domenica 14 marzo 2021

APPENDICEIl Problema di “Marco”

 (Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro di J. M. Robertson, «Jesus and Judas, a textual and historical investigation». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

INDICE

Prefazione

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PARTE I

IL MITO DI GIUDA

I. Il Problema Letterario

II. Il Problema Critico

III. Il Mistero Messianico

IV. Il Mistero del Tradimento

V. La Fabbricazione Testuale

VI. Tesi Mitica e Ipotesi Biografica

PARTE II

IL MITO DI GESÙ

I. La Posizione Neo-Unitariana

II. Analisi Storica e Testuale

III. Il Mito dei Dodici

IV. Il Mito del Vangelo

PARTE III

IL MITO DELL'INSEGNAMENTO

I. Il Silenzio delle Epistole

II. L'Insegnamento Speciale nei Vangeli

PARTE IV

LA RESISTENZA ALLA TESI MITICA

I. Attività Recenti

II. Argomentazioni Recenti

III. L'Argomento A Priori

EPILOGO

APPENDICE. — Il Problema di “Marco” 

Letteratura Preparatoria 

APPENDICE

IL PROBLEMA DI “MARCO”

I

La tesi della priorità di «Marco» valutata e respinta nel secolo scorso da Baur e da Strauss, ha avuto la fortuna di essere accettata da molti razionalisti moderni sulla scia del consenso generale dei teologi tedeschi e inglesi, con poco interesse a soppesare le argomentazioni che la contrastano. Parlando in generale, il consenso rappresenta semplicemente il movimento cumulativo verso il punto di vista biografico in quanto opposto al punto di vista soprannaturalista. Il semplice fatto che Marco non possiede nessuna Storia della Nascita, nessuna Nascita Verginale, attrae naturalmente prima l'unitariano, e poi il razionalista, come indizio di una  stesura antica. [1] È sulla presunzione così impostata che procede con fiducia il processo analitico che spiega le coincidenze degli altri sinottici come copiature da Marco. Eppure la maggior parte di quelli che la sostengono sono concordi nel riconoscere che un vangelo precedente è alla base di tutti e tre i sinottici — un dato che smentisce un sacco delle particolari argomentazioni testuali a favore della priorità di Marco.

Per lo studioso razionalista, non lo si può affermare con maggiore chiarezza, la questione ha solo un'importanza secondaria. L'ordine di produzione dei vangeli, che per il teologo solleva problemi di vasta portata, è solo una questione di storia letteraria per la critica scientifica. La questione della credibilità di uno o tutti i ricordi evangelici deve essere risolta tramite verifiche che si applicano indipendentemente dall'ordine in cui sono ritenuti scritti i documenti. È prima l'unitariano, e poi il teologo «ortodosso» che sta ora adottando silenziosamente il punto di vista unitariano, ad avere «un tornaconto». Per loro, Marco rappresenta il rifugio principale per il credo nella semplice «storicità» di Gesù — il credo residuo che un uomo Gesù subì veramente un processo e una crocifissione, al di là se avesse operato o meno miracoli. 

Molto tempo fa questa facile costruzione ipotetica fu smentita nuovamente all'interno della scuola biografica dal pronunciamento definitivo di Loisy (riassumendo motivi già avanzati al tempo di Eusebio) che l'attuale vangelo secondo Marco non può essere stato scritto da un discepolo di Pietro; e dalla pesante conclusione di Schmiedel secondo cui Pietro non era mai stato a Roma — un'altra opinione antica, espressa in maniera davvero definitiva da Scaliger. È bene tenere conto anche del fatto che una vasta maggioranza dei critici hanno concordato sul fatto che il resoconto di «Marco» dato da Papia non si può applicare al vangelo come sta. Su quei punti, scrittori come il dottor Major [2] sono prudentemente silenziosi. Ma la tesi della priorità potrebbe pretendere ancora di reggersi al di là dalla questione della paternità, procedendo come fa su aspetti strutturali del testo rispetto a quelli di Matteo e di Luca. La natura dell'argomentazione può essere colta da tre casi, particolarmente sottolineati a favore della tesi della priorità contro l'opinione che Marco ha parzialmente combinato i testi di Matteo e di Luca.

1. Il dottor Abbott osserva che il greco di Marco 12:1-11 contiene tutte le parole, tranne quattro di nessuna importanza, che sono comuni ai passi paralleli, Matteo 21:33-44; Luca 20:9-18. Se Marco fosse stato un semplice compilatore, si sostiene, avrebbe dovuto «scrivere una narrativa vivida, brusca, e sotto ogni aspetto l'opposto di una narrativa artificiale», abbracciando ancora tutte le parole che avesse trovato comuni agli altri due. Questo, si sostiene, è un impossibile tipo di artificiosità.

2. Il dottor J. E. Carpenter tratta allo stesso modo i passi paralleli Marco 11:2-3; Matteo 21:2-3; Luca 19:30-31, stampando le frasi di Marco così da mostrare il materiale di Luca in corsivo, il materiale di Matteo in formato spaziato, e quello di Marco nel formato normale. Così ricaviamo: 

Andate nel villaggio che è di fronte a voi e appena entrati, troverete legato un puledro d'asino, sopra il quale non è montato ancora nessuno: scioglietelo e conducetelo qui da me. Se   qualcuno   vi   dice: Perché voi   fate   questo?   rispondete:  Il Signore ne ha bisogno,   e  lo   rimanderà   subito   qua.

Qui, sulla tesi della compilazione, afferma il dottor Carpenter, «il compilatore si è sforzato di combinare le due storie, prendendo una clausola da una, e due parole dall'altra, alternativamente. Può esserci qualcosa di più artificiale?»

3. Il signor Robinson Smith, un abile scrittore razionalista, esamina («Soluzione del Problema Sinottico»; Watts, 1920, pag. 10) una serie di ventidue passi in cui Marco combina frasi che si presentano singolarmente in Matteo e in Luca. Non sono tutte combinazioni strettamente analoghe, essendo alcune delle frasi importanti, altre semplici tautologie; ma due esempi indicheranno l'argomentazione: 

a. Poi, fattosi sera, quando il sole fu tramontato (Marco 1:32). Matteo (8:16) prende la prima clausola, Luca (4:10) la seconda.

b. «E lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone» (Marco 3:7-8). Matteo (4:25) ha: «Grandi folle lo seguirono dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano». Luca (6:17) ha: «E un gran numero di persone di tutta la Giudea, di Gerusalemme e della costa di Tiro e di Sidone»

La tesi del signor Smith è «che nessuno scrittore avrebbe riunito quelle......frasi da altri due scrittori, laddove era del tutto naturale che due scrittori dovessero aver preso l'uno una parte e l'altro l'altra parte dal loro originale, Marco». Io sono certo che, al contrario, la conclusione naturale è quella opposta. Per quali motivi probabili Matteo e Luca dovrebbero attingere rispettivamente da Marco certi nomi regionali, ciascuno lasciando l'altro in possesso di pochi altri? Che il giudaizzante Matteo dovesse ignorare Tiro e Sidone è comprensibile; ma quello sarebbe stato comunque il suo approccio al di là se avesse visto o meno Marco. In teoria, Luca potrebbe essere stato disposto a omettere la Galilea; ma lui per i suoi motivi gentilizzanti sarebbe stato pronto a nominare Tiro e Sidone. E perché avrebbe dovuto ignorare l'Idumea? La conclusione ragionevole è che Marco, che rafforza così spesso una descrizione, stava combinando qui gli altri e stava aggiungendo l'Idumea. 

E quando passiamo al primo esempio, «cosa poteva esserci di più artificiale», come direbbe il dottor Carpenter, del presunto accordo di Matteo e di Luca nel prendere ciascuno una clausola da 1:32: «Poi, fattosi sera, quando il sole fu tramontato» ? [3] La stessa procedura è attribuita a Marco 10:29: «Per amor mio e per amor del vangelo»; Matteo (19:29) avendo solo «per amore del mio nome» e Luca (18:29) «per amor del regno di Dio». La tesi che in un'intera serie di questi casi Matteo attinse una da un paio o da un insieme di frasi di Marco, e che Luca allora venne e prese scrupolosamente soltanto quel che restava, è a dir poco grottesca, quando ricordiamo in quanti innumerevoli casi Matteo e Luca coincidono nelle parole. Solo la necessità di una nuova argomentazione per dimostrare la priorità di Marco avrebbe potuto porre uno studioso riflessivo su una simile ipotesi. 

E l'argomentazione del dottor Abbott e del dottor Carpenter non è più profonda. Il dottor Abbott, nel caso della parabola della vigna, si basa sull'assunzione che la narrativa di Marco sia «sotto tutti gli aspetti l'opposto di una narrativa artificiale», quando questa è proprio la cosa da dimostrare! Qualsiasi lettore imparziale, raccogliendo i tre passi, dichiarerà che non solo Matteo e Luca sono almeno tanto «vividi» quanto Marco, ma la conclusione di Marco: «Ed essi cercavano di prenderlo: ed ebbero paura della folla; perché capirono che egli aveva detto quella parabola per loro; ed essi lo lasciarono e se ne andarono», è piatta e noiosa, ed è perfettamente concepibile come l'esplicito accorciamento di un compilatore; sebbene Marco non sia sempre un semplice compilatore. Cercare di eliminare questo materiale esplicito come «brusco» è vano ragionamento.

La tesi del dottor Carpenter è ugualmente mediocre. Se la storia di Marco è artificiale, considerata come una copia da Luca, con frasi da Matteo, allora la storia di Luca e la storia di Matteo sono egualmente artificiali, considerate come modifiche di Marco. A fronte del caso, la tesi più «naturale» sarebbe che la versione di Matteo è la prima, essendo di gran lunga la più semplice; che uno degli altri si preoccupò di elaborarla; e che l'espressione di Marco «Ed essi risposero come Gesù aveva detto» è più simile ad una modifica dell'espressione di Luca «Essi risposero: Il Signore ne ha bisogno» che viceversa. Cercare di rendere Marco non artificiale equivale solo a lanciare l'accusa verso Luca; e quando Marco è visibilmente più artificiale di Matteo, quella tattica non porta a niente. Per di più, il dottor Carpenter ha ridimensionato in anticipo la sua argomentazione prendendo la posizione che «o il Vangelo che fu prodotto prima è stato impiegato dagli autori degli altri due, oppure i tre Vangeli furono basati su qualche fonte greca comune. Quest'ultima tesi sembra meglio soddisfare le condizioni del caso» ('Primi Tre Vangeli', terza edizione, pag. 176-177). Da quel punto di vista, cosa ne è dei punti che abbiamo discusso?

L'argomentazione attenta e temperata del professor Burkitt nella sua 'Storia del Vangelo e sua Trasmissione' evita tali contraddizioni; ma anche quella manca di soddisfare la logica critica. L'affermazione (pag. 116) che «gran parte della formulazione di molti paragrafi interi [in Luca] sia stata semplicemente trasferita da Marco» è chiaramente inconcludente, in quanto Marco potrebbe proprio altrettanto bene aver copiato Luca. Questa contro-tesi che i Marciani non affrontano mai giustamente.


II

L'eccezionale lacuna critica, infatti, del grande mucchio di scrittori che sostengono la priorità di Marco, è che quasi invariabilmente ignorano le forti contro-argomentazioni. Potrebbe essere che alcuni dei loro avversari siano altrettanto remissivi; ma molti hanno valutato le tesi che contestano; laddove la semplice presentazione di motivi particolari per la priorità di Marco senza affrontare il caso contrario è una pura evasione di un problema critico. Così lontana si è spinta l'abitudine ad argomenti capziosi che gli scrittori che dichiarano di dare ai loro lettori un compendio dell'evidenza documentale si ritrovano comunemente a trascurare il fatto che Clemente di Alessandria dichiarò espressamente che la tradizione dei presbiteri più antichi era che il Vangelo di Marco sia stato scritto dopo «quelli che contenevano le genealogie» (Eusebio, «Ec. Hist.», 6:14). Il dottor Major, per esempio, non si fa scrupoli a pretendere di citare (opera citata, pag. 9) da Eusebio la stessa parte che contiene quella dichiarazione importante relativa a Clemente, mentre la tralascia senza segni di omissione, e cita solo quanto segue. Si potrebbe lasciar dire ai suoi lettori laici anglicani se lui li abbia trattati onestamente. 

È in una tesi condotta così che l'esponente ridicolizza l'intera questione critica affermando che «la dimostrazione di questa incorporazione di Marco in Matteo e in Luca è schiacciante, sebbene lo fosse stata molto tempo prima di essere riconosciuta e accettata dagli studiosi cristiani». Ciò che dovrebbe essere sostenuto, con una dichiarazione onesta della contro-argomentazione, è presentato come una verità ormai indiscussa. Il «molto tempo» è in sé fuorviante. Una grande adesione alla tesi della priorità di Marco aveva avuto luogo prima che Renan avesse scritto la sua 'Vie de Jesus', che propone la formula del «testimone oculare». E  l'adesione odierna degli studiosi della Chiesa d'Inghilterra ad una opinione da molto tempo comune sul Continente è semplicemente il risultato del loro riconoscimento che quella opinione è l'unica da cui ci si può aspettare la salvezza del credo nella storicità di Gesù. Una dimostrazione accurata è l'ultima cosa che tenteranno. Non è l'obiettivo, e non è il metodo.

Al dottor Major potrebbe far piacere che anche il signor Loisy presenta come una conclusione scontata la priorità di Marco, non dicendo una parola nell'Introduzione al suo 'L'Évangile selon Marc' (1912) della massa di considerazioni contrastanti, anche se è attento ad indicare che c'è stata molta redazione  del testo, e che si tratta principalmente di una composizione deliberata e pianificata, non di una semplice raccolta di tradizioni orali. L'approccio del signor Loisy al problema della priorità è determinato qui nello stesso modo di quello dei semplici difensori capziosi. Anche lui ha deciso in anticipo che dev'esserci un Gesù storico, e che stabilire la priorità di Marco deve aiutare a stabilire il caso principale. Tutto il suo accurato studio del testo è subordinato al presupposto ingiustificato, fatto in silenzioso disprezzo delle confutazioni.

Il signor Loisy è in verità al di sopra della puerilità di chi sostiene, come fanno tanti altri apologeti, che Marco sia all'apparenza il ricordo delle reminiscenze di un testimone oculare, relativamente alla sua frequente vivacità di descrizione. Il peggio di quella pretesa è che è avanzata da uomini che sanno che esattamente lo stesso tipo di pretesa è stata fatta a lungo per il quarto vangelo, e che hanno tuttavia abbandonato del tutto quella pretesa. In base agli esami falsi di vividezza, emotività, e realismo dei dettagli, avanzati come lo sono di solito senza un granello di circospezione critica, Giovanni si leverebbe più in alto dei quattro vangeli come ricordo storico. Sono state quelle qualità a indurre così a lungo Renan, come indussero Arnold, a crederci. Gli studiosi cristiani che alla lunga vi hanno rinunciato lo hanno fatto semplicemente perché avevano abbandonato il punto di vista soprannaturalista. Hanno poi proceduto ad applicare inconsapevolmente la vecchia argomentazione doppiamente screditata a Marco, perché desideravano stabilirlo come un documento relativamente storico. 

Chiunque affronterà correttamente il problema si renderà conto rapidamente che le qualità da presunto «testimone oculare» attribuite a Marco sono esibite principalmente riguardo ad episodi che non possono essere stati scritti da nessuno. Lo scrittore ci racconta (1:41) che «impietositosi» Gesù stende la sua mano al lebbroso, lo tocca, dice «Lo voglio; sii purificato; e subito la lebbra sparì da lui, e fu purificato». Presentare quella come Storia reale equivale ad insultare il senso comune. Nessuna tesi di guarigione per fede che possa essere accettata perfino a Lourdes reggerà una storia di scomparsa istantanea della lebbra. Parimenti col dettaglio di «dormire su un guanciale» (4:38); esso è associato ad una storia di quel che non accadde, e deve essere ritenuto un colpo deliberato di finzione. [4] Quando, allora, migliorando su Matteo e Luca, Marco (10: 16) fa sì che Gesù «prende in braccio» i bambini piccoli, come prima (9:36) aveva preso uno, e ancora (9:27) prende per mano e solleva il figlio posseduto, come tocca con la saliva il sordo e il muto e il cieco (7:33; 8:23), che solo in questo vangelo sono guariti — in questi casi l'unica conclusione critica è che quei tocchi «vividi» vengono introdotti sistematicamente, e non procedono da alcuna testimonianza di sorta.

Altrimenti, quale spiegazione può essere offerta della non-apparizione di tutti quei dettagli in Matteo e in Luca? Si sarebbero rifiutati di rappresentare Gesù mentre prende bambini piccoli tra le sue braccia se avessero avuto una tale narrativa davanti a loro, impartita ad un allievo di Pietro? Avrebbero omesso l'idea di Gesù che solleva colui che ha guarito? Si sarebbero rifiutati di ricordare le cure miracolose mediante saliva? Quelle e altre obiezioni, avanzate in passato da studiosi perfettamente imparziali sulla questione documentaria, perché dediti fedelmente e unicamente ad essa, non sono mai state affrontate: sono semplicemente superate da motivi del tipo di quelli che abbiamo già esaminato, il prodotto del desiderio di provare Marco il più antico vangelo, nella speranza in tal modo di stabilire un credo naturalista laddove un credo soprannaturalista in Gesù è crollato di fronte al comune senso scientifico. 


III

Se il lettore dalla mente aperta, ammettendo provvisoriamente che vi sia una certa forza nelle obiezioni alla rivendicazione di priorità per Marco, applicasse soltanto in via sperimentale l'ipotesi che Marco era stato scritto dopo gli altri sinottici, come da Clemente fu dichiarato il rapporto dei più vecchi Presbiteri, troverà che tutti i tipi di aspetti che sono inspiegabili sull'altra tesi rientreranno nuovamente «in linea». Inteso come un adattamento pianificato di materiale scritto precedente, Marco è ampiamente comprensibile come un documento deliberato.

1. Marco offre un vangelo liberato dalle contraddizioni senza speranza delle storie della nascita omettendole; e così presenta una dottrina «adozionista» di Cristo, nota per essere stata diffusa nel secondo secolo contro quella dell'incarnazione.

2. Esso media in larga misura tra le tendenze giudaizzanti e le tendenze gentilizzanti che divisero così a lungo le comunità cristiane, facendo concessioni in entrambe le direzioni. Mette da parte le rivendicazioni giudaiche a favore degli Apostoli, certamente non patrocina la causa di Pietro, modifica senza nemmeno abbandonare del tutto l'approccio principalmente ebraico del Maestro, come nella storia della guarigione della donna siro-fenicia (7:26-30), e propende sostanzialmente verso il lato paolino. È quindi un vangelo pianificato per guadagnare seguaci.

3. Si concentra in gran parte su storie di esecuzioni di miracoli; sulle testimonianze degli indemoniati, sempre ritenute in Oriente in possesso di un significato soprannaturale; e sul potere della fede nel salvare i credenti dagli spiriti maligni.

4. La sua natura «romana», spesso riconosciuta da parte di aderenti di entrambe le parti nella disputa sulla priorità, consiste specialmente in un'origine posteriore, e non ha bisogno di una tesi di paternità da parte dell'interprete tradizionale di Pietro per sostenerla. Quella tesi è ulteriormente esclusa dal crollo della leggenda del soggiorno di Pietro a Roma. E l'utilizzo frequente di forme di parole romanizzate, come distinte da altre, non si può spiegare come un semplice impiego originale di queste forme da parte di chi aveva vissuto a Roma e scrisse per i Romani. Quando, ad esempio, nella storia del paralitico a cui è ordinato di riprendere la sua lettiga e di camminare (Marco 2:4, 10, 12), Marco usa la parola krabatos, che si collega al latino grabatus, egli sta inserendo realmente un termine più adatto al posto di un termine meno adatto. Il termine klinē (== un letto o lettino) lo usa dove è richiesto (4:21; 7:4, 30); la forma krabatos (= una barella) la usa laddove quello è il termine particolarmente richiesto — qui sta volutamente migliorando Matteo e Luca, che rappresentano il paralitico guarito mentre gli viene detto di prendere e portare via ciò che si può pensare come un letto. È incredibile che Matteo e Luca avrebbero scritto qui volutamente letto se essi avessero avuto di fronte a loro la barella di Marco. [5

5. Ancora e ancora il processo di «accrescimento» è precisamente quello di un settario intento a rafforzare una concezione teologica, in contrapposizione a quella di un uomo che riferisce qualcosa riportatogli. In Marco 2, dopo un'apertura che mira in particolare ad intensificare un'immagine fisica, abbiamo gli scribi rappresentati mentre dibattono «nei loro cuori», dove Matteo e Luca li fanno «parlare»; e l'obiettivo è quello di esaltare Gesù poiché conosce da subito «nel suo spirito» ciò che stanno pensando gli scribi. È davvero imprudente parlare di uno scrittore che preserva la testimonianza di un «testimone oculare» quando, al fine di mostrare i poteri soprannaturali del Maestro, egli sta scartando così espressamente ciò che avrebbe potuto essere accreditato come una testimonianza di un testimone diretto.

6. Questo vangelo è palesemente posteriore nella misura in cui, come Luca (9:27), fa dire a Gesù (9:1): «Alcuni di coloro che sono qui......non gusteranno la morte, finché non abbiano visto il Regno di Dio venire con potenza», dove Matteo (16:28) ha: «finché non abbiano visto il Figlio dell'uomo venire nel suo regno». È inconcepibile che Matteo, vedendo la profezia in Marco nella forma prudente, tuttavia avrebbe dovuto preferire far profetizzare a Gesù che i contemporanei avrebbero visto ritornare lui in persona. Marco è chiaramente la forma successiva, in quanto sostituisce ad una profezia falsificata una che si sarebbe potuto dire realizzata nella diffusione della Chiesa. È caratteristico della logica del dottor Major il fatto che lui rivendichi la priorità per la profezia corretta perché essa è la più corretta!

7. Altrettanto indicativa di una posteriorità, come nota Strauss, è l'omissione di Marco (13:18) della seconda clausola di Matteo (24:20) «pregate che la vostra fuga non avvenga d'inverno né di sabato». Entro l'anno 150 il sabato aveva cessato di influenzare la vita dei cristiani dichiarati come tali, almeno al di fuori delle aree ebraiche; e per quel tempo i nove decimi dei cristiani esistenti erano in territori gentili.

8. La menzione scarna e trascurata della Tentazione (1:13), con la sua frase aggiunta «e stava tra le bestie selvatiche», è riconosciuta anche dai sostenitori della priorità di Marco comprensibile solo come una abbreviazione volontaria del racconto in Matteo, e tradisce un punto di vista teologico da cui l'episodio della Tentazione fu considerato con dubbio o avversione, forse in quanto più o meno incompatibile con l'opinione del potere di Satana tenuta dallo scrittore.

Tali sono le considerazioni generali che respingono in anticipo l'ipotesi che Marco sia il più antico dei quattro vangeli. La contro-argomentazione più forte non è qualcuna delle argomentazioni testuali che abbiamo considerato sopra, ma il fatto che Marco omette un tale corpo di dottrine come il Discorso della Montagna. Ma questa argomentazione è respinta dal fatto che quella lunga porzione è omessa a sua volta nel suo insieme in Luca, che fornisce solamente il «Discorso della Pianura» (6:20-38) e altre porzioni in punti differenti. Perché Luca accorciò e ruppe un mucchio di discorso etico che è normalmente apprezzato dai cristiani? Ci sono due possibili risposte. O la lunga porzione in Matteo non era in quel vangelo quando il vangelo di Luca fu composto, oppure i primi compilatori di Luca erano consapevoli del fatto che nel suo insieme non costituiva un materiale gesuano. In entrambi i casi, l'assenza della porzione in Marco non può dimostrare la sua priorità più di quanto la brevità del materiale simile in Luca dimostri quel vangelo antecedente a Matteo.

La prima tesi è probabilmente quella vera. La divergenza quasi invariabile nei termini rispetto al testo matteano negli innumerevoli passi in Giustino Martire, che si pretendono citati dal nostro primo vangelo, è una dimostrazione convincente del fatto che Giustino aveva davanti a sé un'altra collezione. E questa visione è confermata dalle sue divergenze sotto altri aspetti. «Marco», allora, semplicemente non trovò in «Matteo» il Discorso della Montagna come l'abbiamo noi. Anche l'ordine, evidentemente derivato da qualche altra fonte, in Giustino è abbastanza diverso.

In questo caso, infine, la vera e cruciale difficoltà è quella implicata da coloro che considerano Marco il più antico dei vangeli canonici, e che preserva le reminiscenze di Pietro. Da quel punto di vista, come dev'essere giustificata l'omissione del Sermone della Montagna? Sono disposti a dire che Pietro non aveva alcuna conoscenza sull'argomento tra i più lunghi e i più importanti dei discorsi attribuiti al Signore, oppure che, qualunque reminiscenze avesse, preferì trattenerle? In entrambi i casi, è chiaramente impossibile sostenere che l'assenza del Discorso da Marco impedisce di concluderne la posteriorità. È il fallimento totale degli apologeti marciani affrontare quei punti cruciali che alla fine ci autorizzano a liquidare il loro caso come un tentativo non scientifico di salvare il credo nella storicità di Gesù tramite una arbitraria rivendicazione documentaria.


IV

Finora, la nostra argomentazione contro la priorità di Marco è stata principalmente distruttiva e difensiva. Di recente è emersa, tuttavia, una tesi costruttiva che al presente scrittore sembra offrire una soluzione nuova e soddisfacente dell'intero problema. È esposta nell'opera di Hermann Raschke, Die Werkstatt des Markus-evangelisten — «Il Laboratorio dell'Evangelista Marciano» (Eugen Diederichs Verlag, Jena, 1924; in brossura, 7 marchi; rilegato, 8.50), uno dei numerosi grandi lavori tedeschi recenti su Marco di cui, di certo, non sentiamo nulla dal dottor Major. Trattare tutto il suo contenuto richiederebbe un volume; e a questo proposito deve essere sufficiente presentare brevemente la sua tesi più importante — vale a dire, che il Vangelo di Marcione fu reso il Vangelo di Marco.

A prima vista, questa è una tesi tanto difficile quanto quella così tanto discussa nei decenni centrali del diciannovesimo secolo e rianimata all'inizio del ventesimo dal signor P. C. Sense — che il nostro Luca sia sostanzialmente il vangelo di Marcione, ulteriormente redatto dopo il suo tempo, l'originale Luca essendo stato diverso. Tale opinione, a lungo mantenuta nella scuola di Tubinga, non ha mai guadagnato molto terreno, e fu presto abbandonata da alcuni che l'avevano tenuta. La sua difficoltà essenziale è che un vangelo di Luca, su una larga scala, era indiscutibilmente esistito, essendo citato senza posa da Tertulliano nella sua polemica contro Marcione.

Ma l'ipotesi di Raschke si regge in realtà su un terreno di gran luogo più solido, non essendoci nessun ostacolo principale sul suo percorso. Infatti non esiste nessuna evidenza positiva per mostrare che quel che passò per «Marco» al giorno di Tertulliano fosse davvero un vangelo nel senso moderno. Il vangelo esistente, così spesso rivendicato come il primo, è precisamente il più difficile da rintracciare prima dell'ultima parte del secondo secolo. Non c'è assolutamente niente per dimostrare che Tertulliano lo conoscesse. L'ipotesi del signor Raschke, allora, vale la pena da valutare. 

Lettori inglesi non familiari con la storia ecclesiastica di Marcione (propriamente Markion), e della vasta letteratura moderna riguardo lui e il suo Vangelo, troverà un'inchiesta completa in 'La Storia del Vangelo e la sua Trasmissione' del professor F. C. Burkitt (1906, Lez. 9); un altra in 'Difficoltà Cristiane del Secondo e Ventesimo Secolo' del canonico Foakes-Jackson (1903); Un buon riassunto in 'Religione Soprannaturale' del signor Cassels (R. P. A.; parte 2, capitolo 7), e una sintesi interessante di Harnack nell''Encyclopaedia Britannica'. Marcione può essere definito il più grande eresiarca cristiano del secondo secolo, e la sua setta una dei più grandi «gruppi dissenzienti» nella storia cristiana antica per diversi secoli, dopodiché sembra essere stata assorbita nel movimento manicheo e in altri movimenti. Figlio, secondo racconti posteriori, di un vescovo di Sinope in Ponto, Marcione venne a Roma tra il 139 e il 142 e fu un attivo propagandista per una ventina d'anni. Producendo trattati che gli valsero la copiosa vituperazione di importanti Padri nel secolo successivo, e preparando per i suoi seguaci un vangelo speciale, che divergeva da quelli allora accettati dalla Chiesa, edificò una sua setta numerosa e diffusa, e pare avesse sognato di convertire tutta la Chiesa al suo credo speciale.

La questione, Quale era la sostanza del vangelo di Marcione? è stata abilmente e immensamente dibattuta. Si può rispondere solo dopo aver setacciato la calunniosa letteratura diretta da Tertulliano, Ireneo ed Epifanio contro il testo, che discutono pure le sue presunte carenze e i trattati eretici di Marcione e che sopravvivono solo frammentariamente nelle loro citazioni. In breve, l'accusa contro di lui era che avesse mutilato il Vangelo di Luca per soddisfare i suoi scopi eretici. Credendo come fece in un Dio di Grazia che non era il Dio degli ebrei e identificando quest'ultimo con il Demiourgos, il Dio Creatore dell'Antico Testamento, un semplice Dio di Legge, non concepì Gesù come il Figlio generato ma come il Figlio adottato del primo, e alla fine trionfante sul secondo, che nello spirito della legge portò alla sua crocifissione. Il vangelo di Marcione, allora, sarebbe stato adattato a quei punti di vista, anche se non li esponeva.

Consideriamo ora le accuse prevalenti dei Padri a caccia di eresie contro il vangelo fabbricato da Marcione: 

1. Era breve;

2. Non aveva nessuna Storia della Nascita;

3. Mancava parecchio dell'insegnamento del Signore.

Tutte e tre le caratteristiche si applicano all'esistente vangelo di Marco. E ora sorge la questione, Se quel vangelo fosse stato corrente come canonico al giorno di Tertulliano e di Ireneo, come mai arrivarono a parlare della cancellazione da parte di Marcione delle Storie della Nascita senza notare che sono omesse in Marco; oppure come mai arrivarono a commentare la brevità del vangelo di Marcione quando Marco era lungo meno della metà di Luca; oppure come arrivarono a denunciare Marcione per aver omesso gran parte del documento lucano sull'insegnamento del Signore quando Marco fece lo stesso? Il signor Raschke sostiene che (pag. 34) Ireneo fosse così completamente sotto l'idea fissa di una mutilazione di Luca da non riuscire a vedere identità del vangelo di Marcione con il Marco canonico. Questa è una concezione difficile. Come materia di fatto, Ireneo (3, 9:8), presentando la sua tesi mistica secondo cui i vangeli dovevano essere quattro, non di più né di meno, cita Marco come un vangelo che esordisce alla maniera del nostro testo, e che si esprime «in maniera concisa e rapida». Quello è in effetti ciò che denuncia Marcione di fare. Così sorge con insistenza l'interrogativo, se il testo esistente di Ireneo, una traduzione latina fatta alla fine del terzo oppure all'inizio del quarto secolo, rappresenti quel che Ireneo scrisse nel secondo.  Se lo rappresenta, la soluzione di Raschke deve reggere, poiché l'incoerenza dell'approccio nel trattato esistente è grossolana. Che Marcione avesse davanti a sé una raccolta primitiva di storie di miracoli, attribuite a Marco, è abbastanza concepibile; ma il nostro Marco non è la cosa disordinata descritta da Papia; e a parte il passo ivi citato non c'è niente, a mio avviso, in Ireneo che mostri qualche familiarità con il nostro testo. Se avesse avuto una copia davanti a lui, come poteva approvarlo mentre denunciava Marcione?

Lo stesso interrogativo si pone riguardo all'intera polemica di Tertulliano contro Marcione. Quel Padre scrive ('Contro Marcione', 4:2): «Noi stabiliamo, innanzitutto, che il Testamento [instrumentum] evangelico ha come garanti gli apostoli, ai quali era stato imposto dal Signore stesso questo compito di divulgare il vangelo. Se di esso se ne resero garanti anche i discepoli degli apostoli, essi, tuttavia, non furono soli......Infine, a noi forniscono primi la fede, tra gli apostoli, Giovanni e Matteo, ed essa ci viene ripetuta da Marco e Luca, tra i successori degli apostoli: questi traggono origine dalle medesime regole di fede, per quanto riguarda il Dio Creatore e il suo Cristo, nato da una vergine, completamento della Legge e dei Profeti»

Il conflitto tra questa asserzione e i fatti relativi a Marco è così diretto che è difficile comprendere come sia stato ignorato. Innanzitutto, «Marco» come sta, è descritto piuttosto falsamente come se dichiarasse che Gesù nacque da una Vergine. 

Ma non meno grande è l'ulteriore difficoltà che mentre Tertulliano cita frequentemente da Matteo, meno frequentemente da Giovanni, e centinaia di volte da Luca, non cita mai una volta Marco in tutta la sua polemica.

In terzo luogo, quando Tertulliano cita da Luca il passo sulla domanda «Che devo fare per ereditare la vita eterna?» (18:18), non fa alcuna allusione di sorta al verso 19a, «Perché mi chiami buono?», sebbene discuta il resto del verso. Ora, noi sappiamo che fu descritto da Ippolito che Marcione sottolineava la domanda: «Perché mi chiami buono?», e da Epifanio che Marcione leggeva: «Non chiamarmi buono». Sorge la domanda, allora, se esisteva per Tertulliano il testo di Luca 18:19. Ma se noi interpretiamo Marco 10:18 anni, come fecero i Padri successivi, vi sorgono altre due questioni: (1) Se il testo originale di Marcione potesse essere stato modificato; e (2) se Ippolito ed Epifanio fossero a conoscenza di entrambi i testi di Luca e Marco quando censurarono Marcione. 

Quelle, comunque, sono difficoltà secondarie. Il mistero principale è che Tertulliano, dichiarando, come cita il suo testo, di avere un Marco, non lo cita mai una volta; e, descrivendo Marcione come eliminatore delle narrative preliminari di Luca, non cerca mai di spiegare la stessa procedura in Marco. O la sua allusione a Marco è un'interpolazione nel suo testo, e il passo in corsivo sopra costituisce un'altra, oppure il Marco in suo possesso era un documento completamente diverso dai nostri — presumibilmente un semplice racconto di opere meravigliose, come quello che Papia sembra suggerire, con nessun insegnamento di sorta. Se quest'ultima alternativa è considerata improbabile, l'altra difficilmente può essere definita così. La corruzione dei testi dei Padri è uno scandalo fin dai tempi di Erasmo.


V

Così insuperabile è questa difficoltà dal punto di vista tradizionale che siamo indotti da subito a domandarci se il vangelo di Marcione, presunto fabbricato da un deliberato accorciamento di Luca, non sia sostanzialmente il documento conservato come il Marco canonico. Chiaramente Marco, così com'è, assecondava ampiamente il punto di vista di Marcione. Se egli non adottò Marco come noi lo abbiamo, non deve essere stato semplicemente perché esso non c'era? Non siamo obbligati a concludere che Marco così com'è (con debito conto di probabili modifiche dopo che fu adottato dalla Chiesa in generale) fu realizzato da Marcione; in gran parte da Luca, ma anche da Matteo e da altre fonti? Epifanio definì il vangelo marcionita un Luca privo dell'inizio, del mezzo e della fine, «come un mantello divorato dalle tarme». Come commenta il signor Raschke, questa descrizione si adatta perfettamente a Marco.

Quando arriviamo alle accuse specifiche di mutilazione, la supposizione è confermata. Epifanio, per esempio, si lamenta che il vangelo di Marcione  mutilasse il testo su Giona, dicendo semplicemente che «nessun segno sarà dato», e manca la menzione di Ninive e della Regina di Saba e di Salomone. Ma tutto questo vale per il nostro vangelo di Marco! Come dice il signor Raschke, Epifanio stava commentando sul testo di Marco. Quando ancora altre accuse patristiche di mutilazione contro Marcione si trovano riflesse su Marco, e ulteriori accuse di aggiunta a Luca si trovano parimenti applicabili a Marco, la conclusione, vangelo di Marcione = Marco, diventa così pressante che solo una nuova serie di prove, che spieghino quelle strane coincidenze, possono respingerla.

Né basterà produrre da Marco testi che possano sembrare incompatibili con un'origine marcionita. L'accettazione definitiva di un vangelo marcionita da parte della Chiesa comporterebbe sicuramente qualche misura di adattamento. Il nostro Marco è stato apparentemente mutilato alla fine, e poi finito da un'altra mano. Inoltre, i Marcioniti sono descritti dal Padre mentre sono a loro volta intenti ad alterare il loro vangelo di giorno in giorno. D'altro canto, l'ampia diffusione del testo marcionita può spiegare benissimo l'accettazione da parte della Chiesa di un vangelo a cui mancavano le storie della nascita e molto altro. La sua brevità potrebbe essere stata trovata vantaggiosa dai Marcioniti; e le attrazioni che ovviamente servivano loro avrebbero servito la Chiesa nella stessa maniera. Che Marco sia stato guardato con diffidenza nella chiesa primitiva è ammesso dovunque.

Un'ipotesi generale si presenta. Ci viene detto riguardo a Marcione che verso la fine della sua vita cercò di essere ricevuto di nuovo nella Chiesa, e si dispose a invitare i suoi seguaci a ritornarvi con lui, ma gli fu impedito dalla morte. Il nostro Marco, allora, potrebbe essere il suo vangelo, con l'aggiunta preliminare dei primi venti versi, e altre modifiche. Secondo Tertulliano, il suo vangelo cominciava con un resoconto della venuta di Gesù a Cafarnao, e col suo venir salutato nella sinagoga come il Santo di Dio. Marcione potrebbe aver aggiunto il materiale precedente a titolo di accomodamento parziale; oppure uno della sua setta potrebbe averlo fatto. Una mano ortodossa difficilmente si sarebbe limitata con così poco. 

Da questo punto di vista, il vangelo di Marcione nella sua forma originale potrebbe benissimo aver continuato a circolare nella sua stessa setta, mantenendo quella forma per Tertulliano. Come il dottor Burkitt confessa candidamente, [6] «uno dei problemi irrisolti della letteratura del Nuovo Testamento è fornire le ragioni per cui Marco divenne parte del Canone della Chiesa». Esiste una soluzione migliore di quella suggerita sopra?

Infine, ci sono aspetti dottrinali speciali di Marco che un'origine marcionita spiega meglio. Gli anglicani che lo stanno ora proclamando come il vangelo di un testimone oculare pongono particolare enfasi sulla sua assoluta proibizione del divorzio. Ma quello è dichiarato un elemento che era stato nell'insegnamento di Marcione! Negando che Marco possa aver avuto Matteo di fronte a lui, il reverendo Arthur Wright ('Alcuni Problemi del N.T.', 1898, pag. 264) domanda: «Che sorta di cristiani avrebbero desiderato di ottenere la brevità in cambio della rimozione della storia della nascita di nostro Signore, del Discorso della Montagna,......con le parabole più lunghe e molto materiale discorsivo?» La risposta ora si intromette: «Cristiani eretici, come i Marcioniti sono stati a detta dei Padri che li denunciarono». Così con il passo, sottolineato da Schmiedel come biografico, in cui gli amici e i parenti di Gesù parlano di lui come «fuori di sé». Anche quello potrebbe provenire da eretici anti-giudaici.

Una delle notevoli differenze tra Marco e Matteo è che al primo mancano quei quattro testi matteani: 

11:25. «Gesù...disse, Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra»

— 26. «Sì, Padre, perché così ti è piaciuto».

— 27. «Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio, ecc.».

29:19. «Battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

I soli passi in Marco che nominano così il Padre sono:

13:32. «Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno li sa......neppure il Figlio, ma solo il Padre».

14:36. «Abbà, Padre, Ogni cosa ti è possibile».

Il dottor Burkitt, [7] al termine del suo capitolo sulla Originalità Letteraria del Vangelo di Marco, approva esplicitamente la dichiarazione di Wellhausen che «Marco era noto agli altri Sinottici nella stessa forma e con gli stessi contenuti che noi abbiamo ora». Eppure nella pagina precedente egli approva «l'ipotesi che il Discorso Escatologico in Marco 13 circolasse senz'altro un tempo nella sua forma presente, come un documento separato; e che probabilmente da da questo documento, e non dai vangeli, fu derivato il capitolo escatologico alla fine della Didaché». Ma se il Discorso Escatologico è riconosciuto essere così separabile, la conclusione naturale è che si tratta di un'aggiunta a Marco, proprio come la storia della Passione è un'aggiunta a tutti i vangeli. Allora Marco è lasciato senza alcuna menzione del «Padre» nella sua forma primaria; e questo è esattamente ciò che potremmo aspettarci nel vangelo di Marcione, a cui ripugnava la concezione di Gesù come il figlio di Jahvè.

Il dottor Major (pag. 15) attribuisce a Marco una Cristologia «primitiva». Ma era l'esplicita pretesa di Marcione che i principi del cristianesimo fossero stati corrotti, e che i veri cristiani dovevano ritornare alla pura dottrina paolina. Il dottor Major implica che Marco incarni l'antico «giudeo-cristianesimo», e sia pre-paolino nella dottrina. Ma ora è riconosciuto da molti studiosi che la Cristologia di Marco è paolina, come lo era quella di Marcione. Il dottor Major, che non fa mai sapere ai suoi lettori che ad opinione di M. Loisy, Marco non può essere l'opera di un seguace di Pietro, o che ad opinione di Schmiedel Pietro non è mai stato a Roma, sta semplicemente recitando la parte dell'avvocato capzioso. Ed è come risultato della perdita di visione critica comportata dall'argomento specioso che lui cita l'osservazione che un'accusa di speciale ottusità contro i discepoli «si trova soltanto in Marco». Quello non è un segno di «giudeo-cristianesimo» ma di Gentilismo. La tesi di Raschke non ha ancora affrontato il guanto di sfida della critica; ma essa è la plausibilità stessa in contrasto all'altra.


VI

Uno studio completamente scientifico del problema di Marco, è chiaro, ora deve comportare un approccio da un punto di vista deliberatamente imparziale. Deve dare il giusto peso ad ogni ipotesi, compresa quella di Raschke, riconoscendo che l'approccio a priori della maggior parte dei partigiani di Marco, da Wilke a Major, è insostenibile; che le loro argomentazioni sono soddisfacenti solo per coloro che iniziano con la loro presupposizione; e che solo ipotesi che tengano ragionevolmente conto di tutti i fenomeni possono passare per valide. Questo esame completo comporterà, per il vero studioso, il confronto con il metodo teorico del dottor Arthur Drews, sviluppato nel suo trattato su 'Das Markus-Evangelium' (1921), prima della pubblicazione di Raschke, e del suo 'Die Entstehung des Christentums' (1924). Uno studio ricercato potrebbe concludersi nella sfida dei più nuovi metodi interpretativi su molti punti; ma si tradurrà in una presa molto più stretta del problema di quanto non sia stata possibile sui principi apologetici attualmente resi popolari dai sacerdoti anglicani «progressisti». Questi pubblicisti — tra cui dovremmo distinguere il dottor Burkitt — differiscono dai loro colleghi ortodossi solo nel sostituire un sentimento quasi biografico ad un sentimento che si aggrappa all'intera tradizione soprannaturalista: non hanno subordinato in alcun modo il sentimento alla ricerca della verità scientifica.

E il loro lavoro in ultima istanza è vano, perché non fanno che conservare una figura di Gesù che non può essere portata in relazione costruttiva con l'origine del movimento cristiano. Il vangelo di Marco non rivela un primo vangelo di Gesù più di quanto lo rivelino gli altri. «Supponendo di aver concordato sul fatto che Marco fosse il primo dei quattro vangeli», ho chiesto una volta ad un seguace semi-semi-ortodosso di quella opinione, «cosa pensi che si guadagnerebbe verso l'instaurazione di una fiducia nella storia evangelica, come la chiami tu?» «Bene, che vi era stato un uomo reale chiamato Gesù Cristo, che i suoi discepoli non credevano nato da una vergine», è stata la risposta. «E che ha insegnato ai suoi discepoli — che cosa?» A quel punto

qualcosa sigillò 

Le labbra di quell'evangelista,

che all'improvviso sembrò intuire che un Maestro la cui azione principale consistette nello scacciare demoni e a dire «Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino», non può aver avuto che poco lavoro per dodici discepoli, che potevano operare sui demoni soltanto in sua assenza.

Infine tutte le improvvisate biografie di Gesù ci portano così al problema della sua presunta azione storica — il suo insegnamento immateriale per un nebuloso apostolato che non rivelò mai ciò che era stato il suo vangelo, e il cui presunto tentativo di fabbricare un vangelo di lui come un sacrificio fu integrato da un mucchio di insegnamento etico che non può essere considerato alla luce della critica proveniente da lui o da loro. Il problema storico dell'Origine del cristianesimo rimane il problema ultimo, e alla sua soluzione il Vangelo secondo Marco non contribuisce nulla, tranne che nel rivelare, all'analisi, la propria artificiosità. 

Il dottor Burkitt pronuncia la nota dichiarazione (pag. 79) che Marco è l'unico vangelo che «dà un resoconto comprensibile» del processo mediante il quale Gesù venne in conflitto decisivo con le autorità ebraiche. Se è così, la conclusione potrebbe anche essere che sia l'opera di uno scrittore che crea un certo ordine storico da un caos presentato dai suoi predecessori. Ma la tesi del dottor Burkitt sul principale intento di Gesù difficilmente risolverà le difficoltà del caso. Essa consiste nel fatto, a quanto ho capito, che ad una fase piuttosto precoce del ministero, Gesù si dedicò principalmente ad istruire i suoi discepoli. Il lettore si domandi, dopo aver riletto Marco, cosa ci sia da mostrare per l'ipotesi.


NOTE

[1] “Molti hanno considerato l'assenza di ogni schizzo dell'infanzia e della fanciullezza del Salvatore in Marco come una prova conclusiva della priorità del suo Vangelo” (Bleek, Introd. to N. T., traduzione inglese, 1869, i, 265).

[2] Si veda il suo Jesus by an Eye-Witness, 1925.

[3] Il dottor Major (pag. 37) afferma che “la doppia frase di Marco mette in evidenza quello che solo chi era presente avrebbe ricordato. La sera era la sera del Sabato”; e in quanto ebrei non potevano portare i loro malati finché il sabato non fosse finito. Questa argomentazione, come molte delle argomentazioni del dottor Major, è vecchia di oltre sessant'anni (Introd. di Bleek, traduzione inglese, 1869, i, 313); ma la vecchia apologia per cui Matteo e Luca potrebbero aver diviso involontariamente l'espressione più completa [di Marco] tra di loro” è più circospetta di quella del signor Smith. La risposta all'intera argomentazione del “testimone oculare” qui, comunque, è che il contesto non dice nulla di un giorno di sabato. Né questa ipotesi è necessaria; la conclusione è semplicemente che i malati dovevano essere portati solo al fresco della sera. E quando Marco combina «gli condussero tutti i malati e gli indemoniati», dove Matteo 8.16, ha «gli presentarono......molti indemoniati ed egli......guarì tutti i malati», e Luca 4:40, ha solo «sofferenti di varie malattie», l'ipotesi di una scelta “inversa” da parte di Matteo e Luca diventa fantastica. 

[4] C'è da notare, tuttavia, che lo scrittore può aver visto un quadro sull'argomento.

[5] Krabatos non è naturalmente una parola classica. Ma è ancora usata, con l'antica ortografia krabbatos, nella versione greca moderna del N. T., in Marco e Giovanni, mostrando che era ed è una parola corrente in Grecia. Ricorre anche due volte in Atti. 

[6] The Gospel History and its Transmission, edizione 1925, pag. 61.

[7] The Gospel History and its Transmission, 3° edizione, pag. 64, che cita Wellhausen, Einleitung in die drei ersten Evangelien, pag. 57.


LETTERATURA PREPARATORIA

I seguenti libri sono raccomandati a studiosi volenterosi come utilmente introduttivi a qualsiasi indagine di ricerca sui problemi trattati nelle pagine precedenti: 

PROFESSOR G. A. VAN DEN BERGH VAN EYSINGA. La littérature chrétienne primitive. Parigi, Rieder; 1920. (nella serie «Christianisme» del dottor Couchoud).

— Radical Views about the New Testament. Tradotto dall'olandese. R. P. A.; 1912.

L. GORDON RYLANDS, B.A., B.Sc. The Evolution of Christianity. (Un'introduzione completa alla tesi mitica, partendo dalla letteratura mistica ebraica tra gli Apocrifi dell'Antico Testamento e i vangeli). R. P. A.; 1926.

Dottor ARTHUR DREWS. Die Leugnung der Geschichtlichkeit Jesu in Vergangenheit und Gegenwart. (Un prospetto della letteratura che espone la tesi mitica) G. Braun, Karlsruhe in Baden; 1926.

THOMAS WHITTAKER. The Origins of Christianity, con una Sintesi dell'Analisi di Van Manen della Letteratura Paolina. R. P. A. Nuova edizione con Prologo; 1914.

W. A. CAMPBELL. Did the Jews Kill Jesus? E il Mito della Resurrezione. New York:  Peter Eckler Publishing Co.; 1927.

Dottor GEORG BRANDES. Jesus: A Myth. Tradotto dal danese da E. Björkman. Brentano’s Ltd.; 1927.

Dottor PAUL LOUIS COUCHOUD. The Enigma of Jesus. Traduzione di Mrs. Whale di Le Mystère de Jésus. Con un'introduzione di Sir James Frazer. R. P. A.; 1924.

EDOUARD DUJARDIN. Le Dieu Jésus. Parigi, Albert Messein; 1927.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Finalmente c'è qualcuno che comprende la falsità della priorità del Vangelo secondo San Marco.

Quindi non posso accettare i lavori di RG Price, Dykstra, Carrier, Vorkosigan, e tutti gli altri Farrer-Goulderisti.