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La Relazione tra Paolo e i Corinzi.
Come possiamo conciliare le rassicurazioni di 1:5-7 circa le ricchezze dei Corinzi in Cristo (ὅτι ἐν παντὶ ἐπλουτίσθητε ἐν αὐτῷ, ἐν παντὶ λόγῳ καὶ πάσῃ γνώσει,......ὥστε ὑμᾶς μὴ ὑστερεῖσθαι ἐν μηδενὶ χαρίσματι) con rimproveri come quello di 3:3, secondo cui essi sono carnali e camminano alla maniera dell'uomo (σαρκικοί ἐστε καὶ κατὰ ἄνθρωπον περιπατεῖτε)? In un passo essi sono neonati da nutrire col latte; in un altro l'Apostolo pone davanti a loro la sapienza che è pronunciata tra i perfetti. Questa alternanza, che percorre tutta l'Epistola, impedisce di farsi un'idea precisa della relazione tra Paolo come lo scrittore e i Corinzi come lettori. Sono sorti dei partiti; un solo partito si chiama col nome di Paolo; eppure egli sembra dare per scontato che tutti siano disposti ad ascoltarlo. Alcuni si “gonfiano d'orgoglio” e si innalzano al di sopra degli “Apostoli”, da cui essi hanno ricevuto tutto. Se questo è il loro stato d'animo, come può Paolo aspettarsi un buon risultato dall'esortazione tutt'altro che modesta di 4:16-17 (ùμιμηταί μου γίνεσθε......ἔπεμψα ὑμῖν Τιμόθεον......ὃς ὑμᾶς ἀναμνήσει τὰς ὁδούς μου τὰς ἐν Χριστῷ)? Alcuni pensano che lui non ritornerà. Ciò sembra strano dopo un'assenza di soli tre anni e mezzo. E in ogni caso, perché dovrebbero temere la minaccia del suo ritorno “con il bastone”, come viene detto quasi puerilmente nel versetto 21? Non c'è alcun accenno altrove nell'Epistola al fatto che la presenza fisica di Paolo fosse tale da suscitare questo terrore; e si confronti 2 Corinzi 10:10. Perché, ancora, insiste così tanto sul suo diritto di vivere a spese della comunità e di sposarsi se lo decide? Non sembra che nessuno abbia contestato il suo diritto; e lui non ha intenzione di esercitarlo. Si contrapponga, inoltre, il tono di autoesaltazione di alcuni passi, come 11:1, dove sembra considerarsi un mediatore tra Cristo e gli uomini comuni, con l'estrema modestia di altri, come 7:40 (δοκῶ δὲ κἀγὼ Πνεῦμα Θεοῦ ἔχειν), dove lui si limita a rivendicare la libertà di esprimere la propria opinione assieme agli altri. Non capiamo l'approccio della comunità nei suoi confronti più di quanto capiamo il suo nei confronti della comunità. Dopo così poco tempo, i suoi convertiti si sono divisi in partiti. Alcuni hanno perso la loro fede nella resurrezione dei morti (15:12). Anche coloro che si definiscono col nome di Paolo non sono da considerarsi discepoli fedeli, poiché essi sono severamente rimproverati proprio per il loro uso del suo nome (1:13-17, 3:4-9, 22-23).
Tutto ciò è spiegabile solo ipotizzando un ampio divario tra il tempo di Paolo e la composizione dell'Epistola. Ora capiamo come mai accade che il presunto scrittore non sia una figura concreta, ma un'immagine dell'Apostolo ideale, che elogia e biasima, che incoraggia e mette in riga, un'autorità riconosciuta la cui parola deve passare ovunque per legge (cfr. 7:17, οὕτως ἐν ταῖς ἐκκλησίαις πάσαις διατάσσομαι, con le espressioni simili in 11:34, 16:1). La glorificazione di Paolo non ci preoccupa più. La vediamo come abbiamo visto a lungo le dichiarazioni del Cristo giovanneo: “Io sono il pane della vita, la luce del mondo, il buon pastore”. La domanda sul perché Paolo, nel ricevere le notizie inquietanti circa i suoi figli spirituali a Corinto, non si fosse immediatamente precipitato lì, è altrettanto poco enigmatica quanto l'opinione di coloro che si vantarono che egli non sarebbe “venuto”. Al tempo in cui fu scritta l'Epistola non si poteva parlare di alcun ritorno. Paolo non era più tra i vivi.
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