mercoledì 13 febbraio 2019

«Il Dio Gesù» (di Paul-Louis Couchoud) — La leggenda umana di Gesù (XXXI): LUCA

(Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro del miticista P.-L. Couchoud, «Le Dieu Jésus». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

INDICE

PARTE PRIMA: Gesù l'Uomo-Dio (I)

Gesù l'Uomo-Dio (II)

PARTE SECONDA:
Gesù puramente uomo


RENAN

LOISY

GUIGNEBERT

FALLIMENTO E APOTEOSI DI GESÙ

PARTE TERZA: Gesù Dio salvatore

IL MIO ITINERARIO VERSO GESÙ

ORIGINE DEL CULTO DI GESÙ

L'APOCALISSE

PAOLO

IL CULTO DEL SALVATORE

PARTE QUARTA: Visita agli dèi di salvezza

DIONISO

DEMETRA E CORE

ISIDE E OSIRIDE

CIBELE E ATTIS

MITRA

PARTE QUINTA: La leggenda umana di Gesù

LA PERSECUZIONE

L'UMANIZZAZIONE DI GESÙ

IL PROFETA ERMAS

VISIONI

ORACOLI DEL SIGNORE

INNI

PARABOLE

MIRACOLI SIMBOLICI

ORIGINE DEI VANGELI

MARCO

MATTEO

GIOVANNI

LUCA



PARTE QUINTA

LA LEGGENDA UMANA DI GESÙ

LUCA

Il racconto sacro che batte la bandiera di Luca è di tutt'altra natura. Va oltre i limiti del vangelo. Ha delle estensioni nella leggenda storica, e nella storia documentata. Comprende due parti: il vangelo, gli Atti degli Apostoli che, separati nelle nostre Bibbie, formano tuttavia una sola opera. L'autore ha sentito che se vi è una storia di Gesù, deve riferirsi alla Storia generale. La collega abilmente alla storia leggendaria della Chiesa. Egli unisce senza esitazione ciò che è della fede a ciò che è della memoria. Il vangelo, storia rivelata di Gesù, diventa il capitolo iniziale della storia delle origini cristiane, che i cristiani devono rappresentare per sé stessi, per rafforzare la loro fede. Il libro non si rivolge direttamente alla massa fedele. In una dedica in greco elegante l'autore che, contro l'uso, non nomina sé stesso, lo rivolge a Teofilo, di alto rango (kratistos), antiocheno, si dice, che aveva dato l'argento per far costruire una chiesa (Costituzioni Apostoliche). Anche un pagano può leggere senza essere scioccato, o troppo sorpreso, queste Antichità cristiane, avendo letto le Antichità giudaiche dedicate da Flavio Giuseppe all'aristocrazia romana. L'autore mira a dare un racconto interessante, toccante e, per quanto la storia sacra lo consenta, verosimile. Comincia come narratore di leggenda e diventa gradualmente lo storico spirituale dell'umanità. La sua arte è stata di riunire e fondere, sotto la stessa luce tenera e con lo stesso tono di edificazione, quattro pezzi di natura molto diversa. un midrash del tutto meraviglioso sulle nascite di Giovanni il Battista e di Gesù. Adotta la nascita verginale di Gesù, ma rifiuta il resto della storia di Matteo, perché ha in orrore i Magi e la magia e vuole dimostrare che il messaggio di salvezza è stato dato dapprima ai poveri. Il racconto liturgico della redenzione degli uomini da parte del Figlio di Dio, dal Battesimo fino alla resurrezione, che è propriamente il vangelo. La leggenda dorata dei primi tempi cristiani, le imprese e i miracoli di Pietro, di Giovanni, di Stefano, di Filippo, adornati e impreziositi dall'agiografia. La narrazione delle missioni di Paolo, altrettanto agiografica, ma dove sono inseriti degli estratti di un documento di buona qualità, il diario di bordo di un compagno dell'apostolo, che lo ha accompagnato dalla Troade a Roma. Questo compagno è molto probabilmente quello che Paolo chiama (Colossesi 4:14): “Luca, il nostro caro medico”. La sua testimonianza che copre alcune pagine dell'opera è stata estesa da una parte all'altra.
In questo insieme armonioso la vita terrena del Figlio di Dio sembra assumere il carattere semi-storico delle leggende tra le quali è inserita, o anche il carattere storico degli ultimi viaggi di san Paolo. Il Dio Gesù partecipa, letteralmente, alla storicità dell'uomo Paolo. L'autore non si immischia, come Giovanni, nell'affermare e definire la divinità di Gesù: il culto e la liturgia la stabiliscono abbastanza fortemente, senza dubbio, per ogni cristiano. Non affronta gli stessi avversari di Giovanni. Quelli che dicono che Gesù è solo un uomo gli sembrano meno temibili di quelli che dicono ai cristiani, come fa il rabbino Trifone: “Voi avete accettato una vana diceria. Voi vi fabbricate da voi stessi un certo Cristo” (Giustino, Dial. 8). “La Chiesa ha avuto tanta difficoltà a provare che Gesù Cristo era uomo, contro coloro che lo negavano, quanto ne ha avuta a mostrare che era Dio, e le apparenze erano ugualmente grandi” (Pascal). Luca è uno di quelli che si sono presi la briga di dimostrare che è un uomo. Cerca di dare al tema della vita terrena di Dio la qualità della Storia. Dipinge l'Uomo-Dio sotto i tratti più umani e più sensibili che riesce a trovare. È ansioso di datare il suo passaggio sulla terra con tutta la precisione desiderabile. I libri storici di Flavio Giuseppe, dai quali attinge discretamente, recitano in lui quasi lo stesso ruolo recitato in Giovanni dai ricordi della Palestina. Gli servono a colmare il quadro storico e geografico dove collocare l'avventura umana del Figlio di Dio.
Per riempire il quadro, ha le stesse due fonti di Matteo. Vale a dire Marco e una buona collezione di oracoli del Signore. Abbellisce Marco, lo corregge, lo mette in un linguaggio ricercato. Sopprime un miracolo che è poco utile e troppo forte: la passeggiata di Gesù sulle acque, tratta in parabole il miracolo del fico essiccato. Sopprime l'intero viaggio di Gesù in terra pagana, che prefigura l'evangelizzazione dei pagani, perché si riserva di raccontarla direttamente. Per quanto riguarda gli oracoli del Signore, li dispone meno di Matteo in sermoni. Li inserisce invece in aneddoti. Ha conosciuto il vangelo innovativo di Giovanni, vi disegna alcuni dettagli. Ma disapprova come inutile la resurrezione di Lazzaro. La spiega a parole. Usa il personaggio folcloristico di Lazzaro in una narrazione morale, imitata dall'egiziano. Mostra il Ricco nell'Ade e Lazzaro il povero nel seno di Abramo. E il Ricco chiede a Dio di far risorgere Lazzaro perché gli ebrei possano convertirsi. Dio risponde: se non ascoltano Mosè e i Profeti, non crederanno nemmeno a un morto risorto. Niente di meglio segna la differenza tra Giovanni e Luca. Per Giovanni, contemplatore della certezza, la resurrezione di Lazzaro è una delle più alte rivelazioni di Gesù: la resurrezione accordata al credente in questa vita, prima della Resurrezione generale dei morti. Luca, un ricercatore di verosimiglianza, trova difficile la resurrezione di un uomo morto da quattro giorni. Gesù l'avrebbe effettuata solo se avesse voluto dare una grande dimostrazione e convincere gli ebrei. Ma non poteva sperare di convincerli. Dunque... Alla credibilità, Luca sacrifica un sacco. Anche, se necessario, una parte della credenza.
Gesù, secondo Luca, non è più il Martire irritato che è secondo Marco, né il Legislatore clemente di Matteo, né il grande Pastore che, secondo Giovanni, veglia sulle nostre anime. Lui è la Misericordia infinita e il campione dei poveri. Compassionevole, tenero, sentimentale, un po' lacrimoso, ha durezza solo per i ricchi. Li affronta con terribili imprecazioni. I poveri sono i suoi beneamati. È fraterno con loro. Fa sentire rudemente agli altri (ivi compreso Teofilo) che non vi è alcuna religione dei sazi, che il ricco avrà la più grande difficoltà nel raggiungere la salvezza. Assume nelle parti proprie di Luca dei tratti di riformatore sociale. È mosso dalla miseria degli uomini. Non solo dalla miseria spirituale, associata al peccato. Della miseria in senso stretto, quella che è dovuta alla cattiva distribuzione della ricchezza. Instilla nella sua Chiesa l'ideale della povertà, senza la quale nessuna spiritualità si risveglia. La dirige verso un comunismo fervente, quello che Luca ritrae come esistito nella comunità primitiva, quello che può essere visto oggi in Israele, in un kibbutz di Palestina. Il Gesù di Luca ha acceso la fiamma della giustizia che arde ai giorni nostri certi giovani preti operai, certi puritani laburisti. Da lui arriva quello che Maurras denunciò come “l'eterno fermento rivoluzionario del Vangelo”.
Se si abbraccia l'intera opera di Luca nel suo grandioso sviluppo, vi si vede il nodo centrale di un'epopea il cui soggetto si estende all'intera durata dell'umanità. È l'epopea dello Spirito. Dio ha inviato il suo Spirito ai profeti di Israele e, per un disegno misterioso, lo ha ritirato per diversi secoli. Non appena appare Gesù, lo Spirito sgorga da tutte le parti: da Elisabetta, da Maria, dal vecchio Simeone, dalla profetessa Anna, da Giovanni il Battista. Nell'Uomo-Dio, nato da una vergine che lo Spirito feconda, lo Spirito si manifesta nella sua pienezza. Gesù è venuto in questo mondo per fondare la Chiesa. Forma dodici buoni sacerdoti che avranno il deposito dello Spirito e il dovere di trasmetterlo. Al momento di lasciare la terra, annuncia loro che lo Spirito scenderà su di loro per dare loro il suo Potere. E il giorno di Pentecoste lo Spirito cade come un grande Vento che li disperde nell'universo. Atto formidabile che uno scultore di genio rappresenterà sul grande timpano di Vézelay. Da allora, lo Spirito vive nella Chiesa, dove fa costantemente miracoli. È trasmesso ai credenti da coloro che l'hanno ricevuto dai primi Apostoli. Da loro soli. Non c'è più spazio per la profezia individuale. L'epopea divina continua attraverso la storia degli uomini, che è una continuità guidata dallo Spirito. Ho assistito nella Basilica di Fourvière alla liturgia cattolica dell'ordinazione. Nel momento in cui lo Spirito invocato soffia invisibilmente, il vescovo e tutti i sacerdoti presenti impongono le mani su ciascuno di coloro che diventano sacerdoti. Trasmettono loro il potere di perdonare i peccati e di consacrare il corpo e il sangue di Gesù. Poi con loro celebrano il sacrificio. Avevo sotto gli occhi una delle innumerevoli scene che costituiscono il seguito degli Atti degli Apostoli. Luca ha fatto molto per la fede nel riconoscere nello Spirito una persona divina, distinta da Gesù e dal Padre, che procede da loro e si riassorbe con loro nell'unità di Dio.
Se alcuni romani vogliono leggere il suo libro, possono farne una lezione politica. Vi vedranno che il cristianesimo non è affatto una religione veramente distinta dal giudaismo. In verità, è l'erede universale del giudaismo, il vero Israele di cui gli ebrei di oggi (che fanno la guerra all'Impero) si sono perversamente esclusi. I cristiani sono gli ebrei di diritto: “Noi siamo l'autentica razza israelita” (Giustino). Ereditano quindi i privilegi e le tolleranze che la legge romana concedeva agli ebrei. Avviso ai magistrati romani che devono giudicare i cristiani! Ogni volta che Luca mette in scena Pilato, Gallione, Felice o Festo, mostra le loro perplessità. Sono sempre i malvagi ebrei che li aggirano e li ingannano. Che si dia ai cristiani lo statuto giudaico a cui loro soli hanno diritto. Non vi è affatto un modo onorevole per porre fine alla persecuzione?
Un evangelista ispirato, e anche un letterato, un avvocato e, soprattutto, un uomo di Chiesa, tale sembra l'autore dei due rotoli di Luca. Sa prendere lo stile biblico (all'inizio del Vangelo), quello della diatriba stoica (nel discorso di Paolo all'Areopago). Conosce le sottigliezze delle procedure giuridiche, al pari di quelle della navigazione sotto la tempesta. Lo spazio della sua mente (e dello Spirito in lui) è grande. Medita sul futuro della Chiesa con un allegro ottimismo. Malgrado la persecuzione, la Chiesa un giorno si imporrà all'Impero per il potere dello Spirito. Che lei si guardi soprattutto dai pericoli della ricchezza! Vuole che ogni chiesa sia gestita da un collegio di sacerdoti piuttosto che da un vescovo monarca. In questo si allontana da Ignazio di Antiochia e si avvicina a Clemente Romano, con il quale ha altre affinità. È probabilmente un prete di Roma, un pagano convertito, traboccante di gratitudine verso Dio, l'unico pagano antico apparentemente, l'unico Europeo tra gli autori del Nuovo Testamento, un uomo d'Occidente pieno di dolcezza e di forza nascosta. Roma non è affatto Efeso. Non porta nell'eterno dei cristiani d'elité che si separano dal mondo. Tiene consiglio con degli uomini responsabili, affinché la Chiesa ottenga il suo giusto e degno posto nell'ordine stabilito del mondo.
L'epoca dell'opera sembra essere l'inizio del regno di Antonino (a partire dal 138, Giustino la leggeva nel 150 circa). Gli ebrei ribelli sono completamente sconfitti, spazzati via. È tempo di rivendicare la loro eredità spirituale e temporale. Adriano, scettico e stanco, è morto. Un provinciale virtuoso, un uomo onesto gli succede. Una speranza nasce nel campo cristiano. Il valoroso e rozzo Giustino rivolgerà presto ad Antonino le sue Apologie. L'opera di Luca “è la prima delle apologie” (Streeter), la più abile. All'avversario che si può credere ammorbidito, il cristianesimo vuole mostrare nella luce migliore la sua figura storica. L'epifania del suo Dio ha preso abbastanza consistenza storica per fare da grande e radioso frontespizio alla storia leggendaria  dei primi araldi della fede.


I quattro vangeli, nella loro diversità, sono egualmente ammirevoli. Ciascuno ha delle bellezze che le sono proprie. Come si suol dire: le vetrate di Chartres, la facciata di Parigi, la navata di Amiens, i portici di Reims, si potrebbe dire: la Passione di Marco, il Sermone di Matteo, il Prologo di Giovanni, le parabole di Luca. Uniti in quattro facciate, dominano, come una cattedrale isolata, la vasta pianura delle letterature. Per il sublime e l'inaudito del soggetto, la semplicità e la gravità del tono, l'energia e l'efficacia dell'effetto, sono il più grande libro che sia mai stato scritto.
Dal punto di vista della fede si completano, si equilibrano a vicenda. Le loro discordanze rispondono alle esigenze diverse, talvolta opposte, della fede. “Perciò, anche se i singoli vangeli insegnano diversi principi, per la fede dei credenti non cambia niente” (Canone di Muratori). La Chiesa ha avuto ragione nel tenerli separati, invece di fonderli secondo il goffo tentativo di Taziano. Su un tema comune sono delle rivelazioni distinte dello Spirito. Ha avuto anche ragione nel rifiutare il sigillo autentico dell'ispirazione a dei vangeli troppo particolari per servire alla lettura liturgica di tutte le chiese, come quelli degli Ebrei, degli Egiziani, dei Nazareni, di Pietro, gli Atti di Pilato. I frammenti che ne restano giustificano questo rifiuto. La Chiesa ha trovato nei quattro vangeli che ha riconosciuto l'esposizione persuasiva e completa del mistero cristiano e ciò che ha voluto preservare di tutti i frutti dello Spirito che aveva in serbo nelle sue cantine.
Il potere dei vangeli si è mostrato fin dall'inizio per la tabula rasa che hanno prodotto attorno a loro. Hanno spento la profezia individuale e le apocalissi. Hanno respinto la gnosi. Terminato il pettegolezzo profetico alla maniera di Ermas. Placato il fervore apocalittico di questa comunità che andò nel deserto per incontrare Cristo, di quest'altra che vendette i suoi beni nell'attesa del Giudizio immediato annunciato da un veggente (Ippolito, Su Daniele). Tutti gli oracoli del Signore sono ora consegnati. Niente di più vi deve essere aggiunto. E quale credito sarà ora posseduto dalle raffinate speculazioni di Basilide e di Valentino? Una narrazione sobria e forte rende più intelligibile alle masse il mistero della loro salvezza di quanto potessero fare la genealogia degli eoni e le avventure metafisiche di Sofia. Tutto il primo cristianesimo fondato sulle visioni e sugli oracoli dei profeti, sulle elevate intuizioni dei maestri, è in procinto di svanire. Sulla base nuova, ferma, quadrata dei vangeli, un cristianesimo stabile sorgerà. È un nuovo inizio. I vangeli hanno, con la forza della parola, fondato il cristianesimo per la seconda volta.


Alla fine di questa prospettiva, leggiamo di nuovo per rilassarci la pagina illusoria in cui Renan paragona gli evangelisti a dei vecchi nostalgici dell'imperatore: “Supponiamo che da dieci o dodici anni, tre o quattro vecchi soldati dell'impero si fossero messi, ciascuno dalla sua parte, a scrivere secondo le loro memorie la vita di Napoleone. Le loro narrazioni, gli è chiaro, offrirebbero molti errori e gravi discrepanze. L'uno porrebbe Wagram prima di Marengo; l'altro non tituberebbe nello scrivere che Napoleone scacciò dalle Tuglierie il governo di Robespierre; il terzo dimenticherebbe importantissime spedizioni. Però da questi ingenui racconti e con alto grado di verità balzerebbe fuori senza dubbio il carattere dell'eroe e l'impressione che si produceva d'intorno. Tali popolari storie in codesto senso varrebbero meglio d'una storia solenne e officiale. Si può dire altrettanto degli Evangeli” (Vita di Gesù. Introduzione).
La completa falsità del paragone è dovuto al fatto che gli evangelisti non scrivono la biografia di un eroe ma il mistero rivelato di un Dio-uomo che muore e resuscita per la salvezza degli uomini. Che non scrivono con dei ricordi ma con l'aiuto dello Spirito. Non scrivono affatto ciascuno per proprio conto ma sulla bozza data dal primo tra loro. Se un personaggio esce dai vangeli con un alto grado di verità, non è  affatto quello di un uomo conosciuto per l'impressione che ha suscitato attorno a lui, è quello di un Dio salvatore annunciato dalle profezie, conosciuto dalle visioni, presente nell'eucaristia. I fatti che descrivono i vangeli, non sono affatto dei fatti di storia legati saldamente a delle circostanze di tempo e di luogo. Questi sono dei fatti divini la cui verità è che sono permanenti e universali. Mettere Wagram prima di Marengo equivale a capovolgere l'intera storia di Napoleone. Mettere la pesca miracolosa all'inizio dell'attività di Gesù oppure dopo la sua resurrezione è esattamente indifferente. Perché si tratta dell'evangelizzazione del mondo. Collocare la guarigione del paralitico in una casa di Cafarnao o in una piscina di Gerusalemme è completamente a scelta libera. Si tratta dell'assoluzione dell'anima peccatrice. L'unità dei vangeli non è dovuta affatto a dei dati storici. Consiste di un'informazione sacra, che è il mistero dell'incarnazione di Dio e della redenzione degli uomini.
Il quadro immaginario che Renan si fa sulla composizione dei vangeli contiene meno verità di quella che ha dato, nell'anno 200, la composizione di Giovanni, l'autore del Canone di Muratori. “Digiunate con me oggi e in questi tre giorni e qualsiasi cosa sarà rivelata a uno di noi ce la narreremo a vicenda. In quella stessa notte fu rivelato ad Andrea, uno degli apostoli, che Giovanni doveva scrivere tutto a suo nome e tutti gli altri dovevano verificarne l'esattezza”. Alla buon'ora! Quanto è buona l'impressione lasciata dalla lettura di Giovanni! Un'ispirazione collettiva è data a un gruppo ardente, spiritualizzato dal digiuno. Un leader detiene il calamaro. Tutti confermano. L'autore autentico è lo Spirito.
È necessario sempre ritornare alla concezione dello Spirito se ci si vuole ritrovarsi nel misterioso labirinto delle origini cristiane. Il giorno dell'Ascensione del 1949 ho partecipato nella periferia di Lione a una messa serale celebrata davanti agli operai da padre Remillieux, questo santo curato che ha ritrovato, ravvivato lo spirito della liturgia originale. Dall'altare, di fronte al pubblico, ha accompagnato le letture sacre e gli atti rituali con riflessioni familiari e profonde. Per evitare una domanda sullo scopo della festa, dice prima di leggere il vangelo: “L'Ascensione, amici miei, non è affatto Storia reale. È rivelazione”. Non credo proprio che il padre avrebbe esteso queste parole all'intero contenuto del vangelo. Ma è chiaro che è impossibile tracciare una linea ferma di demarcazione nel vangelo tra ciò che viene rivelato e ciò che sarebbe accaduto. Non commetto né un sacrilegio né un errore di storico nel pensare che là tutto è rivelato. Tutto, ivi compresa l'esistenza storica di Gesù. Gesù non è affatto conosciuto dalla Storia reale e dallo Spirito. È conosciuto dallo Spirito solamente.
Renan pone alla fine della sua Vita di Gesù un apostrofo lirico: “Riposa nella tua gloria, o nobile iniziatore! La tua opera è compiuta, fondata la tua divinità. Non temere più di veder crollare per qualche errore l'edificio che hai eretto; d'ora in poi, immune da fragilità, tu assisterai dall'alto della pace divina alle conseguenze infinite dei tuoi atti...  Fra te e Dio non si distinguerà più. Tu che hai compiutamente debellato la morte, prendi possesso del tuo regno, ove ti seguiranno per la spaziosa via da te aperta secoli di adoratori”.
Oserò io improntare lo stesso stile? Dopo aver misurato l'immenso percorso spirituale che va dalle epistole di Paolo alla storia santa di Luca, direi piuttosto il contrario: “Discendi ora nella tua carne mortale, come ad ogni carne, Verbo eterno di Dio. L'opera dei tuoi profeti e dei tuoi evangelisti è realizzata; la tua umanità è fondata. Immerso nel Padre, tu ti immergi nel profondo del genere umano, fino al compimento dell'Era. Tu abiti in mezzo a noi. Tu sei diventato uno di noi, o nostro fratello, al fine di portare la miseria degli uomini. Tra te e l'ultimo dei poveri non c'è più distinzione. Sei annoverato tra i figli di Adamo, o Figlio di Dio. Il tuo nome divino, che è anche un nome d'uomo, è inscritto nei registri dell'umanità miserabile e ricolma di speranza”.

FINE DEL LIBRO.

LODE E GLORIA AL DIO GESÙ.

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