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1 — Natura dei Vangeli
Anatole France disse a Couchoud: «Prima di criticare un vangelo, si dovrebbe sapere che cos'è un vangelo». [7]
A prima vista, i Vangeli canonici si presentano come i racconti della vita e dell'insegnamento di Gesù. Ma sono ricolmi di miracoli; non raccontano la vita di un uomo, riportano l'incarnazione e la resurrezione di un dio.
Renan e i suoi discepoli credevano che eliminando i miracoli, giudicati irrazionali, si potesse ottenere un residuo di valore storico. Residuo molto incoerente, a dire il vero, poiché nella sua prefazione alla 13° edizione della Vita di Gesù, Renan ammetteva: «Se ci si attenesse, scrivendo la vita di Gesù, a non avanzare che cose certe, occorrerebbe limitarsi a qualche riga». Ciò non ha impedito a Renan di attingere dai Vangeli, con l'aiuto di «congetture», un libro più grande di tutti i canonici messi assieme, e che i suoi successori si impegneranno a rovinare.
L'errore di Renan fu di prendere i vangeli per dei racconti storici. Non soltanto si sono denunciate molto spesso le fantasie del loro contesto geografico, le libertà che i loro autori si prendevano con la cronologia o con i personaggi della storia. Ma si dimentica soprattutto che i vangeli non hanno per scopo di raccontare: essi annunciano la buona novella della redenzione dell'umanità per mezzo dell'intervento di un dio. In quella prospettiva, i miracoli non sono episodi gratuiti, essi costituiscono le prove necessarie dell'intervento divino, sono la base della dimostrazione. «Il divino e l'umano, nel Vangelo, sono dello stesso tessuto». [8] È quindi non soltanto arbitrario, ma anche impossibile distinguervi tra un racconto storico e i miracoli: questi fanno parte del racconto in numero considerevole. «Supponete per un momento che Gesù sia Dio... allora tutto va da sé nel Vangelo, nulla vi sorprende, tutto vi è al suo posto». [9] Ma supponete al contrario che si tratti di un qualunque predicatore ebreo, messo a morte da Pilato, e niente vi ha più senso. Tutti i tentativi fatti da Renan e dalla sua scuola per ridurre i vangeli ad una semplice biografia umana, in un dato tempo e in un dato contesto, erano in anticipo destinati allo scacco, e non hanno portato che a sostituire alla rivelazione cristiana un enigma insolubile e falso: come mai, di questo oscuro predicatore che era finito così male, si sarebbe potuto fare un dio? E se, secondo Loisy o Guignebert, il crocifisso non è il fondatore del cristianesimo, perché la nuova religione si è legata a questo condannato dal diritto comune?
I razionalisti obiettano che non si può credere ai miracoli; che esistono, del resto, nei Vangeli, contraddizioni e incongruenze relativamente ai miracoli attribuiti a Gesù; che tre evangelisti su quattro ignorano la resurrezione di Lazzaro, riportata soltanto dal più tardivo. Alcuni ricorderanno persino l'obiezione di Diderot: «Dovunque si sono visti popoli trascinati da un unico falso miracolo, e Gesù Cristo non è riuscito a ottenere nulla dal popolo ebraico con una infinità di miracoli autentici. È questo miracolo dell'incredulità degli ebrei che bisogna spiegare». [10]
Ma la questione non è qui di sapere se bisogna credere ai miracoli. È di constatare che i miracoli sono l'essenza dei Vangeli, e che, se li si sopprime, queste opere non hanno più alcun senso. È come prova della sua qualità messianica che il Gesù dei Vangeli invoca lui stesso i suoi miracoli: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti resuscitano». [11] Se Gesù non ha fatto questi miracoli, è la prova della sua qualità messianica, della sua divinità che crolla, e con essa tutto il fondamento della fede in Gesù e del cristianesimo.
Va ricordato qui l'esempio dato da George Brandes, [12] tratto dal racconto «Cappuccetto Rosso». È possibilissimo che un lupo divori una bambina, diremo per questo motivo che si deve credere all'esistenza della bambina e del lupo? In tutta evidenza, quella storia non è stata scritta che in vista della sua conclusione; se se ne elimina il meraviglioso, se la si riduce ad un fatto diverso, essa non ha più senso. [13]
Si può senza dubbio, con l'aiuto di «congetture», ricavare dai Vangeli una biografia plausibile, ma questo non è quello che i loro autori hanno voluto mettervi: essi non raccontano la storia di un uomo, ma quella di un dio. E se l'eroe non è risorto, l'uomo Gesù svanisce nella misura in cui si tenta di avvicinarlo, il suo ruolo diventa incomprensibile.
«Un vangelo non è né un documento storico, né una favola, né un poema, né una morale. È una breve storia sacra che racconta il più grande intervento di Dio nel destino degli uomini. Il vangelo è il veicolo della fede». [14]
Non bisogna dunque sorprendersi del fatto che i credenti siano insensibili alle contraddizioni, alle implausibilità dei racconti evangelici. Che importa loro, se Gesù è il Salvatore divino, che non abbia potuto trovare in paese ebraico un allevatore di 2.000 porci, [15] o che si sia irritato a torto, come un bambino capriccioso, perché un fico non portava frutti in primavera? [16] Questi dettagli non hanno alcuna importanza per la salvezza. I protestanti ammettono del resto la natura simbolica di molti episodi, e, più o meno vergognosamente, molti cattolici pensano lo stesso. Non c'è quasi nessuno, se non i razionalisti, che si legano alla plausibilità di un processo notturno davanti al Sinedrio (sconosciuto a Giovanni) la vigilia della Pasqua ebraica, o che si stupiscono che i più antichi manoscritti di Marco non contengono il resoconto della resurrezione. [17] La fede si lega all'essenziale, e l'essenziale è la missione salvifica di Gesù: anche se avesse fondato la religione cristiana, un uomo non potrebbe interessare il credente.
C'è di più. Nella loro volontà di provare che Gesù era davvero il Messia predetto dall'Antico Testamento, gli evangelisti insistono sul compimento integrale delle profezie. Se, dopo la morte di Gesù, i soldati tirano a sorte sulle sue vesti, [18] questo non è un dettaglio inutile né un ricordo; è, come lo precisa Giovanni, [19] «affinché si adempisse la Scrittura», ed egli cita la sua fonte. [20] Tutti questi dettagli non sono fatti, ma prove, e poco importa al credente che siano attinti proprio dai testi invocati, non da ricordi autentici.
I vangeli non hanno per scopo di raccontare, ma di dimostrare: sono opere apologetiche, non racconti di storia.
La Chiesa stessa, costretta dalla critica, ha finito per convenirne, e ha ammorbidito le sue posizioni da quando Leone XIII affermava ancora, nell'Enciclica Providentissimus, che gli evangelisti ci hanno trasmesso tutto «con una impeccabile fedeltà».
Leggiamo, per esempio, nella Bible de Jérusalem, [21], sotto la direzione del padre de Vaux e la firma del padre Benoît, le seguenti importanti riserve: «Certamente, né gli apostoli né gli altri predicatori e narratori evangelici hanno cercato di fare della storia nel senso tecnico di questo termine; il loro scopo era meno profano e più teologico; hanno parlato per convertire ed edificare... Ciascuno dei fatti o dei detti che riportano non può essere preso per una riproduzione rigorosamente esatta di ciò che si è svolto nella realtà... poiché vediamo lo stesso racconto o lo stesso discorso trasmesso in modo diverso dai diversi Vangeli». Ma, siccome si afferma che i Vangeli sono ispirati dallo Spirito Santo, queste divergenze devono essere considerate come volute da lui, «perché egli non accordò alla precisione materiale importanza per la fede».
Pensiamo che la divergenza delle testimonianze sia meno probante del loro accordo? La fede ragiona altrimenti. E anche se la divergenza «risulta da correzioni intenzionali, questo è ancora un guadagno». In altri termini, la prova che si dice vera, accade che si contraddice, e la successiva correzione delle testimonianze, lungi dal distruggerne il valore, ne accresce la portata!
Si è notato che il Concilio Vaticano II, pur riaffermando, beninteso, la storicità dei vangeli, non ha più osato proclamare la loro storicità «integrale». [22]
In breve, i vangeli costituiscono un genere letterario molto particolare, «dove domina tirannicamente l'ansia di edificare, dove la pratica del plagio più evidente si concilia perfettamente con il disprezzo del testo plagiato, dove il completo disprezzo dell'ordine, della logica e della cronologia è la regola fondamentale... Si comprenderà che le più grandi precauzioni si impongono a chi tenta di strappare da documenti così scoraggianti i brandelli di verità che forse ancora possiedono». [23]
NOTE
[7] COUCHOUD, Le dieu Jésus (Gallimard), pag. 77.
[8] COUCHOUD, op. cit., pag. 79.
[9] JEAN GUITTON, Difficultés de croire, pag. 143.
[10] Addition aux pensées philosophiques.
[11] Matteo 11:4-5, Luca 7:22.
[12] George Brandes, Le christianisme primitif.
[13] Salvo, beninteso, il significato erotico, abbastanza apparente in quella storia.
[14] Le dieu Jésus, op. cit., pag. 212.
[15] Marco 5:11, Matteo 8:30, Luca 8:32.
[16] Marco 11:13, Matteo 21:19.
[17] Il finale 16:9-20 non figura nei manoscritti del IV° secolo.
[18] Marco 15:24, Matteo 27:35, Luca 23:34.
[19] Giovanni 19:24.
[20] «Spartiscono fra loro le mie vesti e tirano a sorte la mia tunica» (Salmo 22:19).
[21] Ed. du Cerf, 1961.
[22] J. TORRIS, L'historicité des Evangiles et le Concile, Bulletin du Cercle E. Renan, dicembre 1967.
[23] GUIGNEBERT, Jésus, introduzione, pag. 32.
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