giovedì 17 gennaio 2019

«Il Dio Gesù» (di Paul-Louis Couchoud) — Gesù puramente uomo (VI): GUIGNEBERT

(segue da qui)

PARTE SECONDA

GESÙ PURAMENTE UOMO

GUIGNEBERT

Dall'altro lato di via Saint-Jacques, Guignebert dispensava un insegnamento parallelo a quello di Loisy, più familiare, meno supportato, un po' considerevole. Era la stessa scuola, non lo stesso posto. Non aveva il fiero prestigio di Loisy. D'altra parte, era animato, aperto, gratificante. Accanto all'abate vescovo dell'esegesi, rappresentava il sagrestano rotondo e gioviale. Accanto al padrone esigente, un piacevole cameriere di commedia.
Meno petulante, truculento, turbolento, sarebbe stato un po' pedante. Tutto adornato di arida erudizione germanica, gli mancava completamente la serietà professionale. L'umorismo allegro, l'arguzia vivace, il tono strillone, sempre pronto alle proteste, era quello che si definisce in tedesco in una parola intraducibile in francese ein Bonvivant. Disturbato da reumatismi (i suoi genitori, ha detto, avevano bevuto sidro verde, ed era lui, il bevitore d'acqua, ad aver le membra disturbate), prendeva nella sua sedia delle pose contorte. La sua espressione era inestimabile. La sua voce ben marcata di tenore baritono (aveva voluto essere cantante) emanava interamente da sola una leggera comicità. La sua familiarità con i testi sacri divertiva. Bisognava sentirlo dichiarare con l'accento di Le Mans e un leggero difetto di pronuncia: “Io, non credo affatto nella scelta degli apostoli da parte di Gesù”. A proposito dei viaggi di Gesù, bisognava sentirlo concedere lentamente, con una generosità controllata: “Non sarei riluttante ... ad accettare la possibilità ... che grosso modo ... Marco avrebbe detto la verità”. Bisognava sentirlo trattenere il respiro per lasciare l'ultima punta delle labbra: “Le grandi linee dell'itinerario di Paolo, per alcune inquietudini in merito, hanno poche probabilità di essere precise”. Oppure, dopo aver esposto l'organizzazione della comunità primitiva, sentirlo concludere decisamente: “Il cassiere lo ha fatto la Chiesa”. Un vecchio ascoltatore disse: “Vorrei venire al corso, anche se insegnasse cinese. Solo per sentirlo”.
Era un razionalista “sbarazzatosi dell'ipnosi dei pregiudizi ancestrali”, prudente, cauto, ben saldo nelle sue posizioni di combattimento. Non portava al cristianesimo alcun interesse sentimentale. In atto di prender possesso della sua cattedra, aveva definito il suo programma: “Dimostrare che la storia cristiana è una storia come le altre, che i fatti che la costituiscono sono dei fatti come gli altri, che sono conosciuti da testi accessibili come altri alla ricerca critica, respinta da tutte le confessioni, nell'assoluta serenità dell'indifferenza scientifica”. Ha messo in epigrafe di uno dei suoi libri l'espressione di Anatole France: “La scienza non si cura né di piacere né di dispiacere. È disumana”. Pensava di recare su Gesù il verdetto finale della scienza: Gesù è un uomo come gli altri, sul cui nome il cristianesimo era stato fondato da una serie di illusioni. Mise in stile Sorbonico e decotto accademico l'opinione degli antichi avversari del cristianesimo, Celso, Porfirio. Giuliano: Gesù è un agitatore galileo che è finito male e i cui seguaci hanno avuto la ridicola pretesa di farne un dio.
Mi ha confidato allegramente nel 1924: “Credo che il cristianesimo ortodosso abbia a malapena poco più di venti anni ancora di vita”. Ho scritto lo stesso anno, con la stessa temerarietà: “Credo che intorno al 1940 Gesù tutto intero sarà passato dal piano dei fatti materiali a quello delle rappresentazioni mentali collettive”. Come avevamo torto entrambi! Nulla è più lento nell'umanità dei mutamenti religiosi. Questi grandi ritmi dell'uomo sono alla scala dei secoli. Disilluso, nel 1933 Guignebert dichiarò: “Il cristianesimo che viene da questo passato così estraneo allo spirito moderno vive ancora. E numerosi dei nostri contemporanei non sentono ancora l'antinomia che si oppone, nella sua forma ortodossa, all'intero movimento della scienza”. [1]
Era chiuso alla bellezza delle storie, allo splendore delle immagini, alla grazia delle parabole, impermeabile alla poesia degli antichi testi cristiani. Chiunque si mostrasse sensibile a ciò era trattato da dilettante. Una delle sue frasi familiari era: Diffidiamo dal Maligno e dallo stile figurativo! Un'immagine nuova lo faceva sussultare, usava solo quelle più abituali. Un giudizio di valore, un argomento sentimentale lo mettevano di cattivo umore. Si fidava in tutto del senso comune. Era il suo forte, era il suo limite. Se fosse stato meno agile di spirito, a volte qualcuno avrebbe pensato a Homais esegeta. Uomo buono per il resto, spontaneo, degno di ispirare un autentico attaccamento ai suoi studenti e a più di una Filotea.
Estraneo alla fede, grazie a dio, sospettava questa facoltà industriosa, veramente diabolica, di tutti i misfatti. Truffe, inganni, finzioni, deformazioni, fabulazioni ed (era la sua parola preferita) espansioni. Contro di lei, era costantemente all'erta. La teneva d'occhio, l'irrequieta. Immaginava, annusava che nei vangeli quasi tutto provenisse da lei. Osservava le sue dimenticanze, le sue distrazioni. Secondo lui, i vangeli nascondono la vita di Gesù. La vita di Gesù è inventata, si tratta di riportarla alla luce. Pensava di trovare nel vangelo qualcosa per confutare il vangelo. “Grazie alle inavvertenze, agli errori, alle défaillance d'intelligenza o di logica dei nostri evangelisti, possiamo sperare di raggiungere, in alcuni punti, delle verosimiglianze, non di più”. [2] Beati errori! Senza di loro, la situazione sarebbe senza speranza. Guignebert non vedeva che l'errore non era sempre quello che pensava. Inquieto e severo, si adoperò duramente per “vagliare tutto questo materiale evangelico”. Sciocco cercatore d'oro che gettava le pepite d'oro fuori dal setaccio e mostrava la sabbia filtrata, dicendo: Ecco l'oro!
Per i testi evangelici, si erano formati oltre Reno dei metodi speciali di critica interna e di critica formale, che l'Ecole di Parigi sviluppò oltre misura. Un filologo classico abituato alla critica di Erodoto o di Plutarco, se fosse entrato con Loisy o con Guignebert, sarebbe stato sorpreso di vedere testi poveri che di per sé erano sospettati da loro stessi di tante interpolazioni, di trasposizioni, di arrangiamenti, di ritocchi, di cambiamenti editoriali. Non una pagina dove non siano sorprese più mani. Non un redattore che non sia convinto di un sorprendente sforzo di fabbricazione. Va detto che mentre la macchina dedita al taglio e alla raccolta dei pezzi di carta stava battendo così forte a Parigi, in Germania una nuova scuola stava cercando di rimettere in vita i testi. A lei interessava molto meno criticare la mano che li ha redatti piuttosto che trovare, se possibile, la forma in cui erano nati, nell'emozione intensa, nell'accoglienza fremente e nell'approvazione della comunità. Loisy e Guignebert non hanno potuto respirare questo vento freddo. Sono rimasti dei trituratori di testi, a tavolino. 

NOTE

[1] Conferenza pubblicata in Chaiers rationalistes, giugno 1933.

[2] Jésus (1933), pag. 52.

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