CAPITOLO VI
Il mito
Come nacque il mito di Gesù?
Ecco come le cose si svolsero.
Al fine di riconoscere il Messia quando sarebbe apparso, alcuni avevano raccolto i passi biblici che, secondo loro, lo profetizzavano. Li hanno divisi in vari capitoli: la sua nascita, la sua azione, il suo insegnamento, la sua morte, il suo trionfo.
La rubrica della sua passione, alimentata soprattutto da Giobbe, Amos, Isaia e dai Salmi, era particolarmente dettagliata.
Gli apologeti dei primi secoli presenteranno queste raccolte agli ebrei per confonderli, e senza posa ne aggiungeranno. Melitone, intorno al 180, pubblicherà ancora sei libri di testi messianici attinti dal Pentateuco e dai Profeti.
Gli evangelisti, senza alcun dubbio, li hanno conosciuti: lo si vede dal saccheggio biblico constatato in loro e ancor più da certi malintesi che sono rivelatori. Queste macedonie di testi e di autori non erano senza confusione: ecco perché Matteo (27:9) confonde i profeti e Marco (1:2) gli scritti.
Era un costume rabbinico allineare pezzo per pezzo versi di origine diversa ma dal significato comune. Si chiamava «Charaz» (incordatura) questo procedimento conosciuto dall'Epistola ai Romani (3:10:18), che cita senza transizione Isaia, i Proverbi e vari Salmi.
Queste citazioni sprovviste di contesto ci inganneranno ancora sul loro significato ovvio. Matteo, in particolare, vi si è lasciato prendere. Se punta Gesù verso le Piramidi, è per aver letto in una di queste raccolte avventurose: «Ho chiamato mio figlio dall'Egitto». [218]
In realtà si trattava di Israele, primogenito di Dio; ma il nostro uomo prende le parole al volo senza andare a vederle e costruisce la sua storia secondo i suoi sogni.
Così un mosaico di versi isolati dal loro contesto, attinti un po' dappertutto dalla Bibbia e classificati per rubriche, profilava già una biografia.
Si volgeva verso il futuro, in cerca di eroi, ma lo stile profetico lo minacciava di un malinteso. Nella sua visione personale dove il futuro è già realizzato, il Veggente impiega il perfetto per il futuro e definisce come compiuto ciò che annuncia. Così, Isaia (9:5) non dice: «un bambino nascerà», ma «un bambino è nato».
Le profezie potevano dunque passare per la storia antica, in seguito ad un equivoco.
Prima di vedere se un tale malinteso fosse reale, vediamo se è possibile: un testo frainteso può generare l'immaginazione?
A quella domanda, la leggenda di Guglielmo Tell risponde in senso affermativo. Da Bürglen ad Altford, fino al fosso fatale, si può seguire passo dopo passo il nostro eroe con la balestra. Due date fanno da riferimento: 1315, la battaglia di Morgarten, e 1354 la morte.
Rops direbbe che il «contesto in cui ha vissuto Tell è eminentemente storico». [219] Tutto si svolge nel cuore dell'Europa e all'alba dei tempi moderni: il Romanzo della Rosa è ancora recente, Geoffroy di Parigi scrive la storia in ottonari, Froissard nascerà.
L'erudito Tschudi [220] autenticherà la storia di Tell e Vapereau, riferimento importante, ne elogia il rigore: «Come storico, Tschudi si distingue per una conoscenza estesa e solida, una conoscenza intima delle fonti, la certezza del giudizio, la veridicità così come la sostanziale fermezza dello stile».
Ma un intero popolo vivrebbe di un'ombra? Per secoli, il culto nazionale provò l'eroe con la sua liturgia di sfilate, fanfare, banchetti, tiro con l'arco e tiro al fucile, bandiere e giubilo popolare.
Eppure si sa quel che avvenne: Haller, già nel 1970, negava l'esistenza di Tell nel suo libro Fables Danish. Lo scandalo era commisurato alla leggenda che denunciava: si bruciò lo scritto in assenza dell'autore.
Degli eruditi entrarono nella mischia: si rispose loro. E si replicarono alle risposte. Ci si trattò reciprocamente di falsi studiosi. Il tono montava. Messa in difficoltà, la fibra nazionale degli Elvetici rischiava di screpolarsi.
Proprio così!
Ora è finita: Guglielmo Tell è scivolato nella favola. I manuali scolastici lo hanno messo al rango delle reliquie favolose; perfino il Larousse del XX° secolo non ci crede più.
Tutta le sua leggenda, mela compresa, proveniva da racconti, cronache e canti scandinavi conosciuti in Svizzera prima del XIV° secolo. Più tardi, si prese questo folklore alla lettera: l'epoca apparteneva ai soldati, non ai filologi.
E poi, era troppo tardi per fare un'indagine.
Infine, la Svizzera eroica dei Waldtstaetten si riconosceva troppo bene nel suo eroe svizzero per non crederci affatto.
Anche oggi, la pietà sopravvive alla fede.
Tale fu, positis ponendis, l'avventura cristiana.
Affinché l'operazione riuscisse, due condizioni sono necessarie: dapprima un certo clima psicologico e sociale; in seguito un lungo periodo di turbolenza tra l'inizio e la fine per rendere impossibile ogni indagine.
Queste condizioni furono riunite nella leggenda di Tell, ancora meglio nella leggenda di Gesù. Troviamo in Israele il clima adeguato. Dalla cattività di Babilonia, il sentimento nazionale si è ravvivato, poi esaltato alle persecuzioni seleucidi.
Scoppiò nel dicembre del 168 prima della nostra era, Antioco Epifane avendo eretto nel Tempio la statua di Giove, distrutto i libri sacri e abbattuto le mura di Gerusalemme. Si sa la resistenza eroica dei Maccabei.
Nel 63 prima dell'era cristiana, Pompeo, padrone dell'Asia, annette a Roma la Palestina che perde così la sua autonomia.
Ma, sebbene soggiogata, ne rimase una, Erode avendo saputo farsi proclamare re dei Giudei dai vincitori nel 40 prima della nostra era. Rimaneva alla Palestina di venir smantellata in schiavitù: è quanto avvenne nel 4 prima dell'era cristiana alla morte di Erode il Grande. I suoi tre figli si divisero allora il regno.
Approfittando della disunione, Roma stringe la sua presa. Nell'anno 6, l'imperatore Augusto depose Archelao, successore di Erode, in Giudea, e lo sostituì con un procuratore che rispondeva al legato di Siria. La Giudea non era più vassalla ma provincia romana; presto, la Samaria e la Galilea subiranno la stessa sorte.
Allora, impotente di fronte alla forza, Israele aspira al liberatore provvidenziale che scaccerà l'occupante e riunificherà il regno.
Questo salvatore era predestinato: poteva solo essere il Messia, annunciato da Giacobbe e dai profeti.
In un oracolo oscuro ma solenne, il patriarca morente aveva predetto che Sciloh sarebbe venuto quando lo scettro sarebbe uscito da Giuda. [221] Ora era appena uscito da Giuda e, dall'anno 6, apparteneva a Roma. L'ora del Messia era giunta.
Il Vangelo testimonia l'attesa febbrile di Israele. I discepoli di Giovanni domandano a Gesù: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?» (Luca 7:19). La Samaritana non ne dubita: «So che deve venire il Messia» (Giovanni 4:25).
Sconvolto dall'eccitazione degli spiriti, Erode punì i propagatori delle profezie messianiche. [222] È da là, senza dubbio, che proviene la leggenda del Massacro degli Innocenti.
Erode aveva ragione: il male proviene da là. «Ciò che eccitò i Giudei alla guerra», dice Giuseppe, «era un oscuro oracolo delle scritture che annunciava che un uomo uscito dal paese sarebbe diventato allora il padrone dell'universo». [223] Giuseppe fa proprio allusione all'oracolo di Giacobbe di Genesi 49.
Degli avventurieri si presero per il Messa e insorsero. Il vangelo mette in guardia contro di loro: «Se qualcuno vi dice: Il Cristo è qui, oppure: È là, non lo credete...» (Matteo 24:23ss).
L'esaltazione si trasformò in una crisi di nervi; repressa qui, la rivolta rinasceva altrove. La dolce Galilea dagli uccellini azzurri di cui parla Renan si faceva aspra e ostile come la Giudea.
Un giorno Roma ne ebbe abbastanza e Israele, che attendeva il Messia, ricevette nel 67 le armate di Vespasiano.
Tre anni più tardi, Tito prendeva Gerusalemme: secondo Giuseppe, undicimila ebrei furono massacrati e centomila divennero schiavi. [224] Tutto fu distrutto. Plinio parla di Gerusalemme come di una città che non esiste più. [225]
Del Tempio restava solo il muro del pianto e le legioni romane si accamparono sulle rovine.
Ma gli ebrei erano sconfitti, non disperati. Il Libro di Giuditta, apparso all'epoca, restituì loro l'orgoglio nazionale. Il tempo di una generazione, e c'era di nuovo la ribellione.
Già nel 117 la rivolta attraversa Cipro, si impadronisce della Cirenaica, scoppia in Egitto; è in Giudea intorno al 132. La ragione è nota: Adriano voleva ricostruire il Tempio in onore di Giove Capitolino e dotare la città del nome di una divinità: la santa Gerusalemme era diventata Aelia Capitolina.
Per vendicare il sacrilegio e lavare via il disonore, Bar Kochba — il Figlio della Stella — solleva un'armata ed è la guerra.
Dopo tre anni di lotta accanita in cui gli ebrei lasciarono altri cinquecentomila cadaveri, i generali di Adriano furono vittoriosi. La repressione fu inesprimibile: si massacrarono donne e bambini, si vendettero gli uomini al prezzo dei cavalli.
«Ciò che restava di Israele fu disperso ai quattro venti e gli sciacalli», dice il Talmud, «occuparono il luogo del Santo dei Santi».
Allora, per dare un senso mistico alla tragedia, l'eccesso di miseria generò il Salvatore in gestazione da secoli.
Molti pensavano, infatti, che tale accumulo di catastrofi dovesse avere per causa un crimine commisurato al castigo: ciò poteva essere solo la morte del Messia.
I segni non mancavano: la distruzione del Tempio e la cessazione dei sacrifici recavano la prova che l'Antica Legge era finita e i Nuovi Tempi erano venuti.
Restava da precisare il tempo in cui il Messia era apparso, aveva vissuto e sofferto.
Vi fu dapprima un'ampia fluttuazione, e la data della sua morte oscillò da Erode a Nerone. Poi, a poco a poco, il puzzle si mise a posto.
L'assemblaggio della Buona Novella...
La profezia di Giacobbe permetteva già di approssimare la nascita del Cristo, perché lo scettro era uscito da Giuda nell'anno 6.
Si riesumava da Daniele (9:24 ss.) il vaticinio delle «settanta settimane» d'anni, che si poteva interpretare a proprio piacimento, poiché si ignorava il punto di partenza. Da allora, la fine avrebbe datato l'inizio.
Si noti a questo proposito che si sono contate più di cento cronologie diverse. «Ma la differenza», commenta Pascal, «non si spinge oltre i duecento anni» (Pensieri 723). Vanno più oltre, ma non importa: questi due secoli sono sufficienti.
Si leggeva anche nel Salmo 95: «Quarant'anni sopportai quella generazione. Perciò giurai nella mia ira: Non entreranno nel mio riposo».
La caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio nel 70 datavano lo scoppio dell'ira divina, trattenuta per quarant'anni.
Era quindi nell'anno 30 che il Messia era stato suppliziato.
La sua missione, secondo i mistici, era durata tre anni: numero perfetto. Era quindi cominciata intorno al 27-28 della nostra era. Questo è esattamente ciò che dice Luca (3:1): «Nel quindicesimo anno del regno di Tiberio...».
Il resto andava da sé: «Mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa…».
Luciano schernisce quella precisazione nell'irreale: «Nel settimo giorno del mese, essendo Zeus pritano, Poseidone proedro, ed Apollo epistato, Momo figliuol della Notte compilò, ed il Sonno recitò questo decreto...».
Ma essa soggiogherà il signor Jean Guitton: «Se questa è una leggenda», scrive, «almeno è una leggenda che ha preso le sue precauzioni con le cronologie e che è ben consolidata nella storia». [226]
Non è una leggenda che si radica, è una fede che si storicizza. Essa non prende precauzioni, ma dei riferimenti.
Tschudi avrebbe potuto scrivere: «Tell ha mirato alla mela, Alberto I essendo imperatore di Germania e duca d'Austria, Filippo il Bello essendo re di Francia, Edoardo II re d'Inghilterra, Venceslao III re di Boemia, Alberto di Meclemburgo era succeduto a Magnus Eriksson sul trono di Svezia, Clemente V era papa e Gessler balivo del Cantone di Uri».
Si fissavano i tempi messianici mediante il calcolo le coordinate. Allo stesso modo Leverrier scoprirà Nettuno, alla fine della sua penna, al termine di diecimila pagine di calcoli.
«Forse», suggerisce Las Vergnas, «i cristiani hanno anche collegato la nascita e la morte del Cristo a fenomeni cosmici, la cui eco durava ancora».
È possibile, infatti, che la stella dei magi sia stata suggerita dalla triplice congiunzione di Giove e di Saturno nell'anno 7 prima della nostra era o dalla cometa di Halley nell'anno 12.
Utilizzarono in ogni caso l'eclissi totale del sole sotto Tiberio, il 24 novembre 29. Flegonte, secondo Origene, la segnalava nelle sue cronache, pur precisandone il carattere naturale e senza far allusione al Cristo. [227]
Gli apologeti la identificarono nondimeno con le tenebre miracolose del venerdì santo, sotto il falso pretesto che Flegonte la collegava al dramma del Calvario: si appellarono perfino alla sua testimonianza.
È un fatto che le lettere pagane a volte sembravano confermare la fede cristiana, gli ebrei avendo convinto gli stessi Romani che un dominatore del mondo sarebbe venuto dalla Giudea.
Tacito e Svetonio hanno rilevato quella credenza che intratteneva l'arte ambigua delle Sibille. [228] Già nel 43, si erano coniate medaglie che annunciavano il ritorno dell'Età dell'Oro, essendo completato il ciclo astrologico di Pitagora.
Nella IV° Egloga, Virgilio saluta il Nuovo Secolo che reca a tutti la felicità. Un bambino ne sarà il segno — e non la causa. Si tratta del figlio di Polione, ministro di Augusto e amico del poeta. Ma l'Antichità cristiana e il medioevo hanno voluto vedervi il dio bambino, facendo di Virgilio un profeta dal di fuori e del suo poema un canto messianico. [229]
Infine, l'unità dell'impero sembrava invocare un nuovo dio. Le divinità provinciali andavano a scomparire, come in passato le divinità dei clan e delle tribù.
Tacito riporta che durante la guerra giudaica le porte del Tempio si aprirono da sole e una voce sovrumana annunciò: gli dèi se ne vanno! — Audita major humana vox excedere deos. [230]
Stesso sincretismo di speranze e di impazienza tra tutti i popoli del Levante: vinti da Roma, dubitavano ora delle loro divinità nazionali. A chi non ha più patria, resta il mondo: il dio nuovo sarebbe stato alla sua misura.
Le sciagure nazionali ripiegano l'individuo su sé stesso. Consapevole della sua impotenza civile e militare, pensa ora solo al suo destino: a chi non ha più nulla resta il cielo.
Da qui il successo delle divinità dei misteri che si chinano su ciascun uomo e lo iniziano in particolare. Finito il regno delle divinità collettive della città o della patria: la salvezza diventa personale.
Ma ogni uomo direttamente unito al suo dio ritrova in lui gli altri uomini senza distinzione di casta o di frontiera. Il dio di ciascuno diventa il dio di tutti e, per un paradosso inaspettato, è l'esigenza dell'individuo che lo conduce all'universale.
Un'intera letteratura esprimeva questi bisogni dell'anima che, insomma, furono soddisfatti da Gesù. Si poteva dunque credere, per il seguito, che essa l'annunciasse: Teste David et Sybilla.
Infine, l'Israele mistico si riconosceva troppo bene in questo Messia schiacciato ma glorioso per respingerlo. L'uomo ha sempre fatto i suoi dèi a sua immagine e si adora in loro.
Il cielo e la corte celeste sono la replica delle società umane: quando la civiltà cambia, il dio muore o evolve. Era fatale che l'Israele perseguitato si divinizzasse nell'uomo-dio sofferente: la frazione mistica del popolo sarebbe diventata cristiana.
In realtà, il cristianesimo non è altro che un'eresia ebraica.
Occorreva che la nuova entità divina toccasse la terra con abbastanza violenza da rimbalzare fino al cielo. È quello che accade negli anni 70-140. Fino ad allora nessuno dei suoi tentativi prematuri era riuscito, ma vi penava da lungo tempo per fallire di nuovo.
La metamorfosi era cominciata in quelli strani capitoli che Isaia dedica al Giusto sofferente: egli è dapprima Israele stesso (49:3); poi il piccolo numero rimasto fedele (49:5); e, infine, un uomo che prende su di sé i peccati del popolo e lo «guarisce per le sue piaghe» (53:5 ss).
Gli esegeti cercano da sempre chi è quest'uomo. Probabilmente non ha nome: è il Giusto in sé. Rassomiglia come un fratello a quello di Platone: «Essi diranno che in queste condizioni il giusto sarà flagellato, torturato, legato, gli saranno bruciati gli occhi, e infine, dopo aver sofferto ogni martirio, sarà impalato». Alcuni traduttori sostituiscono addirittura il palo con la croce. [231]
Queste astrazioni, per noi inanimate, vivevano nell'Antichità e nel medioevo: ricordiamoci il problema degli Universali. Il Giusto di Isaia, dolorosamente strappato da Israele, fluttuò a lungo come il perispirito di un popolo in attesa di umanizzazione individuale.
Si tentò, a quanto pare, di incarnarlo nel Maestro di Giustizia che il documento sadocita, riesumato al Cairo nel 1896, rivelò agli eruditi e che i manoscritti di Qumran hanno reso famoso. [232]
A dire il vero, si ignora la sua identità. Può essere Eleazaro, Onia III o un altro che ha vissuto dal 180 al 60 prima della nostra era. Non importa, perché ha fallito.
Egli soffriva di illogicità interna, non essendo alla lettera né Messia, né Redentore, né Figlio di Dio... benché gli si applicassero le profezie messianiche proclamandolo Giudice del mondo.
Diciamo che ebbe il torto di esistere: come divinizzare un uomo di cui ognuno sa i limiti? La tesi della storicità di Gesù non ha mai spiegato come il carpentiere disoccupato sia diventato dio.
Qui, il virtuale si vuole più concreto di una mediocrità ingombrante.
È senza dubbio per queste ragioni che il destino del Maestro di Giustizia è stato interrotto. Eppure ci interessa a più di un titolo: egli è una sorta di bozza di Gesù, confermando l'intuizione dei miticisti.
Quelli che vedono nel Cristo un fratello di Attis e di Mitra erano in cerca di uno iato tra giudaismo e misteri. Guardavano naturalmente agli Esseni che, benché ebrei, avevano una regola di vita pitagorica. [233]
Avevano ragione: il Maestro di Giustizia è il legame tra Jahvé e Gesù. Ma il Giusto Sofferente di Isaia era ancora disponibile dopo il fallimento di Qumran.
Tentò Paolo. Ma il suo Cristo è mal condensato e fluttua ancora nella nube sopra le folle.
Si noti che la dottrina del Corpo mistico, incoerente al di fuori della vaghezza delle metafore, si spiegava all'origine con un Cristo poco individualizzato.
I teologi non dicono più: «Io sono stato crocifisso con Cristo» (Galati 2:20), né: «Noi portiamo nel nostro corpo la morte di Gesù» (2 Corinzi 4:10) e neppure: «Cristo è sempre nella carne», secondo l'espressione dello pseudo-Ignazio. [234]
Ci verrà detto che il Gesù mistico è uscito dal Gesù della storia. È proprio questo il problema. Constatiamo che i testi più antichi del cristianesimo mostrano un Gesù collettivo che si individualizza lentamente passando da Paolo agli evangelisti.
Da nessuna parte il Gesù concreto si misticizza.
È avventato spiegare Paolo con la teologia che nascerà, come se si commentasse Giosué con Galileo e, se necessario, con Einstein. È in compenso logico, fino a prova contraria, apprendere i testi secondo la loro cronologia.
Ora, Paolo è una tappa tra Isaia e i vangeli dove Gesù sarà perfettamente storicizzato.
Che ci sia là una parte di mistero è evidente e il razionalista è mal disposto ad approcciare quella mistica nebulosa. Ma la tesi «sociologica» si giustifica dai vangeli e viene a completare la nostra argomentazione.
Spiega anche meglio la crocifissione. Se Pilato, come si racconta, (Giovanni 19:6) ha consegnato Gesù agli ebrei perché lo eliminassero, essi lo avrebbero di sicuro lapidato come bestemmiatore (Levitico 14:14). Stefano, il diacono, non vi sfuggì affatto.
Il Talmud, giudicando di diritto e non di fatto, afferma che Gesù fu lapidato poi appeso. Gli ebrei portavano quella stessa precisazione agli apologeti del secondo secolo, il che dimostra che la crocifissione non era storicamente stabilita.
Israele non crocifiggeva. Era un castigo romano. L'uomo maledetto «appeso al legno» del Deuteronomio (21:23) è stato snaturato del suo senso dall'Epistola ai Galati (3:13): parla di impiccagione e di patibolo, non di crocifissione.
L'idea della croce viene dalla storia di Israele. Migliaia di ebrei furono crocifissi nel corso delle guerre da Antioco Epifane, Alessandro Ianneo e Quadrato. Nell'anno 4 prima della nostra era, Varo eresse duemila croci alle porte di Gerusalemme: allucinante foresta lamentosa di rantoli, agitata da agonie.
Tito, nel 70, crocifiggerà cinquemila ebrei al giorno davanti alla città santa assediata: «non si sapeva più dove mettere le croci», dice Giuseppe. Il legno, per fortuna, venne a mancare.
Gli stessi re avevano subito quella esecuzione di schiavi, come Antigono, l'ultimo degli Asmonei; si possono immaginare le reazioni di un popolo davanti al suo re crocifisso. Sulla croce simbolica del Cristo era inchiodato tutto un popolo con i suoi re e i suoi eroi.
Da allora, i mistici potevano ammirarsi, secondo l'usanza, nei tormenti del Messia.
Gli scettici non ebbero la possibilità di indagare, a causa della grande svolta della guerra giudaica. Era il caos dopo 70 anni di conflitti sanguinose: istituzioni abolite, tradizioni spezzate, milioni di morti, di esiliati, di dispersi.
Lo sconvolgimento fu tale che il Talmud confonde l'assedio di Gerusalemme da parte di Tito nel 70 con quello di Beter sotto Adriano nel 135.
La confusione è identica in Tertulliano, san Girolamo e Lenain di Tillemont, come nella maggior parte degli esegeti; da qui l'errore di datazione delle epistole e dei vangeli.
Ma come risalire alle fonti cristiane?
I negatori non avrebbero potuto provare l'errore. I cristiani, invece, opponevano loro la «biografia» dell'eroe meraviglioso che realizzava le profezie.
Il XVIII° secolo ebbe torto a spiegare il cristianesimo con la frode: essa non è venuta che in seguito. All'origine, vi è un malinteso: alcuni hanno riunito testi «profetici»; altri li hanno creduto realizzati.
Allo stesso modo, i monaci dell'alto medioevo scrivevano esagerazioni sulla morte dei martiri per l'edificazione dei fedeli; si prenderanno queste pie finzioni per racconti di storia. [235]
Vi si accompagnava la letteratura apocalittica, dove «il figlio dell'uomo», accennato da Daniele si era a poco a poco precisato: «Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo...». [236]
Infine i visionari provvedevano ai dettagli circostanziati sulla vita del Cristo, degli apostoli e persino delle comparse: Catherine Emmerich darà precisazioni inaudite sulla moglie di Pilato o sulla famiglia del cieco nato.
È quindi tra il 70 e il 140 che si formò la leggenda cristiana.
Essa cova dapprima in alcuni mistici lacerati dalle calamità e dalle profezie. Poi lancia delle scintille oscure: se credete alla lettera di Plinio, vi erano già comunità cristiane nel 112.
Ma l'esplosione risale agli anni 150. La diaspora ha cacciato dalla Palestina i sopravvissuti di Israele; Abramo e Mosè sono scomparsi sotto le rovine del Tempio.
È l'ora di Gesù.
Tutto allora appare di colpo: raccolta parziale delle epistole paoline, prima redazione dei Sinottici, i Papi e i primi vescovi, Marcione e i primi eresiarchi. Giustino fonda l'apologetica e lo pseudo-Giovanni la teologia.
Presto appariranno Celso e i primi avversari...
Gesù è ormai personaggio storico.
Et Verbum caro factum est: il Verbo dei profeti si è fatto carne.
NOTE
[218] Osea 11:1; si veda Matteo 2:15.
[219] Rops, op. cit., pag. 7. Rops parla ovviamente di Gesù.
[220] Aegidius Tschudi, detto il Padre della storiografia svizzera (1505-1572). La sua Helvetische Kronik riporta la storia di Tell.
[221] Genesi 49:10. L'etimologia di Sciloh è discussa, ma gli esegeti vi vedono lo stesso Messia.
[222] Giuseppe, Antichità 17:36-46.
[223] Giuseppe, Guerra Giudaica 6:5, 4.
[224] Giuseppe, Guerra Giudaica 4:9, 3.
[225] Orinen, in qua fuere Hierosolyma (Hist. Nat. 5:70).
[226] Guitton, Jésus, pag. 64.
[227] Origene, Contra Celsum, libro 2, capitolo 33.
[228] Tacito, Storie, libro 5, 18; Svetonio, Vita Vespasiani, capitolo 4.
[229] Virgilio e il mistero della IV° Egloga (L'Artisan du Livre, 1930).
[230] Tacito, Storie, libro 5, 13.
[231] Platone, Della Repubblica, libro 2:361. Traduzione di Léon Robin. Ed. de la Pléiade, volume I, pag. 904.
[232] pag. 19.
[233] Giuseppe, Antichità 15:10.
[234] Ignazio, Epistola agli Smirnesi, 7:1.
[235] Cardinal Valerio, vescovo di Verona nel XVI° secolo: Trattato De Rhetorica christiana.
[236] Daniele 7:13 ss.
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