giovedì 17 dicembre 2020

IL PUZZLE DEI VANGELILa lingua dei vangeli

 (segue da qui)

3 — La lingua dei vangeli

Come tutti gli scritti del cristianesimo, i vangeli sono stati scritti in lingua greca.

Ci si potrebbe stupire se si volesse difendere le attribuzioni tradizionali, ma vedremo che sono escluse, in particolare dalla data di stesura. Vi era l'usanza costante di porre gli scritti sotto il nome di personaggi apostolici, per accreditarli, e i vangeli non canonici sono similmente attribuiti a Pietro, Filippo, Tommaso, ecc.

La stesura in lingua greca ci conferma, al contrario, tutto ciò che sappiamo d'altro canto sulla nascita del cristianesimo al di fuori dell'ambiente palestinese. Tutto il vocabolario cristiano è greco (vangelo, eucarestia, apostolo, vescovo, diacono, presbitero, ecc.), e il nome stesso di Gesù non è mai citato che sotto la sua forma greca. Per di più, quando i vangeli citano l'Antico Testamento, è sempre nella traduzione greca dei Settanta. Quando, in via del tutto eccezionale, un termine ebraico (o aramaico) è evocato, essi ne danno subito la traduzione in greco. [40]

Non c'è dubbio, quindi, che i vangeli siano stati scritti in un ambiente e per lettori di cui il greco era la lingua familiare. Era il caso della primitiva comunità romana, dove furono certamente scritti Marco e Luca; era anche il caso di quella di Antiochia, dove, secondo gli Atti degli Apostoli, [41] fu dato per la prima volta ai discepoli il nome di «cristiani», — altro termine greco (che deriva da Christos o da chrestos).

A queste constatazioni si aggiungono, come dirò più avanti, la stupefacente ignoranza della geografia palestinese, l'imprecisione dei luoghi.

Basandosi su una espressione piuttosto vaga attribuita al vescovo Papia da Eusebio (nel IV° secolo), la Chiesa assicura che sarebbe esistita una versione primitiva del Vangelo di Matteo, in aramaico. Ma non si è trovata alcuna traccia di quella pretesa versione aramaica. Papia avrebbe detto soltanto che Matteo «riunì in lingua ebraica i logia», e l'interpretazione di quella espressione dipende dalla traduzione che si dà del termine «logia». Si è voluto vedervi una raccolta di parole o detti attribuiti a Gesù. Più probabilmente si tratta di «profezie» tratte dall'Antico Testamento e che si riferivano al Messia (o considerate tali); una tale raccolta ha certamente preceduto la stesura dei vangeli. Si spiegherebbe così la «lingua ebraica», che Papia non ha potuto confondere con l'aramaico. Nulla in questa frase permette, in ogni caso, di pensare che Papia abbia visto e conosciuto il testo attuale del Vangelo di Matteo, che contiene ben altra cosa che dei «logia». Del resto è difficile immaginare che la Chiesa primitiva abbia lasciato perdere la visione originale del primo Vangelo, per non conservarne che una traduzione, rimaneggiata in particolare per mezzo di copiature da Marco.

LO STILE — La qualità letteraria dei vangeli è variamente apprezzata. Questo non è certo il greco di Platone, ma la lingua è meno scorretta di quanto talvolta si sia sostenuto, e va pur considerato che gli scrittori evangelici non avevano per scopo che di scrivere delle opere letterarie. Per di più, se conosciamo bene il greco classico, sappiamo molto meno la lingua parlata o popolare. 

La questione della lingua dei vangeli potrebbe assumere un nuovo interesse se si ammettesse, come me, che questi scritti sono formati dalla sovrapposizione di frammenti di provenienze diverse: uno studio della lingua e del vocabolario potrebbe aiutare a differenziare queste fonti. Questo non è così sicuro però, poiché ogni scrittore ha rimaneggiato i frammenti che utilizza: è dalla sostanza, molto più che dalla forma, che si possono individuare le fonti, e un'apparente unità di stile, che risulta per esempio dall'impiego delle congiunzioni, non sarebbe sufficiente a stabilire l'unità della composizione.

Si noterà, da questo punto di vista, la goffaggine di Marco nei raccordi, il suo uso sistematico di kai (e) per collegare versi senza legame logico tra loro. Matteo, al contrario, allinea testi di provenienze diverse senza nemmeno assicurare il loro legame: il discorso della montagna è composto così da una serie di frasi che si ritrovano altrove e separatamente presso gli altre due. La ripetizione di una stessa formula [42] non è nemmeno caratteristica dello stile di uno stesso autore, perché le espressioni potevano preesistere nell'unica fonte più volte utilizzata, oppure nelle fonti simili. Ciò diventa evidente quando la stessa ripetizione si ritrova in Marco e in Luca, o ancora quando la stessa frase viene attribuita dapprima a Giovanni il Battista, poi a Gesù per trasmissione dalla stessa fonte. 

Il Vangelo di Luca, si dice, è il meglio scritto: lo è di certo dal punto di vista della sintassi. Tuttavia anche gli autori cattolici vi rilevano strane differenze di stile, a volte eleganti e a volte volgari. Questo non deve sorprendere coloro che sono portati a constatare la dualità degli scrittori. Loisy stesso aveva rilevato, accanto ai «preziosismi semitici», che l'opera era generalmente «di un uomo che non sapeva l'ebraico, ma coltivava la versione dei Settanta». [43]

Quanto al Quarto Vangelo, che è un'opera composita, il suo prologo maestoso testimonia una conoscenza della filosofia alessandrina che non potrebbe essere attribuita ad un semplice pescatore del lago di Tiberiade. Vi si è potuto discernere fino a cinque fonti diverse.

Nel complesso, quindi, non si potrebbero trarre conclusioni definitive solo da uno studio linguistico.

Da questo punto di vista, bisogna ben convenire che le distinzioni di un Bultmann tra gli «apoftegmi» e i «logia», tra i racconti o leggende biografiche e i racconti di miracoli, molto razionali per una classificazione, non ci fanno molta luce sulla provenienza di ciascun elemento. La scuola di Dibelius [44] ha ben visto che i vangeli erano formati da frammenti rappezzati e da strati successivi, ma i suoi tentativi di classificazione (a seconda che la frase sia all'indicativo o all'imperativo, che il racconto sia breve o dettagliato, che il detto sia sapienziale, giuridico o profetico, ecc.) non hanno permesso di ritrovare i testi iniziali allo stato puro, ancor meno di attribuirli con certezza.

PROSA RITMICA — Le considerazioni precedenti svaniscono di fronte a una constatazione più sorprendente:  numerosi passi dei vangeli non sono scritti in prosa, ma in prosa ritmica. Una analisi attenta permette di distinguervi delle strofe abbastanza regolari. [45] Non si tratta della poesia, ma di una forma piuttosto particolare, adattata alla recitazione pubblica, che implica già l'esistenza di un culto. A volte anche degli inni vi sono interposti: nel prologo di Luca, per esempio, Maria intona il Magnificat e Zaccaria il Benedictus. [46]

Tutto ciò ci porta ancor più lontano da una semplice raccolta di ricordi storici, e ne consegue che i vangeli sono stati scritti per l'uso di un culto già elaborato, in vista di riunioni rituali; si potrebbe anche pensare che i brani in prosa ritmica fossero destinati ad essere cantati o salmodiati. L'abitudine di leggere i vangeli in traduzione ci fa perdere ogni senso della forma di questi «poemi della fede».

NOTE

[40] Si veda Marco 5:41, 7:11, 7:34, 14:36, 15:34; Matteo 1:23, 27:33, 27:46. Giovanni (1:41) crede perfino di dover spiegare che «Messia» significa «Cristo» (id. 4:25).

[41] Atti:26.

[42] Per esempio, Matteo 8:2 e 9:18, 8:12, 22:13 e 25:30, 9:4 e 12:25, ecc.

[43] LOISY, L'Evangile selon Luc, introduzione, pag. 63.

[44] Detta anche della Formesgeschichte, a causa del titolo dell'opera di Dibelius, Die Formesgeschichte des Evangeliums, Tubinga, 1919-1933.

[45] LOISY (op. cit., pag. 65) ne dà degli esempi ricavati da Marco e da Luca. Nulla ne è più dimostrativo del racconto della tempesta placata in Marco (4:35-41) con le sue 6 strofe di 4 versi.

[46] Luca 1:46 e 1:67.

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