mercoledì 9 marzo 2022

IL DIO GESÙI GIUDEO-CRISTIANI E LA TRADIZIONE ERESIOLOGICA

(Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro di Edouard Dujardin, «Le dieu Jésus. Essai sur les origines et la formation de la légende évangélique». Per leggere il testo precedente, segui questo link)


INDICE



PRIMA PARTE. — UN UOMO TRA GLI UOMINI


SECONDA PARTE. — UN DIO TRA GLI DÈI





TERZA PARTE. — L'ALBERO DELLA CROCE



QUARTA PARTE. — IL DRAMMA SACRO DELL'ANNO 27


APPENDICE — I GIUDEO-CRISTIANI E LA TRADIZIONE ERESIOLOGICA



APPENDICE


I GIUDEO-CRISTIANI E LA TRADIZIONE ERESIOLOGICA


Estratto da una comunicazione

presentata al Congresso di Storia del Cristianesimo

(Anniversario Alfred Loisy)

il 19 aprile 1927, al Collège de France


I giudeo-cristiani si separarono, nel secondo secolo, dai cristiani della grande Chiesa in quanto non ammettevano la preesistenza del Cristo, vale a dire perché professavano che Gesù era stato un uomo tra gli uomini che Dio aveva chiamato alla dignità messianica, e in quanto praticavano le osservanze mosaiche.

La tradizione eresiologica e la critica razionalista moderna sono d'accordo che, sul secondo punto, osservanza mosaica, il giudeo-cristianesimo risalga alle origini stesse ed è la forma primitiva del cristianesimo. Per ciò che concerne la cristologia, al contrario, la tradizione eresiologica rappresenta l'eresia giudeo-cristiana come una deformazione della dottrina cristiana primitiva e ne situa la nascita nel secondo secolo, mentre la critica razionalista vede nel giudeo-cristianesimo qualcosa come la forma primitiva del cristianesimo stesso.

Un lungo studio sarebbe necessario per trattare il problema con l'ampiezza che esso comporta; abbiamo qui solo la possibilità di abbozzarne sommariamente i contorni, e, lasciando un istante a lato la questione dell'osservanza mosaica sulla quale non c'è una contestazione fondamentale, esamineremo su quali testi si è basata la critica razionalista per contraddire la dottrina ecclesiastica e per fare della cristologia giudeo-cristiana l'espressione del cristianesimo primitivo. Faremo una rapida rassegna dei libri del Nuovo Testamento e degli scritti post-apostolici.

Nelle epistole di San Paolo non vi è nulla. Le epistole di San Paolo sono ricolme di controversie che solleva la questione dell'osservanza giudeo-cristiana; esse non parlano della cristologia giudeo-cristiana. I rari passi che si citano talvolta possono essere trattenuti solo al prezzo della più tendenziosa interpretazione.

Per esempio, 2 Corinzi 11:4: «Se vi si predica un altro Gesù, diverso da quello che noi vi abbiamo predicato... voi lo sopportate volentieri». Non vi è, né nel testo né nel contesto, l'ombra di un indizio che questo «altro Gesù» sia il Cristo non preesistente.

Galati 1:7: «Alcuni vogliono sovvertire il vangelo del Cristo». Stessa osservazione.

Stessa osservazione ancora quanto al passo di 1 Corinzi 1:11-12, sulle divisioni nella chiesa di Corinto.

Romani 1:4 può sembrare più significativo: Gesù vi è detto «nato dal seme di Davide secondo la carne, e stabilito Figlio di Dio secondo lo spirito...». Ma questo testo (ammesso che sia autentico) significa, in accordo con i famosi versi 6-8 di Filippesi 2, che Gesù si è manifestato secondo la carne sotto apparenze umane.

[Si veda sopra, pagina 240].

Si noterà, d'altronde, che se una questione così seria come quella della preesistenza avesse separato San Paolo e i Dodici, sarebbe ben straordinario se non avesse trovato altra eco nelle epistole se non qualche incerta allusione. Si vede l'importanza che vi assume la questione dell'osservanza mosaica; la cristologia non ne avrebbe avuto una minore. E quell'osservazione basta a confermare la nostra conclusione per quanto concerne le epistole paoline.

Nulla neppure che si rapporti ad una cristologia giudeo-cristiana nelle epistole non paoline, né nell'Apocalisse .

Nulla neppure nei vangeli. Gesù vi è presentato come un messia che a volte si vela e a volte si dichiara; ma allorché egli è un messia, è sempre un messia preesistente.

Si è asserito che in un'edizione precedente a quella che noi possediamo, detto altrimenti in un proto-vangelo o nelle fonti dei nostri vangeli, non fosse così. Ma, oltre al fatto che vi è qualche temerarietà nell'invocare la testimonianza di testi che non si possiedono, la questione sarebbe precisamente di sapere come Gesù sarebbe stato presentato in questi testi antichi e scomparsi, e tutte le ipotesi che il razionalismo ha avanzato a questo proposito, lungi dal provare la tesi, vi prendono il loro appoggio. 

Dal fatto, infine, che i vangeli parlano del padre, della madre, dei fratelli di Gesù, si è voluto concludere che le loro fonti non potevano considerarlo un essere di natura divina. Ecco un ragionamento, e un ragionamento peggio che specioso.

(Si veda sopra, pagine 67 e seguenti).

È innegabile che i vangeli dipingono i Dodici come se non avessero creduto sin dal primo giorno nella messianicità e nella preesistenza del loro maestro; ma mai li dipingono come se avessero creduto, in qualche momento, nella prima senza credere nella seconda. E questo è il punto importante. La verità è che i vangeli hanno voluto dipingere i discepoli di Gesù come se riconoscessero, non al primo colpo, ma a poco a poco, il suo carattere soprannaturale; il Gesù dei vangeli è lo stesso di Filippesi 2:6-8, con quell'indicazione complementare che la sua divinità è stata compresa dai suoi stessi uomini solo al prezzo di una lenta iniziazione.

Restano gli Atti. Scartiamo il testo relativo ad Apollo, 18:24-26, e quello relativo ai dodici discepoli di Giovanni, 19:1-7, dove non esiste il minimo accenno al fatto che questi uomini abbiano avuto credenze giudeo-cristiane, e notiamo che, così come nell'epistola ai Galati, la controversia esposta nel capitolo 15 verte interamente ed esclusivamente sulla questione delle osservanze.

Veniamo ai discorsi di San Pietro, Atti 2:22 e seguenti, e in particolare 36:

«Dio lo ha fatto Signore e Cristo».

Questo testo e quello degli altri discorsi di San Pietro attestano, riflettono una cristologia giudeo-cristiana? La Chiesa lo ha negato, e un fatto sembra darle ragione. Se questi testi implicassero un Cristo non preesistente, non sarebbero stati ricevuti nel Canone oppure sarebbero stati corretti; e quella considerazione permette di affermare che i Padri della seconda metà del secondo secolo li considerarono ortodossi, vale a dire conformi alla dottrina della preesistenza. Si dirà che, quella correzione, essi l'avessero precedentemente ricevuta, e che in uno stato più antico contenessero le affermazioni distintamente giudeo-cristiane che sarebbero state in seguito emendate o soppresse? Ma si può rispondere a priori che i discorsi di San Pietro negli Atti non suppongono alcuno stato anteriore, né alcuna fonte.

Non voglio e non posso riprendere qui la questione della composizione e delle fonti degli Atti. Mi accontenterò di ricordare che, ad avviso unanime dei critici, questi discorsi sono l'opera dell'ultimo editore. Infatti notiamo che non si tratta nemmeno qui dei racconti, eppure così sospetti, dei primi capitoli degli Atti, ma dei discorsi, per i quali il dubbio è impossibile, e che sono, con tutta certezza, i testimoni, non delle idee di San Pietro e dei Dodici, ma di quelle che l'editore era capace di attribuire loro.

Si è ipotizzato che costui abbia voluto esprimere le idee che sapeva essere state quelle dei primi apostoli. L'ipotesi è perfettamente ammissibile, ma a due condizioni: in primo luogo, che non si supponga all'editore delle preoccupazioni o anche solo delle possibilità di una critica storica; in secondo luogo, che si comprenda che ha voluto esprimere le idee, non che sapeva, ma che credeva fossero state quelle di San Pietro e dei Dodici. Ora, è inammissibile che egli abbia potuto supporre che nella loro predicazione essi abbiano negato la preesistenza. Il ruolo di San Pietro nella redazione finale degli Atti è quello di uno dei fondatori della Chiesa; non è quello di un eretico o anche solo di un semi-eretico.

Sapendo che San Pietro era ebreo di nascita, lo scrittore dovette immaginarselo sul modello dei vescovi della chiesa di Gerusalemme, i quali, a dire di Eusebio, Storia Ecclesiastica 4:5 (fonte non specificata), appartennero alla circoncisione fino all'epoca di Bar Kochba, primo quarto del secondo secolo, e che, in breve, rappresentarono ai suoi occhi il cristianesimo giudaizzante. Ma se i vescovi e i membri della chiesa di Gerusalemme erano restati, fino a quell'epoca, «ebrei fedeli», benché cristiani, Eusebio ce li raffigura come coloro «che accolsero con animo sincero la conoscenza del Cristo», e non come negatori della preesistenza. 

Il signor Loisy ha infine dimostrato che l'ultimo editore degli Atti, preoccupato prima di tutto di trovare nel cristianesimo il compimento delle Scritture ebraiche, ha voluto, nei discorsi che ha prestato a San Pietro, «tenersi il più vicino possibile alle dottrine ebraiche e alle formule dell'Antico Testamento»; ed è così che presenta Gesù come il «servo» piuttosto che come il «figlio» di Dio, e si sforza di mostrare che egli è stato il messia nel senso più rigorosamente giudaico del termine.

La nostra conclusione sarà che l'ultimo redattore degli Atti, componendo di sana pianta i discorsi di San Pietro, ha avuto l'intenzione di darvi un colore giudaizzante conforme allo spirito delle Scritture ebraiche, così come in accordo con ciò che sapeva delle pratiche mosaiche dei Dodici, e sul modello dei vescovi della chiesa di Gerusalemme del suo tempo, i quali conciliavano il loro giudaismo con una cristologia perfettamente ortodossa. 

Attraversiamo l'epoca dei Padri Apostolici senza trovarvi nulla che attesti ulteriormente l'esistenza di una cristologia giudeo-cristiana. La battaglia è contro i doceti; essa non è contro i negatori della preesistenza. 

Non faremo che segnalare i testi di Egesippo e di Giulio Africano citati da Eusebio, Storia Ecclesiastica 2, 3 e 4, relativi ai genitori di Gesù e ai cristiani delle chiese di Gerusalemme e di Transgiordania, e ci basterà notare che le credenze di questi ultimi vi sono presentate come perfettamente ortodosse, così come quelle dei cristiani di origine ebraica che conosceva l'ultimo redattore degli Atti. Dopodiché arriviamo all'epoca di Giustino, quando i negatori della preesistenza apparvero per la prima volta, verso l'anno 160, nel Dialogo con Trifone.

Il testo del capitolo 47 è relativo solo alle osservanze. Il primo testo relativo a una cristologia giudaizzante è quello del capitolo 48:4: 

«Vi sono alcuni della vostra razza», dice Giustino a Trifone, «che riconoscono che egli è il Cristo, ma dichiarano che è un uomo nato da uomini». Si veda egualmente il capitolo 49:1, e il capitolo 66:2, e seguenti.

Ma in questi testi Giustino non parla che dei suoi contemporanei e non fa alcuna allusione all'esistenza di una cristologia giudaica primitiva. Infatti, la tradizione eresiologica è nata con Giustino; si fisserà, subito dopo, con Ireneo, il quale, nel Contra Haereses 1:25 e 26, diede per primo agli Ebioniti il loro nome. Si ha il diritto di dire che essa risale al secondo secolo.

Quanto alla pratica delle osservanze ebraiche, è del tutto diverso. La disputa riempie le epistole paoline e tutto il Nuovo Testamento. Essa risale, in tutta evidenza, alle origini stesse del movimento cristiano.

Non penso che qualcuno voglia sostenere che l'osservanza mosaica sia legata ad una cristologia giudaizzante. La presunzione di un tale legame, a dire il vero, dimora nel subconscio di un certo numero di studiosi, ma non riposa su alcuna prova e non sopporta il minimo esame critico. Tutt'al contrario, abbiamo appena visto Eusebio ritrarre i membri della chiesa di Gerusalemme, fino all'epoca di Adriano, come fedeli ebrei che erano allo stesso tempo dei cristiani non meno fedeli.

In quella assenza di ogni giustificazione testuale, ci si domanda per quali motivi la scienza razionalista ha posto, come un quasi assioma, che il cristianesimo primitivo non abbia creduto nella preesistenza. In realtà, i critici si sono basati sui ragionamenti piuttosto che sui testi. Avendo respinto la dottrina cristiana del dio incarnato e volendo vedere in Gesù un uomo di cui i discepoli hanno fatto un dio, essi hanno ritenuto necessario che costoro avessero cominciato a considerarlo come un uomo chiamato da Dio alla dignità messianica, e hanno creato di sana pianta tra il Gesù-uomo e il Gesù-dio questo stadio intermedio: il Messia non preesistente.

Ora, non solo nella dottrina cattolica, non solo nell'ipotesi mitica, ma nella stessa ipotesi razionalista, questa fase intermedia non è in alcun modo necessaria e neppure utile; voglio dire che da qualsiasi punto di vista, qualunque opinione si professi sulla persona di Gesù, non è né necessario né utile postulare per l'epoca delle origini la cristologia giudeo-cristiana degli Ebioniti, [e questo è ciò che risulta dalle considerazioni presentate sopra, pagina 67 e seguenti].


In conclusione, chiedo:

Principalmente, che una dissociazione assoluta sia effettuata, nel giudeo-cristianesimo, tra la cristologia e l'osservanza, e, secondariamente, che la teoria attualmente prevalente sul carattere giudeo-cristiano della cristologia primitiva sia severamente rivista.

Per molto tempo si è creduto che il cristianesimo, nato nel giudaismo (e in un giudaismo ortodosso), vi fosse dimorato fino a San Paolo e che la sua ellenizzazione fosse cominciata solo con lui. Già il signor Loisy ha provato, ed è oggi ammesso, che ciò che si chiama paolinismo era anteriore a San Paolo, vale a dire che la cristologia paganeggiante non solo ha preceduto San Paolo, ma ha seguito da molto vicino la crocifissione, ed è appartenuta, in ogni caso, ai primissimi tempi del cristianesimo; e così si è sempre più minimizzata la fase giudaizzante che si continua a situare all'inizio del cristianesimo. D'altra parte, l'idea progredisce ogni giorno che il cristianesimo, lungi dall'essere nato nel giudaismo ortodosso, sia nato in una delle sette eterodosse e paganeggianti che brulicavano attorno a quest'ultimo.

Se fosse stabilito che in nessun momento i cristiani hanno considerato Gesù come un messia non preesistente, domando cosa resterebbe del giudeo-cristianesimo palestinese primitivo? resterebbe evidentemente l'osservanza mosaica; ma cosa resterebbe del punto di vista cristologico?

Detto altrimenti, se fosse stabilito che i primi cristiani non sono passati per la fase cristologica della non preesistenza, non si sarebbe indotti a  ritornare alla tradizione eresiologica di cui abbiamo trovato le prime espressioni in Giustino ed in Ireneo e che fa del giudeo-cristianesimo un cristianesimo corrotto, e, per ciò stesso, a ritornare, su questo punto particolare, alla dottrina dell'ortodossia cristiana, la quale ha sempre negato che vi fosse tra il cristianesimo palestinese primitivo ed il paolinismo una differenza fondamentale, — qualsiasi conseguenza potesse risultarne quanto al carattere giudaizzante o paganizzante del cristianesimo primitivo? 

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