia della Chiesa. È una regola imposta non dai giudeo-cristiani ai pagani cristiani, ma dagli ebrei ai proseliti di primo grado. La sua attribuzione a una comunità cristiana che sarebbe esistita a Gerusalemme è la finzione di uno storiografo cristiano, di un letterato che, nel silenzio del suo tavolino, consultava e combinava dei testi. Praticamente, i cristiani non hanno mai osservato il decreto di Gerusalemme. 

Così si spiega, nel Concilio di Gerusalemme, l'intervento dei farisei. Esso non si comprenderebbe se si trattasse un concilio cristiano. Il testo canonico, è vero, si preoccupa di specificare che questi farisei erano diventati credenti, ma in questa nota non si può vedere che l'espediente di un copista o di un interpolatore cristiano, lui stesso imbarazzato di vedere dei farisei sedere in un concilio della sua chiesa. L'assemblea che ha emanato il decreto di Gerusalemme era dunque proprio un'assemblea ebraica, e non è sorprendente che i sette Messaggi, che sono uno scritto di origine ebraica, maledicano i proseliti che rifiutano di sottomettersi ad esso. 

Ci siamo domandati chi fossero gli avversari che il profeta Giovanni combatte nei suoi sette Messaggi, chi fossero questi proseliti ribelli al decreto di Gerusalemme. Vediamo ora emergere la soluzione del problema: i cristiani della dispersione erano dei proseliti, e i cristiani sono sempre stati ribelli al decreto di Gerusalemme. 

I sette Messaggi dell'Apocalisse di Giovanni sono il più antico scritto che combatte i cristiani.

Può sembrare paradossale vedere in una delle fonti degli scritti canonici del cristianesimo un pamphlet di polemica anticristiana; ma la pratica ben nota degli scrittori sacri di usare le armi dei loro avversari per rivoltarle contro di loro, di appropriarsi dei loro scritti sottoponendoli a un lavoro a volte assai superficiale di rimaneggiamento e di adattamento, toglie da questa identificazione tutto ciò che a prima vista potrebbe sembrare improbabile. Inoltre è possibile addurre un certo numero di fatti che sembrano confermare che gli avversari combattuti dal profeta Giovanni nei suoi sette Messaggi non possono essere che i cristiani. 

I sette Messaggi contengono una serie di allusioni, fatte dal punto di vista dell'avversario, ad eventi che sembrano essere gli stessi che, negli Atti degli Apostoli, sono narrati dal punto di vista del seguace, con gli sviluppi e le proliferazioni leggendarie abituali a questo genere di scritti.

Il Messaggio a Tiatira parla di una donna empia che si definisce una profetessa, e che egli paragona a Gezabele, la regina idolatra sul trono di Israele. In tutto il Nuovo Testamento, la città di Tiatira figura solamente due volte, ed entrambe le volte è a proposito di una delle sue cittadine. In entrambi i casi, si ha l'impressione di una donna attiva, intelligente, ricca e che esercita una grande influenza sul suo ambiente. Il Messaggio la denuncia per il suo disprezzo del decreto di Gerusalemme, il che implica che fosse una proselita, e gli Atti la qualificano espressamente come «timorata di Dio», termine specifico che indica i proseliti di primo grado soggetti a quel decreto. I due testi sembrano quindi riferirsi alla stessa donna, Lidia, la mercante di porpora, che diede ospitalità a Paolo (Atti 16:14 s.). Siamo in presenza di due ritratti diversi, ma il modello è lo stesso. La differenza sta nelle tendenze opposte dei due autori: il partigiano ha idealizzato il personaggio, l'avversario ha spinto il suo ritratto alla caricatura.

Ecco un altro caso di parallelismo tra i sette Messaggi dell'Apocalisse e gli Atti degli Apostoli. Due volte, nei suoi Messaggi a Efeso e a Pergamo, il profeta Giovanni dà ai suoi avversari il nome di «Nicolaiti». Ireneo e altri testimoni della Chiesa antica [5] dichiarano che questi Nicolaiti erano i seguaci di quello stesso Nicola che gli Atti (6:3-5) presentano come un proselita di Antiochia, uomo «pieno di Spirito e di sapienza». Nicola di Antiochia sarebbe così un altro esempio di un proselita che teneva un ruolo importante nella storia delle origini cristiane, glorificato negli Atti, combattuto e disprezzato nei sette Messaggi. 

Questo parallelo tra i Sette Messaggi e il libro degli Atti può essere spinto più oltre. Si legge nel Messaggio a Efeso:

Conosco le tue opere, 

la tua fatica e la tua costanza, 

per cui non puoi sopportare le persone false.

Li hai messi alla prova i cosiddetti apostoli 

— e non lo sono! —

e li hai trovati bugiardi.

Quali sono gli eventi di Efeso a cui il profeta fa allusione? Quale è la prova alla quale i fedeli hanno sottoposto i cosiddetti apostoli? Quale è l'atto per il quale hanno rifiutato di tollerare le persone false?

Nel libro degli Atti (19:8-10), si legge che in Efeso, i «discepoli» si sono separati dalla sinagoga. Secondo il testo attuale degli Atti, l'autore di quella secessione sarebbe stato Paolo. Ma se si sottrae l'interpolazione con ripresa che precede immediatamente questo passo, [6] si constata che questo passo fa seguito al breve documento su Apollo (18:24-26), e che il soggetto della frase non è Paolo, ma Apollo. Questo documento, con il suo seguito, fa da controparte al Messaggio ad Efeso, e merita come tale di trattenere la nostra attenzione. Cominciamo col ricostruirlo nella sua interezza, riunendo le sue due parti separate nel testo attuale  dal brano interpolato: 

Atti 18:24-26; 19:8-10:

Un ebreo di nome Apollo, nativo di Alessandria, uomo eloquente e versato nelle Scritture, arrivò a Efeso. Egli era stato istruito nella via del Signore; ed essendo fervente di spirito, annunciava e insegnava accuratamente le cose che riguardano Gesù, benché avesse conoscenza soltanto del battesimo di Giovanni. Egli si mise a parlare liberamente nella sinagoga. Per tre mesi, espose con discorsi persuasivi le cose che riguardano il regno di Dio. Ma siccome alcuni si ostinavano e rifiutavano di credere dicendo male della via del Signore davanti alla folla, egli, ritiratosi da loro, separò i discepoli e insegnava ogni giorno nella scuola di Tiranno. Egli rimase due anni interi nella casa che aveva presa in affitto e accoglieva tutti coloro che venivano da lui, predicando il regno di Dio e insegnando le cose che riguardano Gesù in tutta libertà e senza alcun impedimento. [7]

Questo brano costituisce un piccolo documento indipendente, interposto nel racconto degli Atti. Esso non è del primo autore degli Atti, che non comincia mai le sue frasi con houtos («questi», reso nella nostra traduzione con «egli»), come fa l'autore del nostro documento per due volte di seguito, ai versi 25 e 26. Questo brano non può neppure essere della piuma del secondo autore, che vi introduce un'interpolazione con ripresa. La sequenza dei due frammenti è perfetta, l'unità di stile è impressionante: il secondo frammento riprende il termine «la via» del primo frammento, e si ritrova in entrambi i frammenti l'espressione caratteristica: «le cose che riguardano...» (ta péri tou).

L'interpretazione del documento presenta grandi difficoltà. Come è possibile che Apollo abbia potuto insegnare con esattezza le cose che riguardano Gesù, quando egli non conosceva che il battesimo di Giovanni? Ma proprio queste difficoltà sono di natura tale da ispirare fiducia allo storico. Esse attestano che siamo in presenza di un documento grezzo, che non è stato adattato, rielaborato, armonizzato, assimilato, amalgamato dall'editore. È un blocco anomalo che contrasta col suo contesto, conservato come per caso, spezzato in due frammenti che abbiamo dovuto prima identificare e risolvere per accorgerci che sono della stessa natura e della stessa origine. Apre uno scorcio su uno stato di fatti diverso da quello che riporta la tradizione, e che sembra raccomandarsi per un grado superiore di verosimiglianza storica. 

«Ai migliori resoconti storici», dice il Dr. Couchoud, [8] «saranno sempre preferiti i documenti grezzi. Per quanto singolare, per quanto incompleto possa essere un documento, se è ben localizzato e sufficientemente datato, lo storico di oggi ne trae le sue più sicure inferenze. Un'iscrizione del tempo di Pericle conta di più di una frase di Tucidide. Una lettera conservata di Claudio annulla una pagina di Svetonio».

«Come buona regola, una solida deduzione ricavata da un autentico oracolo cristiano, come l'Apocalisse, da una lettera di Paolo debitamente criticata, da un documento valido trasmesso dallo scrittore degli Atti, deve contare di più di qualsiasi narrazione sacra. Se si vuole intraprendere la storia primitiva del cristianesimo, si deve cominciare dai documenti, non dal racconto dei Vangeli e degli Atti. Costruita in questo modo, questa storia avrà delle grandi lacune. Ma ciò che terrà sarà fermo».

Abbiamo dunque da una parte un oracolo dell'Apocalisse, il Messaggio ad Efeso, e  dall'altra parte un documento trasmesso dall'autore degli Atti, il documento su Apollo, che, da due punti di vista opposti, trattano dello stesso evento, della secessione dei «discepoli» di Efeso. Questo ci permette di identificare uno dei principali avversari che combatte il profeta Giovanni nella sua Apocalisse.

Secondo il nostro documento, l'iniziativa per gli eventi di Efeso non sarebbe venuta da Paolo, ma da Apollo. Questo si accorda male con i racconti del Nuovo Testamento che da nessuna parte attestano formalmente il ruolo di primo piano che Apollo avrebbe svolto nella storia delle origini cristiane. Ma questo ruolo importante traspare in una nota dall'aspetto storico nella Prima ai Corinzi (1:11), che mostra la chiesa di Corinto divisa in tre parti: quella di Paolo, quella di Pietro e quella di Apollo. [9] La dedica ai Corinzi è forse una finzione; infatti, le Epistole paoline hanno piuttosto la natura di scritti destinati senza distinzione a tutta la cristianità. Sarebbe allora tutta la Chiesa dell'epoca ad essere divisa in tre partiti, e tra i capi di questi partiti, Apollo figura allo stesso rango di Pietro e di Paolo.

Cosa sappiamo di questo personaggio di primo rango che era Apollo?

Il nostro documento lo presenta come un ebreo eloquente e versato nelle Scritture, originario di Alessandria. Nella sua città natale di Alessandria, il giovane erudito ebreo si era quindi dedicato con ardore allo studio delle Scritture. Dovette anche approfondire gli scritti dei più eruditi tra i suoi correligionari di Alessandria, in particolare la filosofia religiosa di Filone. D'altra parte, è detto che Apollo conosceva il battesimo di Giovanni. Un'altra nota dall'aspetto storico che abbiamo già citato più volte (Atti 19:1-7) parla di un gruppo di dodici discepoli di Giovanni esistenti ad Efeso, e la poca considerazione che questi discepoli di Giovanni hanno per lo Spirito Santo ci ha permesso di vedere in loro autentici Mandei. È quindi ad Efeso che si presentava, ad uno spirito curioso di cose della religione come lo era Apollo, l'occasione di conoscere il battesimo di Giovanni, di prendere contatto con la religione mandea. 

I Mandei hanno dovuto comunicare ad Apollo i loro sentimenti ostili nei confronti della Legge, ma la loro dottrina e soprattutto i loro riti non sembrano aver trattenuto a lungo il giovane studioso avido di emancipazione. Si interessò di più alle «cose che riguardano Gesù», e si mise persino a insegnarle. Più tardi, sarà considerato il capo e l'ispiratore di uno dei tre grandi partiti che divideranno la Chiesa, e sarà nominato senza obiezione con Pietro e Paolo. Noi conosciamo le tendenze del partito che si richiamava a Pietro, noi conosciamo anche quelle del partito che si richiamava a Paolo. Quale poteva essere la dottrina del partito ispirato da Apollo? 

Apollo ha dovuto essere l'agente, o per lo meno uno dei principali agenti mediante i quali l'influenza del filonismo si è esercitata sul cristianesimo. D'altra parte, aveva appena voltato le spalle al mandeismo. La sua dottrina doveva quindi essere profondamente segnata dall'influenza filonica e allo stesso tempo combattere il mandeismo, pur ispirando ad esso, secondo i metodi delle controversie religiose dell'epoca, parecchi dei suoi elementi fondamentali.

Noi possediamo uno scritto che manifesta al massimo grado quei tratti che dovevano caratterizzare il partito di Apollo: è il Vangelo di Giovanni. 

In parecchi punti, l'autore di questo Vangelo sembra discutere e spiegarsi con gli scritti di Filone, appropriandosi di ciò che può essere assimilato alla sua propria teologia, rigettando e confutando ciò che gli sembra contrario alla verità. Così quando dichiara per due volte che nessuno ha mai visto Dio, non soltanto rifiuta gli autori delle apocalissi che pretendono di aver contemplato Dio sul suo trono celeste, [10] ma anche la teoria della visione di Dio nell'estasi, che occupa un posto importante nel sistema di Filone. Il nome Israele, secondo Filone, significherebbe ho horôn théon, «colui che vede Dio». [11]

Il partito di Apollo non sembra quindi estraneo alla fase gioannita del cristianesimo primitivo, che viene a interporsi tra la fase paolina e la fase cattolica. 

La polemica che abbiamo trovato nel Vangelo di Giovanni contro la rivelazione per mezzo dello Spirito Santo si spiega facilmente presso i settari dell'ex Mandeo Apollo. 

Così il gioannita Apollo sarebbe diventato l'ispiratore del cristianesimo gioannita. Vi sarebbe stata dunque qui la sostituzione di Giovanni l'Apostolo al suo omonimo il rivelatore mandeo, allo stesso modo in cui si è avuta, per l'Apocalisse, la sostituzione di Giovanni l'Apostolo al suo altro omonimo il profeta e visionario ebreo.

Ritorniamo agli eventi di Efeso: 

A Efeso, Apollo, allontanandosi dal mandeismo, ma avendo conservando di esso il profondo disprezzo della Legge che lo caratterizza, si schiera dalla parte dei proseliti ribelli alla legge di Noè, alla proibizione del sangue che voleva imporre loro il decreto di Gerusalemme. Egli provoca la secessione dalla sinagoga e fonda così una nuova religione indipendente, in seno alla quale potrà d'ora in poi, in tutta libertà, insegnare la «via» e le «cose che riguardano Gesù».

Quella religione, noi la conosciamo: una religione le cui radici affondano nei gruppi di proseliti della dispersione, ma i cui seguaci si distinguono dagli altri proseliti su questo punto cruciale: fin dalla loro costituzione come comunità indipendente, sono sempre stati refrattari alla proibizione del sangue. Vi si insegnano le «cose che riguardano Gesù». Ben presto, questa nuova religione farà anche di Gesù un rivelatore disceso dal cielo sulla terra, secondo il tipo del rivelatore Giovanni dei Mandei. Gli fabbricherà una biografia. E gli attribuirà anche la sua stessa origine, farà di lui l'iniziatore dei suoi riti, l'ispiratore della sua dottrina e il fondatore della sua comunità.

Quella religione è la religione cristiana. 

Così creerà il mito della sua istituzione, il racconto rituale delle sue origini, che è attualmente consegnato nei Vangeli e nelle parti non documentarie degli Atti degli Apostoli. 

Il fatto storico della sua formazione è ben diverso. Ci siamo sforzati di recuperare alcune tracce sepolte sotto uno spesso strato di miti, di leggende e di finzioni. Abbiamo indicato, nella storia delle sue origini, il ruolo importante degli eventi di Efeso. È prezioso trovare queste vicende attestate da due documenti antagonisti: da uno dei più antichi testi cristiani, il documento sull'Apollo gioannita, e dal più antico pamphlet anticristiano, i sette Messaggi del profeta Giovanni nell'Apocalisse.

Se i documenti grezzi di cui ci ha appena parlato il dottor Couchoud devono, agli occhi dello storico, prevalere su ogni narrazione sacra, cosa dire del valore di due documenti grezzi antagonisti, che si contraddicono con una fanatica intransigenza nella valutazione religiosa e morale dello stesso fatto, ma che, di comune accordo, ne attestano la realtà?

NOTE

[1] Libro di Giovanni, 70, 73, 74.

[2] Commentario di Strack-Billerbeck,

[3] Si potrà leggere il racconto della conversione di un cristiano moderno al noachismo in AIMÉ PAILLERE, Le Sanctuaire inconnu, ma «conversion» au judaïsme, Parigi, Rieder, 1927.

[4]  Ginza, 20, 4 e 37, 35 A. — SIOUFFI, Études sur la religion des Soubbahs ou Sabbéens, pag. 83, 112.

[5] Queste testimonianze sono state riunite da WOHLENBERG, nella Neue kirchliche Zeitschrift, 1895. — Commentario di LOHMEYER.

[6] 18:26: ...si mise a parlare liberamente nella sinagoga. 19:8: ...parlò liberamente nella sinagoga. 

[7] La fine del documento su Apollo esiste negli Atti in due varianti che hanno entrambe conservato la menzione del periodo di due anni: 19:10 e 28:30-31. Noi abbiamo dato la preferenza a quest'ultima variante che sembra aver conservato la forma originale. Vi si ritrovano i termini «le cose che riguardano», «liberamente» (in tutta libertà) e «regno di Dio». La parola misthôma ha il significato di «locazione» piuttosto che quello di «appartamento affittato» che ha preso dal contesto attuale.

[8] Au seuil du christianisme, articolo pubblicato nella Chronique des Idées, 1929.

[9] Il quarto partito, quello del Cristo, è aggiunto. Esso non figura né nell'edizione marcionita, né nel passo parallelo 1 Corinzi 3:4.

[10] Cf. pag. 71 s.

[11] LEISEGANG, Der heilige Geist, Leipzig (Teubner) 1919, pag. 224. — REITZENSTEIN, Die Vorgeschichte der christlichen Taufe, Leipzig (Teubner) 1929, pag. 109.

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