martedì 25 giugno 2019

«La Leggenda di Gesù» (E. Moutier-Rousset) — La Predicazione di Paolo

Il Dio di Coincidenza 
Può qualcuno negare che 
Una cosa dopo l'altra 
In sequenza e logica 
Mai vista prima 
Non può essere che la 
Interferenza di un Dio 
Determinata a provare che 
Ognuno che pretende 
Di conoscere ora 
Una cospirazione è 
Demente?
(Kent Murphy)
Ogni setta, fino a quando gli torna utile usa la ragione; quando poi non gli serve più allora affermerà con forza: «È una questione di fede, al di là della ragione».
(John Locke, An Essay Concerning Human Understanding, The Baffes, Londra 1690)
Si tratta di un'innegabile ironia il fatto che, se gli si domanda di nominare il fondatore del cristianesimo, il cosiddetto “uomo della strada” probabilmente se ne uscirà menzionando uno che potrebbe non essere mai esistito, o almeno uno di cui è impossibile sapere qualcosa. O peggio: uno che non è mai esistito storicamente. 

Eppure “Gesù di Nazaret” continua a suscitare un certo fascino. Cosa ancor più ironica, è il  presunto 'Gesù della Storia' piuttosto che oramai il 'Cristo del Mito' (su cui si può effettivamente dire molto ma molto di più) ad ispirare questo interesse.

Quasi tutti i libri accademici sulle Origini cristiane sono stati scritti da appassionati teologi sotto mentite spoglie di storici. Nel caso migliore, ognuno rivela una diversa “verità” sul cosiddetto Originatore del cristianesimo. Tutti sono reciprocamente incompatibili ma di solito si basano in tutto o in parte sulla stessa evidenza testuale. Ogni autore crede fanaticamente che la sua versione sia la vera storia, puntualmente negata dagli stessi suoi colleghi “accademici” per reiterare, a loro volta, ciascuno la propria “verità”.

Ovviamente non tutti possono aver ragione. In realtà nessuna di queste versioni è quella giusta, perché nessuna di loro può esserla. Gesù, se esistette — e avrebbe potuto farlo — è irrimediabilmente perduto.

I libri degli storicisti, specie se folli apologeti cristiani o cripto-cristiani (come costui), vendono, senza dubbio. L'interesse per “l'uomo Gesù” è enorme. Eppure vendono non perché il 'laico interessato' ha necessariamente un interesse nel sostenere che Gesù esistette o meno. Loro vendono perché la gente ama credere alle affermazioni ingannevoli delle copertine di questi libri, con le loro folli rivendicazioni di presunte “verità storiche” rivelate. Da questo punto di vista, desta continua meraviglia constatare, con freddo disincanto, che un cripto-cristiano come Mauro Pesce manifesta, nei suoi libri, lo stesso tono apparentemente pacato ma in realtà fin troppo tediosamente dogmatico, di un Mauro Biglino: entrambi andrebbero cacciati (metaforicamente) a pedate da ogni vero consesso di studiosi sulle Origini cristiane. In entrambi i casi — posso dirlo? — “il re è nudo”.  

Prima di andare oltre, dovrei confessare di essere ciò che potrebbe essere definito un miticista gesuano anticattolico. Vale a dire che vorrei, per puro disprezzo anti-cattolico, che Gesù non fosse mai esistito, e devo ammettere che non ci sono prove, nessuna davvero ammissibile in un'ipotetica “corte marziale di Storia” degna di questo nome — della sua esistenza storica. Allo stesso tempo, però, ammetto anche che è impossibile dimostrare logicamente che Gesù non esistette, che non si può dimostrare logicamente che non ci fosse stato “fuoco” dietro al “fumo” del mito e della leggenda posteriori. 

Un puro agnosticismo sarebbe dunque l'unico atteggiamento possibile davvero scientifico da tenere nei riguardi della storicità dell'ebreo Gesù di Nazaret, se non fosse per il fatto che non siamo per nulla tenuti a limitarci strettamente alla pura logica. Nel mondo reale, infatti, ci si decide anche sulla base della probabilità, non soltanto sulla logica.

La falsa assunzione generale riguardo i vangeli è che l’elemento storico è alla base di tutto, e poi intorno a esso sono nate le leggende; ma in realtà è il mito a essere pre-esistente e a provare che il nucleo della faccenda è di derivazione mitica, e quindi che l'elemento cosiddetto “storico” è successivo, del tutto marginale e collaterale. È stata la vita dell’uomo Gesù a crescere intorno all’idea di divinità di Gesù, e non l'uomo Gesù a diventare divino agli occhi dei suoi seguaci. 

Il punto fondamentale della faccenda è che quando si rimuovono tutti quelli elementi di divinità e quei miti precedenti che hanno contribuito alla formazione di questo uomo-dio ebraico, che è quello che gli storicisti tentano di fare, non rimane niente di storico, alla fine.

Se soltanto avessimo tra le mani una sola prova risalente al primo secolo Era Comune — una sola, io dico! — dove Gesù è riferito inequivocabilmente come un semplice uomo di cui sarebbe ragionevolissimo immaginarne l'esistenza, ebbene, solo allora io sarò veramente convinto che Gesù di Nazaret esistette per davvero nel passato reale. Ma nessuna prova del genere è emersa, finora. Alla fine, eccolo riunito, il cosiddetto “Gesù uomo”, sempre e inestricabilmente, nel peggior modo possibile, con la sua inalienabile contro-essenza mitica, qualunque sia l'epistola o il vangelo di turno.  Dov'è soltanto l'uomo, e non il dio? Non più alcun uomo, alcun semplice uomo, ci sono soltanto espressioni di fede nell'esistenza di un “uomo celeste” con quel nome, con i suoi due inseparabili occupanti: l'uomo e il dio. Nient'altro che questo è esistito per Gesù, nè sarebbe potuto esistere o, a conti fatti, era mai esistito.
  
Il puro e semplice fatto è che non esistono assolutamente prove laiche e concrete che Gesù sia effettivamente esistito, né riguardo alla veridicità di uno qualunque degli eventi accaduti nella sua vita, così come descritti dai vangeli. Dobbiamo eliminarlo dai libri di Storia e, soprattutto, strapparlo dalle mani dei folli apologeti cristiani che si spacciano per “accademici” (quando sono la vergogna dell'intera comunità scientifica).

In effetti, quando si applica sul serio il Principio della Prova Negativa, sembra che il Gesù dei primi cristiani non sia nient’altro che un mito creato nel primo secolo.

Il Principio della Prova Negativa ovviamente non è infallibile o una prova in sé, ma piuttosto un’indicazione, una buona regola empirica, e quanto sia utile e affidabile naturalmente sono solo i logici a doverlo dire. Il Principio della Prova Negativa stabilisce che è ragionevole non credere a una cosa se queste tre condizioni vengono soddisfatte: 

1) tutte le prove a supporto del fatto in questione sono state definite inattendibili; 

2) non c’è nessuna prova a supporto del fatto in questione lì dove invece le prove dovrebbero esserci se il fatto è vero; 

3) è stata fatta un'approfondita ed esauriente ricerca di prove lì dove avrebbero dovuto esserci.

Riguardo il primo punto,
i libri pervenuti a noi degli autori del primo secolo dell'Era Comune sono abbastanza da formare un’intera biblioteca, tuttavia in tutti questi libri ebraici e pagani, a parte due passaggi contraffatti nelle opere di un autore ebraico e un passaggio controverso nell'opera di uno scrittore romano, non esiste alcun riferimento a Gesù Cristo.

L’unica prova laica, e in un certo senso affidabile, che abbiamo della vita di Gesù sta in due brevi brani presenti nelle opere di Flavio Giuseppe, storico ebraico del primo secolo: Flavio Giuseppe è stato uno scrittore molto prolifico, per esempio ha scritto spesso numerose pagine sul processo e l’esecuzione di ladri comuni, ma su Gesù non dice quasi nulla, eccetto che per questi due paragrafi di cui uno è sicuramente un’aggiunta postuma e l’altro è molto sospetto.

Altri riferimenti a Gesù contenuti in scritti laici, nella migliore delle ipotesi sono ambigui oppure sono delle aggiunte postume, o proprio tutte e due le cose. I primi riferimenti a Gesù nella letteratura ebraica risalgono al secondo secolo. Non esiste alcun riferimento a Gesù in nessuna delle storie romane scritte durante la sua presunta vita, ma il fatto che proprio nessuno ne abbia scritto è strano, considerato l’impatto che secondo i vangeli egli avrebbe avuto sugli eventi e la politica del regno ebraico.

Perciò per capire qualcosa dobbiamo ricorrere alla letteratura cristiana, ma l’esame degli scritti cristiani del primo secolo richiede molta cautela perché in quell’epoca non era considerato sbagliato scrivere qualcosa e poi attribuirla a qualcun altro. 

Gli scritti di Paolo riconosciuti come scritti effettivamente da lui stesso (lettera ai Galati, prima e seconda lettera ai Corinzi, lettera ai Romani, lettera ai Filippesi) sono i documenti cristiani più vecchi che abbiamo, essendo stati probabilmente scritti nella quinta decade del primo secolo.

Prendendo in esame le lettere, una per una, appare subito evidente che Paolo non conosceva alcun dettaglio di una vita di Gesù se non la sua morte e resurrezione, che né lui né i suoi lettori hanno visto Gesù faccia a faccia, che Gesù non ha mai fatto nessun miracolo né è morto perché è stato processato da Pilato. Solo nell'epistola ai Galati (1:19) Paolo fa riferimento a un Gesù suo contemporaneo, ma indirettamente, quando parla di Giacomo il “fratello del Signore”: proprio il termine “Signore” rende però questo riferimento in qualche modo controverso, perché, logicamente, quando Paolo usa altre volte la sola espressione “fratelli”, egli intende nient'altro che “fratelli del Signore” — e di chi, altrimenti? —, “poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine di suo Figlio, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli(Romani 8:29, enfasi mia). Perciò le lettere scritte da Paolo, almeno quelle autentiche, non sono una buona testimonianza dell’esistenza di Gesù nella prima metà del primo secolo.  

La cosa particolarmente interessante è che anche in altri antichi scritti cristiani non canonici precedenti ai vangeli ci sono le stesse omissioni, lo stesso silenzio, intorno al Gesù storico che troviamo in Paolo.

La seconda condizione del Principio della Prova Negativa afferma che non ci sono prove fondate lì dove invece dovrebbero esserci, e riguardo alla storia di Gesù anche questa condizione viene soddisfatta. 

Per cominciare, non esiste alcun documento romano dell’epoca che parli di Gesù, un fatto sorprendente considerando ciò che la Bibbia dice in relazione a tutti i disordini che ha creato: dovrebbero almeno esistere documenti che attestano l’arresto e il conseguente processo di Gesù, o altri scritti riguardanti il successo politico di Gesù di cui parlano i vangeli. Nelle storie romane non c’è alcun riferimento a tutto ciò, anche se di solito questi scritti sono piuttosto esaurienti.

Solo Flavio Giuseppe ha scritto dozzine di volumi, dedicando pagine intere a ladruncoli insignificanti e oscuri leader sovversivi. Quasi quaranta capitoli sono dedicati alla vita di un singolo re, e tuttavia questo uomo importantissimo, il migliore fra tutti, un essere del quale i profeti hanno predetto un’infinità di cose meravigliose, un essere più grande di qualsiasi altro re terreno, viene liquidato in non più di una dozzina di righe, peraltro rivelatesi squallidamente per quelle che in realtà sono: una totale interpolazione cristiana posteriore. Perciò non esiste alcuna testimonianza affidabile nell’opera di Flavio Giuseppe.

La cosa notevole delle lettere autentiche di Paolo è che, se le leggiamo separatamente dal resto del Nuovo Testamento, esse ci danno un’immagine interessante, ma completamente diversa dello stesso Paolo e del Gesù dei primi cristiani rispetto al Paolo e al Gesù che sarebbero poi stati accettati dalla maggior parte dei cristiani in seguito alla diffusione dei vangeli e degli Atti degli Apostoli.

Il messaggio di salvezza di Paolo era concentrato unicamente nel sacrificio redentore della morte seguito dalla resurrezione gloriosa del suo mistico Messia o Cristo, il fervido prodotto della sua personale “rivelazione” (leggi: allucinazione), attorno alla quale costruì e stabilì il nuovo “culto misterico” — l'ultimo esempio di una vasta classifica di circoli esoterici inebriati dall'atmosfera dei suoi tempi. Uno studio dei suoi scritti suggerisce fortemente che Paolo non aveva mai incontrato Gesù nella carne, e ignorò completamente i dettagli dell'esistenza terrena del suo eroe. Tutta la tendenza della sua esposizione indica una fissazione mentale sulla figura visionaria che lui identifica con il Messia a lungo atteso del sogno ebraico.

Il Gesù di Paolo e dei primi cristiani ha così poco a che fare con la figura di Gesù delineata dai vangeli che aggiunge solo mistero e oscurità intorno all'origine del vangelo più antico. Il Cristo di quelle lettere è una fusione del Messia ebreo, del Servo Sofferente di Isaia e del dio pagano che muore e risorge di un ancestrale passato. Paolo e i primi cristiani non avevano ancora bisogno di collocare il loro Gesù in un preciso contesto storico. Erano solo soddisfatti del loro dio che nasce, soffre, muore, per poi nuovamente rivivere e non erano interessati a sapere quando e dove si erano verificati i Misteri che celebravano: desideravano soltanto che fossero accaduti, nello stesso ambiente vago e atemporale dove per i rispettivi adepti si erano verificati i corrispondenti Misteri pagani, per essere celebrati dagli iniziati. 

I primi cristiani sognavano energicamente; con ogni grammo di volontà sognavano il loro angelo, Gesù. Per indurre il sogno assumevano anche una quantità smodata di oppio. Nel pieno della rivelazione, sognarono l'angelo Gesù, di come discese nei cieli inferiori fino alle porte degli inferi e si ritrovò in balia di demoni evocati da ogni parte di quella lugubre atmosfera in un attacco concentrico contro quell'intruso inaspettato nel loro territorio, attacco la cui forza dissolse la sua forma in innumerevoli frammenti, al punto da trasfondere nella informe materia luce e calore, animandola. E ciascun frammento dell'angelo gettato in ogni angolo della materia assorbì il calore e catturò la luce, rispecchiando la futura vita e le gioie di una futura razza di uomini, esseri che solo ora, rischiaravano finalmente il segreto sulle loro vere origini…

Ma la resurrezione del loro angelo era illusoria. Gesù non era risorto, né Gesù era mai vissuto. A dispetto dei loro sforzi, attraverso il sogno il loro Gesù non si materializzava mai nel mondo reale per mostrarsi agli occhi di tutti e inaugurare finalmente il suo regno millenario sulla terra. E ora per quella stessa ragione anche loro, senza fare una sola domanda, dovevano essere consumati dall'illusione, le cui nebbie sempre più fitte attendevano il loro abbraccio.

Ma perché, se Gesù è stato tanto influente e ha causato così tanto movimento intorno alla sua figura, come affermano i vangeli, non esistono testimonianze affidabili e contemporanee a lui, neppure da parte di un suo fanatico adoratore, quale fu storicamente l'uomo chiamato Paolo?

 La ragione più probabile di questa ignoranza di Paolo del suo stesso Cristo “nella carne” è che tutti i contorni umani dell'immagine di Gesù furono aggiunti al ritratto originariamente mitico di Gesù soltanto dopo la stesura di Paolo delle sue lettere, nella dubbia ambientazione dei vangeli. E questi, con tutte le loro contraddizioni e anomalie, non lasciano dubbi sulla natura fittizia e chimerica dell'eroe che ritraggono. Tutto il dramma evangelico, compreso ovviamente il protagonista centrale, fu fabbricato per soddisfare il rituale che si era sviluppato intorno alla nuova religione misterica. Non abbiamo bisogno di dire che fu deliberatamente inventato: si attinse un po' da qui e un po' da là, da storie del folclore e della letteratura sacra, da barlumi di antichi miti e di leggende eroiche... nel solito modo in cui una storia cresce e passa di bocca in bocca attraverso le generazioni, finché alla fine la santa favola non appare solida come un “fatto”. Troppo tardi per essere tutto tranne che sentito dire.

Avevano sentito qualcosa sul conto di Gesù che fu chiamato il Cristo? Così pareva, ma non era niente. Non lo era. Perchè, dopo tanti anni, gli stessi cristiani avevano scoperto con orrore che pure l'originario entusiasmo mistico-allucinatorio si era estinto di morte propria e aveva lasciato il reale Gesù, oltre che solo, totalmente impercettibile dietro il suo fitto muro di carta altrimenti chiamato “vangelo”.

Sembra quasi, infatti, che l'anonimo autore del Più Antico Vangelo si sia tenuto per sè molto di ciò che è successo e abbia lasciato ai lettori il compito di capire che cosa si è realmente verificato. Poichè certe verità sono semplicemente troppo pericolose per poterle raccontare ai non-iniziati senza ambiguità, per non dire senza veri e propri sotterfugi. Riuscì comunque a fare del Gesù di carta il complemento perfetto all'indole del suo creatore.

Per giunta, i vangeli lasciano ai lettori l'impressione che il loro eroe, se non del tutto mitico, presenta comunque tali e tanti problemi insormontabili ad una ragionevole interpretazione umana, che potrebbe proprio essere un ritratto collettivo frammentario piuttosto che un autentico ritratto di un uomo esistito. E infatti, quando si arriva ad esaminare, senza preconcetti, il guazzabuglio degli aneddoti e dei detti che costituiscono l'unica testimonianza di Gesù in nostro possesso, si ha come la sensazione di avere a che fare con una sorta di reminiscenze, raccolte in momenti diversi in luoghi e situazioni disconnessi tra loro, e in alcun modo coerenti con la natura o la condotta di una precisa personalità umana.

La terza condizione del Principio della Prova Negativa afferma la necessità di compiere una ricerca approfondita di prove lì dove dovrebbero esserci prove. In effetti migliaia di studiosi, bigotti, crociati, apologeti e scettici hanno cercato tali prove fin dai primi giorni dell’era cristiana, e il fatto che nessuno di questi abbia trovato nemmeno una prova affidabile lì dove ce ne sarebbero dovute essere soddisfa pienamente la terza condizione.  Una sfida giusta, no? Devo ammettere che ho provato a vincere questa sfida io stesso, ma non ci sono riuscito. Fortunatamente per i miticisti, toccherebbe ai partigiani della storicità accingersi a trovare queste prove “lì dove dovrebbero esserci prove”. Sono loro stessi a non averle trovate.  

Perciò, in base al Principio della Prova Negativa, abbiamo sufficienti motivi per dubitare della storicità di Gesù, e l’assenza di prove ci suggerisce che non c’è nessuna buona ragione per credere alla sua esistenza.



E. MOUTIER-ROUSSET


La Leggenda di Gesù


(San Paolo)


Saggio di critica storica


Tradotto da: Giuseppe Ferri

CAPITOLO I — PAOLO

§ 1. — LA PREDICAZIONE DI PAOLO

Non abbiamo altre fonti di informazioni sulla silenziosa e feconda opera di propaganda dei primi scrittori del Vangelo e sulla mentalità delle masse che li ascoltarono, se non le Lettere di San Paolo, i Vangeli, gli Atti degli Apostoli e le Epistole apocrife di Pietro, Giovanni e Giacomo ammesse nel Canone della Chiesa, poiché non vediamo molto di ciò che potremmo ricavare dall'Apocalisse. Queste informazioni si estendono al primo periodo del cristianesimo, che parte dall'anno 30 circa e va fino all'anno 150.


L'attenta lettura di queste opere ci prova che di tutti questi scrittori, Paolo è colui che deve meritare di più la nostra fiducia, innanzitutto perché è il più antico tra loro, l'unico contemporaneo di Gesù e l'unico che avrebbe potuto conoscerlo, [1] il fondatore della maggior parte delle principali chiese della nuova setta e uno dei primi missionari che portarono le dottrine del neo-giudaismo al di fuori dalla Siria e nel mondo ellenico.

Non è che l'esistenza dell'Apostolo delle Genti non sia affatto stata contestata e che sia dimostrata da dei testi numerosi e irrefutabili: proprio al contrario, gli scrittori profani ebrei, greci o latini del suo tempo non dicono una parola su di lui e il loro silenzio a suo riguardo non è meno grande del loro silenzio in ciò che concerne il Cristo; gli stessi Evangelisti che gli sono di così poco posteriori e che avrebbero dovuto conoscerlo, non fanno mai una sola volta allusione al violento rivale di San Pietro, e gli Atti degli Apostoli, l'unica opera che, più tardi, lo menziona, sono altamente discutibili e inadatti a cancellare il dubbio. Nondimeno, i viaggi di Paolo  che sono raccontati in questo libro sono abbastanza verosimili e, se gli Atti non forniscono affatto date più precise dei redattori della Buona Novella, vi si riscontrano almeno dei sincronismi e delle indicazioni di luoghi generalmente accettabili e concordanti che provano che l'autore è lontano dall'ignoranza di Marco e dei suoi emuli. Inoltre, malgrado le assurdità e le impossibilità che contengono e che non sono affatto rare, contengono comunque molte più parti accettabili rispetto ai Vangeli dove non si riuscirebbe a trovare una sola riga che non sollevi obiezioni e dubbi molto seri. Non abbiamo dunque alcuna seria ragione per non essere d'accordo con le affermazioni che si potrebbero definire storiche di questo libro. Il silenzio degli scrittori contemporanei può, inoltre, spiegarsi più facilmente a riguardo di Paolo rispetto a quello di Gesù, se si ammette, cosa che è più che probabile, che, al di fuori della cerchia oscura dei giudaizzanti, egli è rimasto totalmente ignorato nel mondo ebraico e greco-romano e che le autorità imperiali hanno avuto poco o nulla a che fare con lui. In aggiunta, mentre non esiste alcuna opera attribuita a Cristo, abbiamo da Paolo un certo numero di Lettere, di cui quattro, almeno, sono considerate autentiche dalla quasi unanimità dei critici e degli esegeti [2] e che ci mostrano un'individualità irrequieta, combattiva e appassionata, in definitiva viva, e dedita a intrattenere al suo seguito le masse ai margini dell'Impero alle quali si rivolge, al contrario dei Vangeli che ci raffigurano nel Messia soltanto un essere convenzionale, un eroe leggendario dai tratti evanescenti, che non agisce mai per suo conto, ma solamente per dimostrare di adempiere alle vecchie profezie della Bibbia, più o meno falsificate, aprendo la bocca solo per ripetere dei testi dell'Antico Testamento e delle parabole, un fantasma in definitiva, che non possiede in realtà alcuna esistenza oggettiva ben distinta.

Eccezione unica nel Nuovo Testamento, Paolo ha un mestiere [3] e lavora con le sue mani (Atti 18:3 — 1 Corinzi 4:12). Non è dunque un essere etereo come Gesù e i suoi apostoli, che vivono di non si sa come, che non provano mai il caldo, il freddo, la fame, [4] la sete, la fatica; i bisogni di nutrimento, di vestiti non lo lasciano affatto indifferente; quelli di danaro, soprattutto, lo preoccupano vivamente; ci dice a volte dove alloggia: in breve, non è affatto un personaggio da sogno come il Cristo. [5]

Un altro motivo di importanza che ci impegna ad accordargli molta più fiducia rispetto agli Evangelisti e all'Autore degli Atti, è che Paolo, va detto a sua lode, non racconta mai un singolo miracolo, quelli di Gesù meno di ogni altro: questo solo lo colloca ben al di sopra del suo entourage e del suo tempo. Senza dubbio, crede alla loro possibilità in quanto uomo del suo secolo, ed è molto lontano dal negare il soprannaturale; al contrario, ammette senza esitazione che alcune persone hanno il dono di curare le malattie (tramite degli esorcismi), che altri hanno il dono di miracoli e di profezie (1 Corinzi 12:9-10); la resurrezione dei morti non ha nulla che possa stupire la sua immaginazione. Gli sarebbe stato impossibile, del resto, contestare i miracoli davanti al suo pubblico qualora (supposizione inammissibile) ne avesse dubitato, perché avrebbe perso, per questo scetticismo mal riposto, ogni influenza sul suo ambiente. Ma, ciò che lo distingue e lo colloca alquanto a parte dagli altri scrittori sacri e persino profani, è il fatto che non cita mai un prodigio, né come testimone oculare, né come sciocco credulone; [6] interamente dedito alla sua opera di apostolato e di organizzazione delle Chiese che fonda, egli fa appello unicamente al ragionamento (ma a quale ragionamento!), senza mai appoggiare la sua dimostrazione su delle prove tratte dal rovesciamento delle leggi fisiche; anche lui disprezza abbastanza questo ricorso al meraviglioso: “Se un angelo dal cielo  (Galati 1:8) vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema!” “Dio”, assicura ancora (1 Corinzi 12:8, 9, 10, 28) “ha posto nella chiesa in primo luogo degli Apostoli, in secondo luogo dei Profeti, in terzo luogo dei Dottori, poi coloro che fanno i miracoli e coloro che hanno il dono di guarire le malattie”.

Tutto questo è molto notevole per questo tempo e vi è, nel fondatore del cristianesimo, il marchio di uno spirito solido, chiaro e preciso. Quanto va oltre la creduloneria infantile degli Evangelisti per i quali i resoconti dei miracoli, perfino i più assurdi, servono da argomento unico!

Quando Paolo parla di prodigi, lo fa in una maniera alquanto generale e indeterminata: “I segni dell'apostolo sono stati compiuti tra di voi, in una pazienza a tutta prova, nei miracoli, nei prodigi e nelle opere potenti” (2 Corinzi 12:12); ma non specifica alcuno di questi miracoli o di questi prodigi. Quando (1 Corinzi 11:23-25), ci dice che è dal Signore stesso che ha appreso il significato della Cena, quando (1 Corinzi 15:8) afferma che il Cristo [7] gli è apparso, questo è un sogno di cui conserva in buona fede l'illusione oppure si tratta di un'abilità da uomo politico che gli permette così di ingrandire il suo ruolo e di alzarlo al livello di quello dei primi Apostoli, per mezzo di un'invenzione alla portata dell'intelligenza dei suoi ascoltatori, “mi sono fatto tutto a tutti”. [8] Non si sa, ma si può propendere per la prima ipotesi, senza perciò dover respingere interamente la seconda: ci può essere nelle Epistole un misto di sincerità e di abilità, tanto più che, se egli si conforma facilmente ai pregiudizi dei suoi discepoli, Paolo, lo riconosce lui per primo (2 Corinzi 12:1-7 — 1 Corinzi 15:8), è soggetto a delle allucinazioni che egli non distingue affatto, è vero, dalla realtà, ed egli espia questo privilegio “mediante una spina nella carne”, vale da dire per dei disturbi profondi e ripetuti della sua salute (2 Corinzi 12:7).

Da nessuna parte, e questo è ben strano, parla dell'apparizione sulla Via per Damasco, che gli Atti raccontano fino a tre volte (11:3-8 — 26:6-11 — 26:12-19). [9] Benchè non sia incredibile per niente al mondo, dati i suoi ripetuti disturbi patologici, il fatto che egli sia potuto essere il giocattolo di una simile percezione malata, così come di quelle di cui si vanta, il fatto che lui passa sotto silenzio la più notevole tra loro, quella che, secondo gli Atti, ha avuto tanta influenza sul corso della sua esistenza, quella che ha deciso della sua vocazione e di tutte le sue azioni successive, è forse questo che vi è di più straordinario nelle Epistole. Questa singolare omissione è molto disturbante per chiunque voglia, ad ogni costo, ammettere il racconto degli Atti degli Apostoli.

Ciò che è altrettanto impressionante è che, da nessuna parte, Paolo non fa nemmeno allusione ad uno solo dei miracoli attribuiti al Cristo, miracoli che i Vangeli metteranno presto in circolazione. Lui che, eppure, non si rifiuta affatto di credere che alcune persone hanno il dono di guarire le malattie, non menziona mai nessuna delle innumerevoli cure operate dal Redentore. Ciononostante, queste leggende dovrebbero inevitabilmente aver già preso piede all'interno delle comunità nazarene e Paolo, che non vuole affatto conoscere Gesù, in quanto uomo, tuttavia non ha alcun motivo di respingere i segni della sua missione in quanto Messia. Dobbiamo concludere che queste meraviglie siano un'invenzione successiva all'apostolato dell'autore delle Epistole? Ciò avrebbe grandi conseguenze e, nondimeno, vi sono molte ragioni per pensarlo.

È ancora più inconcepibile che Paolo non faccia mai menzione della resurrezione di Lazzaro, il povero, che riporta il suo compagno Luca. [10] Se realmente, l'autore del terzo Vangelo, come crede la Chiesa, è rimasto così tanti anni senza lasciare Paolo, è inammissibile che egli non lo abbia mai messo a parte di questa storia così straordinaria, che avrebbe fornito un argomento così potente per la tesi fondamentale della resurrezione dei morti, essenza di tutta la propaganda dell'Apostolo dei Gentili, e l'unica ragion d'essere del cristianesimo che predica: “Se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”. Egli non appoggia mai, è vero, la sua opinione su questo argomento con una citazione delle parole di Gesù, il cui intero insegnamento gli sembra sconosciuto; ma ciò che rende ancora più singolare questa omissione di questa prova del suo tema preferito, è che egli si rivolge a dei discepoli  molti dei quali non sono affatto convinti della certezza della resurrezione: 1 Corinzi 15:12 — “...Come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti? 
13 — Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato!
14 — Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede.
15  — Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha resuscitato Cristo, mentre non lo ha resuscitato, se è vero che i morti non risorgono.
16 — Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto;
17 — ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati”. [11]


Se Paolo insiste molto sul mistero della Resurrezione, sembra molto più mal documentato degli Evangelisti sulla sorte dei beati o dei dannati. Non è a lui che dobbiamo rivolgerci per soddisfare il nostro legittimo desiderio di essere istruiti sulle gioie dell'empireo e sulle torture dei reprobi.


Al pari degli Evangelisti, l'Apostolo dei Gentili parla solo una volta del Paradiso (2 Corinzi 12:4) che, per lui, è la stessa cosa del terzo cielo, ma è molto parco di insegnamenti su questo Regno dei Cieli. 

Tutto ciò che possiamo vedere di certo in lui, è che la felicità degli eletti è tutta spirituale; godranno della gloria di Dio e della vita eterna (Romani 2:7 - 5:21 - 6:22):
“Le sofferenze della vita presente non sono paragonabili alla gloria [12] futura che dovrà essere rivelata in noi” (Romani 8:18).
Aggiunge anche (1 Corinzi 15:35): “Ma qualcuno dirà: «Come resuscitano i morti? E con quale corpo ritornano?».
42. — Il corpo è seminato corruttibile e risuscita incorruttibile.
43. — È seminato ignobile e risuscita glorioso.
44. — È seminato corpo naturale e risuscita corpo spirituale...

52. — In un momento, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba. Perché la tromba squillerà, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo trasformati”.  [13]


Si vede che questa beatitudine celeste non ha nulla, in Paolo, del materialismo grossolano dei Vangeli Sinottici che, nell'altro mondo, raffigurano delle tavole dove si può mangiare del pane e bere del vino (Marco 14:25 — Matteo 8:11 — 26:29 — Luca 22:18, 30, 14:15).  [14]

Quanto alla sorte dei reprobi, Paolo, eppure così duro, così poco propenso alla pietà, non sogna affatto per loro torture intollerabili, così abbondantemente e così compiacentemente descritte dai Sinottici. [15] Aveva sicuramente l'intelligenza troppo elevata per credere ai tormenti fisici dei dannati. Essi saranno solamente privati della vita eterna, vale a dire annientati (Romani 2:8 — 6:23). Questa è la teoria dell'immortalità condizionale, accettata da alcuni teologi protestanti e insegnata da Origene.

Quanta importanza e forza questa limpidezza (relativa) dell'intelligenza di Paolo avrebbe dato alla sua testimonianza se, dopo aver raccontato l'apparizione di Damasco, ci avesse detto che, a seguito della sua conversione, si è recato immediatamente a trovare Pietro e i primi apostoli che hanno visto e conosciuto il Salvatore; che egli ha domandato loro delle circostanze più salienti della vita di Gesù; che si è informato sulle sue dottrine e sui suoi miracoli; che le parole del Principe degli Apostoli hanno rimosso i suoi ultimi dubbi; che è stato in accordo con lui ad aver cominciato l'evangelizzazione dei Gentili, per obbedire alle ultime istruzioni del Cristo risorto: “Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura” (Marco 16:15 — Matteo 28:19). [16] Ma, puntualmente, Paolo afferma tutto il contrario; secondo le sue stesse Lettere, non gli è affatto importato di andare a rendere visita al luogotenente del Redentore, [17] ed è malgrado la sua opposizione che ha portato la Buona Novella ai non ebrei; è da queste stesse Lettere che sappiamo che non ha affatto voluto conoscere “il Cristo secondo la carne” (2 Corinzi 5:16), vale a dire la realtà umana di Gesù: sembra aver tremato all'idea di cominciare un'inchiesta in cui era sicuro di incontrare solo il vuoto e il crollo delle leggende sulle quali si fondano il suo apostolato e la sua autorità sull'armata cristiana; ha paura di dover indietreggiare davanti alle luci che faranno svanire i suoi sogni. Qual è, in effetti, in tutte le epoche, il demagogo che non accetta affatto gli occhi chiusi, i pregiudizi dei suoi elettori? Paolo non ci indica nulla nelle sue Epistole, che ci assicuri che questo Cefa col quale disputa così strenuamente, sia lo stesso individuo Simon Pietro [18] che, per un momento, ha rinnegato il Salvatore; lo rappresenta solo come uno dei principali personaggi (un pilastro, una colonna) della piccola Chiesa di Gerusalemme, e non come l'uomo, sacro, in questa veste, che, durante un anno, è stato il compagno costante, l'intimo amico di Gesù; e la Chiesa, lei stessa, nega l'identità dei due Pietro, a causa dello scandalo della polemica con Paolo. Nella disputa di quest'ultimo con il Principe degli Apostoli (Galati 2), nè l'uno nè l'altro dei due capi nazareni, al fine di risolvere il grave problema della circoncisione dei Gentili, dalla quale dipende tutto l'avvenire del cristianesimo, cita una parola del Risorto pro o contro questa infrazione dell'ordine ufficiale di Dio (Genesi 17:12, 14) e delle prescrizioni ufficiali della Legge: l'opinione di Cristo appare ad ambedue di peso trascurabile. Questo disprezzo dell'autorità del Maestro è fortemente inspiegabile nei due Apostoli principali, se si ammette la realtà del Redentore; ciascuno di loro si ostina nella sua tesi e vuole agire secondo il suo capriccio, come se non riconoscessero, né l'uno né l'altro alcun potere al di sopra di loro. Questi due primi successori del Messia non parlano nemmeno di lui in questo colloquio memorabile in cui discutono i mezzi di propaganda del cristianesimo: Gesù non esiste affatto per loro; conoscono solo il Messia biblico dei Salmi e di Isaia. Se Pietro finisce per cedere, è perché l'Apostolo dei Gentili sembra comprargli la sua sottomissione.

Giammai Paolo fa la più piccola allusione alla Passione; giammai rimprovera a Pilato o a Caifa la morte del Profeta di Betlemme; ignora perfino i nomi di quei carnefici del Salvatore; giammai ricorda gli insegnamenti di Cristo né cita una sola delle sue parole. Questo è inimmaginabile!

Paolo, abbiamo visto, è un allucinatore; numerosi passi delle sue Epistole non permettono affatto di dubitarne (1 Corinzi 11:23-25 — 15:8 — 2 Corinzi 12:1-9, 12). [19] Ma le sue visioni si riferiscono fatalmente tutte al soggetto che è la sua preoccupazione in ogni istante; l'allucinazione, infatti, non è affatto “una percezione senza oggetto”, come si ha generalmente l'abitudine di definirla; va aggiunta questa correzione importante: “senza oggetto immediato”, questi disturbi dell'intelligenza si riferiscono sempre a delle sensazioni anteriori più o meno deformate: un nato cieco, ad esempio, non può avere allucinazioni visive, non più di quanto un sordomuto possa avere allucinazioni uditive. “Ogni allucinazione”, dice l'eminente medico alienista Baillarger (Physiologie des hallucinations), “richiede, nello stesso tempo della soppressione delle impressioni esterne, l'esercizio involontario della memoria e dell'immaginazione”.


Così, immerso nell'atmosfera di sovreccitazione in cui si erano propagate le leggende e le dottrine cristiane, attorniato da ignoranti infervoriti che prendevano violentemente parte pro o contro i nazareni, Paolo, data la sua sensibilità malata, dovette ritrovarsi subito tra i più esaltati e avere delle estasi frequenti. Questo è il motivo per cui, quale che sia la poca fiducia che possiamo attribuire di solito agli Atti, il racconto della cristofania sulla Via di Damasco non avrebbe nulla di inaccettabile e non avremmo neppure alcun motivo di dubitarne, se Paolo non l'avesse passato stranamente sotto silenzio. Ricolmo di storie soprannaturali per la sua educazione, vivendo in un ambiente dove i racconti meravigliosi erano l'alimento di tutte le conversazioni, di tutti i discorsi, e dove nessuno dubitava dei miracoli più assurdi, non avendo altro nutrimento intellettuale che interminabili discussioni teologiche, trascorrendo tutti i suoi giorni in compagnia di altri esaltati e di altri allucinatori, egli dovette spesso, in queste riunioni di dementi (1 Corinzi 14:23), perdere ogni contatto con la realtà, sentir vacillare il suo equilibrio mentale e delirare tanto quanto i suoi vicini. Degli spiriti più solidi del suo e più equilibrati non avrebbero senza dubbio resistito al contagio.

La storia dei Convulsionari del 18° secolo dovrebbe aiutarci a capire la stranezza di queste assemblee dove la follia era epidemica, dove tutti, uomini e donne (1 Corinzi 14:27, 29, 30, 31) si mettevano sovente a peronare allo stesso tempo, a proferire parole senza seguito, parole senza alcun senso, o a profetizzare. Paolo, la cui testa a volte doveva voltarsi in questa cerchia di alienati, tenta ancora di mettere un po' d'ordine in questo caos e un po' di pace in questa confusione, di portare un po' di tranquillità in questo sabba di streghe in delirio (1 Corinzi. Si veda tutto il capitolo 14, da 1 a 40). [20]

Tuttavia, poiché la sua propaganda ebbe qualche successo, il predicatore del neo-giudaismo era ben obbligato, qualunque cosa ne ricevesse in cambio, a cedere a questi fanatici, ad abbassarsi al livello di questo pubblico di deviati, a tollerare quel che non poteva impedire e a condividere queste malattie del cervello, in modo che, spesso, le sue epistole ritraggono molto verosimilmente le elucubrazioni di questa strana cerchia, così come le sue idee personali. Ogni agitatore, infatti, non ha  che un unico mezzo per farsi seguire dalle folle, ha da chiudere gli occhi sui loro eccessi, ha da assecondare i pregiudizi e le passioni di coloro che pretende di condurre e che, in realtà, lo conducono dove loro vogliono: “Io sono il loro capo, dunque li seguo”. [21] Abbiamo già visto che Paolo teme di mostrarsi troppo severo contro i vizi e le turpitudini dell'ambiente che lo circonda; che non osa tuonare contro l'idolatria, [22] e, da avversario dichiarato della circoncisione che attacca violentemente (Galati 5:2; 11, 12), cede tuttavia spesso il passo su questo punto, tollera questa cerimonia e la raccomanda perfino (Romani 2:25, 4:9-10, 1 Corinzi 7:18). [23] Questa compiacenza dei conduttori delle moltitudini si riscontra a tutte le epoche: le maree popolari, a cui nessuno ha ancora potuto dire: “Non andrete oltre”, travolgono nelle loro onde tutto ciò che tenta di resistere, e quelli stessi che si illudono di dirigerle non fanno che seguire il flusso delle acque. La personalità dell'Apostolo, così possente e così originale come ci appare alla lettura delle Epistole Cardinali, non è che il riflesso delle passioni mistico-sociali che ribollivano ai margini dell'Impero romano ed è soprattutto da questo punto di vista ad essere interessante.

NOTE


[1] “I passi (Atti 22:3 — 26:4) portano a credere che Paolo si trovava a Gerusalemme, nello stesso periodo di Gesù. Ma non c'è ragione perché essi si siano visti” (Renan, les Apôtres, pag. 173).


Ci sembra, al contrario, che sia una ragione perentoria. È impossibile ammettere che Gesù  recandosi ogni giorno al Tempio e causandovi uno scandalo inaudito, non abbia attirato l'attenzione appassionata di un fanatico come Paolo.


Il signor Guignebert dice d'altra parte che “la predicazione di Paolo non ha senso se Gesù non è mai esistito. È necessario per scartare la sua testimonianza  ammettere... che sia lui stesso un personaggio immaginario” (Si veda § 3, la discussione di questa affermazione).



È piacevole vedere i personaggi del seguito dell'Apostolo mostrarsi meno creduloni e non lasciarsi fermare da questa obiezione: Dema, tra gli altri, collaboratore di Paolo (Epistola a Filemone, 24 — Epistola ai Colossesi 4:14) lo abbandona “per amore del mondo” e si reca a Tessalonica (Seconda Epistola a Timoteo 4:10) e san Epifanio (320-400) assicura che questo Dema avrebbe rinnegato la fede cristiana, vale a dire, che cessò di credere in Cristo, o piuttosto a ciò che Paolo aveva potuto raccontargli.  

Allo stesso modo, tutti i cristiani d'Asia, tra cui Figele ed Ermogene, si separarono da Paolo (Seconda Epistola a Timoteo 1:15).

È vero che l'Epistola ai Colossesi è più che dubbia e che non vi sia alcun esegeta che supporti l'autenticità di quelle a Timoteo. Lo stesso Renan la respinge interamente.

[2] “Una scuola di critica nata in Olanda, intorno al 1888, nega, in blocco, l'autenticità di questi documenti (le 14 Epistole di Paolo). La sua argomentazione principale è che le comunità alle quali Paolo avrebbe dovuto rivolgersi, testimoniano una complessità, un'intensità di vita religiosa che sarebbe inammissibile in quel tempo. Ma cosa sappiamo della storia primitiva di queste comunità? Tutto ciò che si può concedere dapprincipio, in quanto probabile, è che le Epistole di Paolo non ci sono affatto pervenute nella loro redazione originale”  (Salomon Reinach, “Orpheus”, pag. 346).



Non si può trarre alcuna conclusione a favore o contro la teoria olandese, per la nostra ignoranza di certi fatti, e questa obiezione del signor Reinach non mi pare affatto priva di alcun valore decisivo; ma il fatto che la critica non può essere esercitata nei confronti di documenti che non conosciamo affatto, ci costringe ad attenerci al testo delle Epistole, senza contrapporle a pezzi che probabilmente non sono mai esistiti.

Baur, capo della scuola di critica biblica di Tubinga (Württemberg), ammette solo l'autenticità delle Epistole Cardinali. Havet (le Christianisme et ses origines, IV, pag. 368) è dello stesso avviso. In tutto il corso di quest'opera, abbiamo seguito la loro opinione, che ci sembra delle meglio fondate.

[3] Obbedisce così agli ordini di Jahvè (Genesi 3:19). Gesù, al contrario (Matteo 6:25-31), raccomanda di non lavorare: “Così fu riscattata la maledizione originale. Il Creatore aveva detto: “Ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte”. Il Salvatore dice: “Ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte degli altri”. È un emendamento apprezzabile”. (La Fouchardière, A la recherche d'un Dieu).


[4] Il passo (Matteo 12:1): “Un giorno di sabato, i suoi discepoli ebbero fame..., la cui parte sottolineata è stata soppressa dagli altri evangelisti, è visibilmente là per portare alla parabola contro l'osservanza troppo stretta del sabato. Allo stesso modo, la parola: “Gesù ebbe fame” (Marco 11:12 — Matteo 21:18), nell'aneddoto del fico sterile (che Luca racconta in una maniera del tutto differente  e più sensata (13:6-9), non è che un'occasione per dimostrare la potenza della fede, e realizzato il miracolo, il Messia non si sogna più di mangiare.


[5] Si veda la nostra opera: Il Cristo è esistito?


[6] Quando (2 Corinzi 12:1-6) Paolo narra il racconto di un uomo rapito al terzo cielo, lascia piuttosto intuire a coloro che lo ascoltano che si tratta di lui stesso, ma si guarda bene dal precisare; personalmente, non sembra molto sicuro sulla sua storia. Inoltre, le “apparizioni di Cristo a Paolo” e il suo “rapimento” non sono dei miracoli: sono delle percezioni reali causati da dei turbamenti negli organi dei sensi oppure da dei sogni, ma non indicano affatto una debolezza dell'intelligenza. Questi sono dei fatti classificati dalla medicina moderna e non delle credenze senza fondamento.

[7] È il Messia che è apparso a Paolo, ma questo non è affatto il Gesù dei Vangeli; è il Messia crocifisso della Bibbia (Salmo 22:2, 17-19); vi è un abisso tra i due: non è certo possibile credere che l'ebreo Paolo avesse adorato e quasi collocato allo stesso rango dell'Eterno, un altro ebreo che avrebbe conosciuto da vivo; è un'idea che non poteva germinare nell'anima di un adoratore di Jahvè.

[8] 1 Corinzi 9:19 — “Poiché, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero;
20 — con i Giudei, mi sono fatto giudeo, per guadagnare i Giudei;
21 — con quelli che sono sotto la Legge, mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, per guadagnare quelli che sono sotto la Legge;
21 — con quelli che sono senza Legge, mi sono fatto come se fossi senza Legge..., per guadagnare quelli che sono senza Legge.
22 — Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni”.


[9] Il racconto della Conversione (di Paolo) sembra egualmente fittizio nelle sue tre versioni; ... la missione affidata a San Paolo dal Sommo Sacerdote (9:12) è semplicemente inconcepibile” (A. Loisy, Les Livre du Nouveau Testament, pag. 485).

[10] Né è più possibile ammettere che Paolo, se avesse avuto conoscenza di questa leggenda del quarto Vangelo, avrebbe omesso il miracolo più meraviglioso di Gesù, la resurrezione dell'altro Lazzaro (Giovanni 11:1-44), il cui cadavere è già in decomposizione, e che non l'avrebbe affatto esposto nel punto più bello delle sue Epistole. Luca, che parla di Marta e di Maria, sorelle di Lazzaro (secondo Giovanni), non conosce minimamente questa favola; Marco e Matteo ancora meno, poiché non nominano nessuno dei personaggi; Giovanni l'avrebbe dunque inventata, oppure incontrata in certi miti a lui anteriori, ma posteriori a san Paolo.

È anche degno di nota il fatto che Paolo non cita mai un Luca qualunque che sarebbe stato il compagno abituale dei suoi viaggi e, quanto al Luca dell'Epistola, d'altronde molto dubbia, ai Colossesi (4:14), niente può autorizzarci minimamente a supporre che vi sia la minima connessione tra lui e l'autore del terzo Vangelo o degli Atti.


[11] Si noti con quale insistenza Paolo, dopo aver elencato le prove testimoniali della resurrezione di Cristo, dopo aver affermato con forza che il Signore risorto era apparso a lui stesso (1 Corinzi 15:5-8) e avendo realizzato che tutto questo ha scosso solo moderatamente lo scetticismo dei suoi uditori, ritorna su questo soggetto e porta trionfalmente una dimostrazione metafisica che gli sembra inconfutabile: Dal momento che tutti i morti resuscitano, allora anche Cristo è risorto, come tutti.

Tra i pretesi testimoni della resurrezione, Paolo non indica le Sante Donne nel suo elenco, non più di Maria Maddalena, la prima persona alla quale apparve il Salvatore: questa leggenda probabilmente non esisteva ancora al suo tempo e accade, fatto che rafforza questa ipotesi, che Marco (lasciamo da parte il finale apocrifo) e Luca non parlano neppure di questa apparizione che è menzionata solo da Matteo (28:9) e Giovanni (22:14). Nessuno degli evangelisti sa che Gesù è apparso a Paolo e a Giacomo (1 Corinzi 15:7 e 8).


Questa idea della resurrezione dei morti può essere venuta a Paolo, sia perché (Atti 23:6) è un fariseo e figlio di farisei e costoro credevano alla resurrezione dei morti, sia per la sua frequentazione a Tarso, degli adoratori di Mitra, che, a loro volta, avevano adottato questo dogma.


Di tutte le religioni orientali che, dal primo secolo prima dell'Era Comune, si propagarono così rapidamente nell'Impero Romano, una delle più diffuse, forse la più diffusa, fu quella di Mitra, venuta dalla Persia e che fece per molto tempo una  concorrenza formidabile agli adoratori del Messia. Si ritrovano ancora ora migliaia di iscrizioni e di bassorilievi relativi al suo culto, non soltanto in Cilicia, in Siria e in Egitto, ma anche in tutto il mondo romano, dalle foci del Danubio alla foce del Reno e fino al limite del Sahara. Come il cristianesimo, questo credo, dal principio, sembra aver reclutato i suoi neofiti tra gli schiavi e nelle classi più basse; ma finì col contare l'Imperatore Commodo (180-192) tra i suoi adepti e, con lui, ovviamente, i più alti funzionari dell'Impero. “Aureliano (275) ne fece il Dio di tutto l'impero e gli edificò a Roma, un tempio magnifico” (Seignobos,  Antiquité romaine et prémoyen âge, pag. 281). Fu, fino a Costantino (313) religione ufficiale e, perfino dopo questo principe, conservò dei fedeli.


Come Gesù, Mitra ha una nascita miracolosa il giorno di Natale; come lui, deve resuscitare i morti; il suo culto, come il cristianesimo, comprende un battesimo, una comunione, dei sacramenti, ecc.


“In sintesi, nel terzo secolo, la Chiesa mitraica rassomigliava molto alla Chiesa cristiana e professava una sorta di monoteismo del tutto simile al cristianesimo. Erano il prodotto delle stesse razze, degli stessi uomini, delle stesse idee e degli stessi bisogni. Stesso esoterismo, stessi legami tra i fratelli, stessa morale, stesse proibizioni (astinenza, continenza, ecc.), stessi riti, stessa mitologia (diluvio, il toro sull'arca, ecc.), stessa teologia, stessa escatologia, stesse speranze, stessi timori; Mitra rassomiglia molto al Logos. Aveva un'adorazione dei Pastori, una Cena, un'Ascensione” (Grande Encyclop. XXIII, pag. 1137). Come i cristiani, i settari di Mitra santificavano il riposo di domenica.


[12] La gloria, nello stile biblico di Paolo, ha il significato di splendore divino.

[13] Come hanno fatto per le parole mendicante, schiavo, interesse, che rendono, per un voluto controsenso, in Povero, Servo, Usura, i traduttori del Nuovo Testamento, san Girolamo in testa, hanno esitato davanti alla parola pagana Metamorfosi, che suona male alle loro orecchie, e l'hanno sostituita con Trasfigurazione (Marco 9:3 — Matteo 17:2), una parola che Tertulliano sembra aver inventato o almeno modellato sul greco per la circostanza. Luca, lui stesso, non ha potuto decidersi a scrivere: “Egli fu metamorfizzato” e disse: “Il suo volto fu mutato” (9:29). Allo stesso modo, Paolo (1 Corinzi 15:51, 52) scrive: “Noi saremo trasformati”.

Come esempio di deformazione del testo nelle traduzioni, abbiamo ancora la parola “diaconos”, che significa semplicemente: servo; si è giunti a nobilitarlo tanto quanto lo schiavo (“doulos”). Certo, si può facilmente ammettere la sostituzione di “ministro di Dio” (Romani 13:4) al posto di “servo di Dio”, perché, in questo passo, i due significati si equivalgono pressappoco; già, “ministro di Cristo”, al posto di “servo di Cristo” è più rischioso (2 Corinzi 11:23). Ma mi sembra ancora più audace rendere “diaconos tês ecclêsias” (Romani 16:1), con “diaconessa della chiesa”, dandole così un titolo ufficiale che, molto probabilmente, non esisteva in quel tempo. Queste pretese diaconesse non erano piuttosto delle semplici serve della chiesa, delle domestiche incaricate della pulizia della sala di riunione, come indica il loro nome? La Vulgata traduce “quae est in ministerio ecclésiae = che è al servizio della chiesa”, e non impiega per nulla la parola “diaconissa” che era tuttavia familiare a san Girolamo. Questa omissione del più antico traduttore del Nuovo Testamento sottolinea ciò che ha di audace la traduzione corrente di “diacono” in “diaconessa”.


[14] Si veda la nostra opera: La Prétendue morale dans l'Evangile (pag. 65 e 67). È deplorevole che Paolo, cedendo al contagio, mescoli delle trombe così materialmente risibili alla Risurrezione, ma si vede (1 Tessalonicesi 4:16) che teneva essenzialmente: “Perché ad un dato segnale... allo squillo della tromba di Dio..., prima risorgeranno i morti”.

[15] Si veda la nostra opera: La Prétendue morale dans l'Evangile.

[16] È notevole che questa prescrizione, così contraria agli insegnamenti precedenti del Gesù vivente, si trova solo in Matteo e in un capitolo apocrifo di Marco. Luca e Giovanni non ne fanno mai menzione. Non è meno strano il fatto che Paolo (Galati 2) non pensa mai di far leva su questa espressa raccomandazione del Salvatore, nella sua calda discussione con Pietro, e che costui l'abbia dimenticata o non si renda conto di resistere agli ordini del Signore, trincerandosi ostinatamente nell'evangelizzazione degli ebrei. È vero che il Principe degli Apostoli non si sogna minimamente di opporre al suo focoso avversario le parole testuali del Messia: “Io non sono venuto ad abolire la Legge, ma per dare compimento” (Matteo 5:17) — “Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti” (e questo verso è una dura condanna di Paolo) “e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel Regno dei Cieli” (Matteo 5:19).


Gli Atti che vogliono nascondere, ad ogni costo, questa contesa tra Paolo e Pietro, fanno andare quest'ultimo a predicare il Vangelo ai Samaritani (8:25), malgrado l'avvertimento esplicito di Gesù: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani” (Matteo 10:5, 6). Ciò equivale a sopprimere l'intero ruolo di Paolo, a negare le Epistole e a fare dell'Apostolo dei Gentili un essere tanto incoerente quanto il Gesù dei Vangeli.

[17] Paolo, dopo la sua conversione, resta in effetti a Damasco (Galati 1:17-18), a circa venti leghe da Cafarnao, dove risiedono gli apostoli e, per tre anni, evangelizza i Gentili, a suo piacimento, senza sembrare preoccupato che, così vicino a lui, permangono i successori immediati di Gesù, e che le loro dottrine differiscano dalle sue su dei punti essenziali: è più che sorprendente. Quando l'ostilità degli ebrei di Damasco lo obbliga a lasciare la città, si reca a Gerusalemme, dove, secondo gli Atti (9:27), Barnaba, uno degli adepti dei Nazareni, lo presenta agli Apostoli. Ma Paolo (Galati 1:19) si rifiuta di vederli, “tranne Pietro e Giacomo”.

[18] I Vangeli e gli Atti menzionano non meno di dieci o dodici diversi Simoni. Questo nome era, in effetti, uno dei più diffusi in Palestina. È ancora più curioso constatare che le Epistole ignorano questo nome.

Sembra persino molto possibile, anche molto probabile, che il Pietro di cui Paolo parla nella sua Lettera ai Galati (1:18 - 2:7, 8) non sia affatto lo stesso personaggio che lui chiama Cefa in questa stessa Epistola (2:9, 11, 14) e altrove  (1 Corinzi 1:12 — 3:22 — 9:5 — 15:5), mentre i Sinottici e gli Atti non conoscono per nulla affatto questo nome di Cefa. Non si vede per quale motivo Paolo confonderebbe lo stesso uomo sotto dei nomi diversi, senza avvertirci di ciò.


L'unico passo sul quale ci si potrebbe basare per ammetterlo è il commento che dà Giovanni (1:42): “Tu sei Simone, ti chiamerai Cefa, che vuol dire Pietro”, e, in effetti, la parola aramaica Kefa, vuol dire Pietro, come Petros in greco.

Ma il vangelo di Giovanni è quello che dà la minima impressione di una realtà, più poca di quanto si possa domandarne agli altri. E questo evangelista pare aver messo un certo compiacimento, nell'avanzare questa spiegazione, che non dipende dal suo racconto, poiché, in tutto il resto del suo libro, non si sente più del nome di Cefa, che lui sembra aver dimenticato.

Matteo (16:18) almeno spiega con un gioco di parole la sostituzione del nome di Pietro con quello di Simone: “E io ti dico (Simone) che tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”. C'è almeno una parvenza di giustificazione.

[19] 1 Corinzi 11:23. — Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane
24 — e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
25 — Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
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1 Corinzi 15:8 — Ultimo fra tutti (il Signore resuscitato) apparve anche a me come a un aborto...
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2 Corinzi 12:1 — Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore.
2 — Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa — se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio — fu rapito fino al terzo cielo.
3 — E so che quest'uomo — se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio —
4 — fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare.
5 — Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze.
6 — Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato, perché direi solo la verità; ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me.
7 — Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia.
8 — A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me.
9 — Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.
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12 — Certo, in mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli”.


[20] PRIMA EPISTOLA DI SAN PAOLO AI CORINTI:

14:1 — Ricercate la carità. Aspirate pure anche ai doni dello Spirito, soprattutto alla profezia.
2 — Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini, ma a Dio, giacché nessuno comprende, mentre egli dice per ispirazione cose misteriose.
3 — Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto.
4 — Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l'assemblea.
5 — Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia; in realtà è più grande colui che profetizza di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che egli anche non interpreti, perché l'assemblea ne riceva edificazione.
6 — E ora, fratelli, supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue; in che cosa potrei esservi utile, se non vi parlassi in rivelazione o in scienza o in profezia o in dottrina?
7 — È quanto accade per gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il flauto o la cetra; se non si distinguono con chiarezza i suoni, come si potrà distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra?
8 — E se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà al combattimento?
9 — Così anche voi, se non pronunziate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlerete al vento!
10 — Nel mondo vi sono chissà quante varietà di lingue e nulla è senza un proprio linguaggio;
11 — ma se io non conosco il valore del suono, sono come uno straniero per colui che mi parla, e chi mi parla sarà un barbaro per me (Barbaro qui ha il significato greco di straniero).
12 — Quindi anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in abbondanza, per l'edificazione della comunità.
13 — Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di poterle interpretare.
14 — Quando infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto.
15 — Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l'intelligenza.
16 — Altrimenti se tu benedici soltanto con lo spirito, colui che assiste come non iniziato come potrebbe dire l'Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici?
17 — Tu puoi fare un bel ringraziamento, ma l'altro non viene edificato.
18 — Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue molto più di tutti voi;
19 — ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue.
20 — Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.
21 — Sta scritto nella Legge: Parlerò a questo popolo in altre lingue e con labbra di stranieri, ma neanche così mi ascolteranno, dice il Signore.
22 — Quindi le lingue non sono un segno per i credenti ma per i non credenti, mentre la profezia non è per i non credenti ma per i credenti.
23 — Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il dono delle lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse che siete pazzi?
24 — Se invece tutti profetassero e sopraggiungesse qualche non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti, giudicato da tutti;
25 — sarebbero manifestati i segreti del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi.
26 — Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l'edificazione.
27 — Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due o al massimo in tre a parlare, e per ordine; uno poi faccia da interprete.
28 — Se non vi è chi interpreta, ciascuno di coloro che ha il dono delle lingue taccia nell'assemblea e parli solo a se stesso e a Dio.
29 — I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino.
30 — Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il primo taccia:
31 — tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati.
32 — Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti,
33 — perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.
34 — Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge.
35 — Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.
36 — Forse la parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto a voi?
37 — Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore;
38 — se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto.
39 — Dunque, fratelli miei, aspirate alla profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo.
40 — Ma tutto avvenga decorosamente e con ordine.


“Si designa sotto il nome di glossolalia un fenomeno che rientra nel dominio dell'estasi religiosa e che sembra aver segnato gli esordi del cristianesimo. Secondo le indicazioni di san Paolo, si tratta di gente che, in preda ad un improvviso entusiasmo, prendeva la parola nelle assemblee della Chiesa primitiva, ma si esprimevano in un linguaggio disordinato e incomprensibile (lingue”), come dominati da una suggestione irresistibile... I fenomeni del parlare estatico si sono riscontrati non soltanto gli inizi della Chiesa cristiana, ma nella religione dei misteri pagani, tra i montanisti, tra i camisardi delle Cevenne, tra diverse sette protestanti dei tempi moderni (Maurice VERNES — Si veda anche HAVET, le Christianisme et ses Origines, IV, pag. 163 e 305).

L'autore degli Atti (2:3-16) non sembra aver capito nulla dalla narrazione di Paolo e sostituisce col racconto contorto del miracolo del dono delle lingue, l'esposizione così precisa di questo delirio estatico di cui il redattore delle Epistole era stato il testimone e lo storico scandalizzato.

“La compilazione ha eclissato l'impressione incresciosa che ha dovuto dare di buon'ora questa pagina straordinaria, collocando in  mezzo il bel cantico della carità (12:31 — 13:1-13 — 14:1). Proprio per questo e sebbene sia degno di Paolo nei suoi momenti migliori, questo pezzo ha tutte le possibilità di non essere affatto suo” (A. LOISY, les Livres du Nouveau Testament, pag. 43).


[21] Pertanto, non possiamo fare a meno di ammirare l'elevazione di spirito dell'Apostolo che, avendo sotto mano un modo facile e onnipotente di raccontare dei prodigi a delle masse superstiziose, avide di credere all'incredibile, disdegna di impiegare questa grossolana procedura alla loro portata e seppellisce i miracoli in un silenzio sprezzante, per attenersi alla predicazione della tesi filosofica della Resurrezione che, per lui, è tutto il cristianesimo.

Paolo, da vero ebreo quale egli era, sembra essere stato scarsamente superstizioso. Non parla mai dei demoni che occupano un così gran posto nei Sinottici. Tuttavia, egli nomina sei volte Satana (il Tentatore), ma in lui, il suo ruolo (1 Corinzi 5:5 — 7:5 — 2 Corinzi 2:11 — 11:14 — 12:7 — Romani 16:20) è molto oscuro. Da dove Paolo ha preso questo credo che esiste a malapena nell'Antico Testamento?


La Bibbia ebraica non conosce i demoni. Il serpente della Genesi è un vero serpente. Il libro di Giobbe dove, per la prima volta, vi è una menzione di Satana, è posteriore alle conquiste di Alessandria, Zaccaria, dove Satana è anche citato (3:1) è probabilmente del tempo degli Asmonei (2° secolo prima dell'Era Comune. — HAVET), e non vediamo veramente quello che sta facendo in quest'ultima storia. Inoltre, Paolo non sembra aver conosciuto questi due libri della Bibbia.

Il Nuovo Testamento, dove abbondano i demoni (salvo che nel Vangelo di Giovanni, che imita e supera perfino la riserva di Paolo) non può dunque essere di origine ebraica: qui vi è un'evidente influenza delle religioni orientali che, al pari del giudaismo, si erano infiltrate in tutti i popoli dell'Impero.


Giovanni, infatti, che differisce così tanto dagli altri evangelisti, cita a malapena i demoni (6:71 — 7:20 — 8:44, 49) e, nel suo testo, questa parola non sembra significare altro che una persona molto malvagia, a cui piace far del male (significato che ha ancora conservato ai nostri giorni), ma egli non vi associa alcun'idea di un essere soprannaturale.


L'Antico Testamento dove i prodigi divini non sono affatto rari, sembra aver fatto poco caso tanto quanto Paolo dei miracoli dei profeti:
Deuteronomio 13:1. — Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio
2 — e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto,
3 — tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore....
.. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ..

5 — Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte.

[22] Riserva strana e che mostra una volta di più che i libri del Nuovo Testamento non sono affatto l'opera di autori ebrei e che sono stati scritti ben lontano dalla Giudea, in un ambiente politeistico che si doveva salvaguardare, non si trova una sola parola contro l'idolatria, mentre la Bibbia ebraica è tutta ricolma di imprecazioni e di invettive contro gli Dèi stranieri, “abominio di Israele”. Paolo, lui stesso di abitudine così intransigente, pertanto molto meno lontano dal giudaismo rispetto agli Evangelisti, non osò condannare l'idolatria, e senza dubbio doveva spesso chiudere un occhio davanti a molte pratiche superstiziose; ha dovuto lasciare a volte i neofiti continuare le loro vecchie cerimonie e condividere le loro adorazioni tra il Cristo risorto e le loro antiche divinità, senza avere la forza di rimproverarli. Era impossibile, infatti, per i nuovi convertiti passare bruscamente da una credenza antica a un'altra del tutto nuova, senza introdurvi meccanicamente le abitudini quasi ineliminabili del passato. In ogni epoca, e fino alla nostra, il cristianesimo doveva tollerare questi riti del paganesimo, simili a quelle piante vigorose che il disboscamento non ha potuto distruggere e che rispuntano ostinatamente in mezzo ai solchi. Ancora ai nostri giorni, è così indistruttibile il potere di una lunga educazione ancestrale, che non vediamo degli illustri studiosi conservare intatto, nel profondo del loro cuore, un residuo del deismo che fu instillato in loro dal loro ambiente, mentre tutto il loro lavoro scientifico ne è la negazione? Questi ritorni offensivi dei riflessi atavici dovevano essere ben più irresistibili tra degli ignoranti inebriati del meraviglioso, e in un secolo dove, a parte la matematica, non esisteva, per così dire, alcuna conoscenza positiva.


Paolo tollera dunque molto facilmente coloro che si astengono da certe carni o che santificano antichi giorni festivi, senza incolpare coloro che agiscono diversamente. Si accontenta di affermare (ciò che i cattolici di oggi sembrano aver dimenticato), che “il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Romani 14:17). Ciò indica in lui una grande tolleranza e una certa ampiezza di vedute, ma probabilmente anche, a causa del suo carattere autoritario, l'impotenza a comportarsi diversamente.

Tuttavia, nel verso (Romani 1:23): “Hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili”, Paolo si eleva con una certa amarezza contro gli adoratori d'immagini. Questo passo sembra rivolgersi e si rivolge senza dubbio, nello spirito dell'Apostolo, ai cristiani che adorano l'immagine del Crocifisso, della Colomba, dell'Agnello e del Pesce simbolici. I  versi seguenti: “Hanno venerato e adorato la Creatura al posto del Creatore” (Romani 1:25), “che giudichi quelli che fanno tali cose e le fai tu stesso” (Romani 2:3, 23), confermano questa ipotesi, tanto più che l'adorazione di Gesù e il credo nella sua divinità non si riscontrano affatto nelle Epistole Cardinali. Al contrario, Paolo insegna che “c'è un solo Dio, il Padre” (1 Corinzi 8:6), “che Dio è il capo di Cristo” (1 Corinzi 11:3), “che il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa” (1 Corinzi 15:28).

Gli Atti (19:24-40) ci raccontano anche che a Efeso, Paolo fu accusato da un certo Demetrio, orefice, di aver detto “che non sono dèi le opere fabbricate da mani d'uomo” e che, per questa diceria, i commercianti di oggetti devozionali, preoccupati dei loro affari, suscitarono una rivolta. Gli Atti non ci fanno apprendere se questa accusa fosse giustificata: al contrario (19:27), il cancelliere della città calma il tumulto assicurando che Paolo e i suoi compagni non hanno affatto pronunciato questa bestemmia, e vi è ragione di credere che il funzionario è sincero, poiché, dato che l'apostolo aveva trascorso due anni a Efeso, senza essere disturbato, si può concludere che la sua propaganda non mancò proprio di prudenza.

Nel capitolo 6 della seconda Epistola ai Corinzi, capitolo la cui autenticità è stata, del resto, sospettata (A. LOISY), leggiamo, nel verso 16, una critica ben timida dell'idolatria: “Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli?”. Questo non è affatto compromettente. 

Nella prima Epistola ai Corinzi (10:14), si riscontrano solo queste due parole, senza alcun legame con i versi che precedono o che seguono: “Fuggite l'idolatria”. Questo è tutto ciò che vi è nel Nuovo Testamento e si ammetterà che è molto poco per una religione che è venuta, così dicono, per distruggere l'idolatria.

[23] Galati 5:2. — Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla.
Galati 5:12. — Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano (a questo proposito).
Romani 2:25. — La circoncisione è utile, sì, se osservi la legge.
Romani 4:9. — Orbene, questa beatitudine riguarda chi è circonciso o anche chi non è circonciso? Noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia.
10. — Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non certo dopo la circoncisione, ma prima.
1 Corinzi 7:18 — ...Qualcuno è stato chiamato quando non era ancora circonciso? Non si faccia circoncidere!

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