mercoledì 26 giugno 2019

«La Leggenda di Gesù» (E. Moutier-Rousset) — L'Opera di Paolo

(continua da qui)
§ 2. — L'OPERA DI PAOLO
In effetti, quali che siano le difficoltà che l'ostinato missionario degli incirconcisi ha incontrato personalmente durante il suo ministero, difficoltà che il suo carattere gelosamente autoritario doveva senza dubbio moltiplicare sul suo percorso, la sua predicazione fu gettata in un terreno fertile, mirabilmente preparato e il raccolto non poteva non essere molto ricco; ma il cristianesimo che era stato seminato senza Gesù, si sarebbe sicuramente servito di Paolo per germogliare: presto o tardi, avrebbe trovato l'uomo che gli era necessario per raggruppare i suoi elementi sparsi. L'azione dell'Apostolo dei Gentili, così importante come ci sembra da lontano, non era tuttavia affatto essenziale e,  tutt'attorno a lui, intravvediamo oscuri operatori della prima ora che lo assistono, come Giuda, Sila o Timoteo; chi lo ostacola o lo abbandona, come Marco o Barnaba; chi gli fa concorrenza o opposizione, come Pietro e Giacomo all'inizio, e Apollo, più tardi, ecc., ecc... E questi collaboratori casuali perseguono la loro opera, ciascuno per proprio conto, al di fuori di qualsiasi direzione centrale, di qualsiasi autorità, perfino di qualsiasi piano generale e di qualsiasi dogma comune ad eccezione dell'apparizione del Messia promessa dai profeti: Pietro e Giacomo conservano i riti ebraici che Paolo respinge; Apollo predica il Cristo “benché avesse conoscenza soltanto del battesimo di Giovanni” (Atti 18:25) e rimane sempre indipendente da san Pietro come da san Paolo (1 Corinzi 1:12 — 3:4 — 4:6); Barnaba e Marco (di cui la tradizione ha fatto, in seguito, il secondo evangelista) non possono intendersi con Paolo (Atti 15:39), si separano da lui e continuano la loro predicazione a parte. Il merito dell'Apostolo, e non è affatto piccolo, è che sembra aver compreso da subito l'intera portata della rivoluzione che si preparava e aver saputo, meglio di chiunque altro, raggruppare i giudaizzanti sparpagliati in tutto l'Oriente e ciò che faceva esitare l'osservanza delle cerimonie giudaiche che li separavano troppo visibilmente dal resto del mondo. La massa voleva ben accettare i vantaggi e le illusioni del giudaismo, ma non i suoi svantaggi e le sue realtà. Paolo, per un colpo di genio e di audacia rivoluzionaria, ruppe violentemente con i suoi compagni di fede ebrei, strappò dalla Legge mosaica i fogli che gli fanno ostacolo nel reclutamento dei suoi neofiti: il cristianesimo è fondato! L'incubo di un illuminato diventerà la legge del mondo!

La conformità delle aspirazioni popolari e degli insegnamenti del Nuovo Testamento spiegano sufficientemente il successo prodigioso [1] e la rapida propagazione delle dottrine cristiane, tra le masse che avevano già profondamente assorbito parecchi secoli di intensa predicazione ebraica. E così, malgrado la nostra diffidenza nei confronti dell'Autore degli Atti degli Apostoli e il poco credito che merita, noi non siamo affatto in diritto di respingere interamente i resoconti in cui mostra le adesioni alla nuova setta che si verificano a migliaia (Atti 2:41, 4:4), [2] all'indomani della morte del Salvatore (verso l'anno 30 o 32), benché Gerusalemme dove si suppone che queste conversioni abbiano avuto luogo, fosse il posto meno propizio per l'estensione di nuove idee e benché questa città fosse sempre stata refrattaria alla propaganda nazarena; ma la testimonianza di Paolo (Galati 1:22) conferma che nel suo primo viaggio nella capitale della Giudea (anno 38), vi erano già diverse chiese cristiane stabilite in questo paese. [3] Inoltre, constatiamo tramite gli Atti, e Paolo ce lo assicura egualmente, che la nuova religione, ancora fortemente permeata di ebraismo, si espandeva con la rapidità di un incendio. Prima della conversione di Paolo (anno 35), Filippo [4] aveva predicato il Vangelo in Samaria (Atti 8:5); Damasco, in Siria, Antiochia, così lontane da Gerusalemme (Atti 11:26), Cipro e la Fenicia (Atti 11:19) avevano delle Chiese dove avevano inteso annunciare “la Buona Novella” nelle loro sinagoghe. Fin dall'anno 38, Antiochia era un centro della diaspora di primaria importanza (Atti 11:19-26), ancor prima che Barnaba, che precedette Paolo, vi si fosse recato a predicare la parola di Dio. Barnaba, Sila, Apollo, Agabo, e soprattutto Paolo, devono solo accelerare il movimento, e dappertutto, a Tessalonica, a Corinto, a Efeso, a Roma, ecc..., fondano rapidamente delle chiese fiorenti; ma da nessuna parte arrivano primi a propagare la nuova religione, e persino nelle città più lontane, a Derbe, a Listra, a Iconio, nel cuore dell'Asia Minore, nelle regioni selvagge della Licaonia, a mille chilometri da Gerusalemme, incontrano dei pionieri che hanno preparato il terreno (Atti 16:1-4, 19:1); ciò dimostra che lo stato d'animo che fece trionfare il cristianesimo è anteriore di molto alla sua predicazione: prima che il Messia fosse stato annunciato loro, ancor prima che fosse nato, i miserabili stavano già aspettando il Redentore. Prima di Gesù, le idee cristiane avevano già cominciato la conquista del mondo, proprio come, molto prima che Lutero avesse visto il giorno, il protestantesimo aveva già agitato [5] l'Inghilterra, la Germania, la Boemia e turbato profondamente l'Italia e la Francia.

Paolo, tuttavia, semina piuttosto che coltivare: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato” (1 Corinti 3:6, 10); “ho posto il fondamento; un altro vi costruisce sopra”. Egli dà una forma, una struttura a dei gruppi amorfi, è vero, ma nondimeno pieni di vita, li organizza, porta loro il principio dell'unità che manca loro, con i suoi viaggi, le sue ricerche, la sua corrispondenza; mitiga i dissensi (1 Corinzi 3:3-23). Sulla pianta selvatica, ma vigorosa, che procaccia alla cieca dei numerosi germogli destinati a rimanere sterili, egli innesta un ramo che darà dei frutti in abbondanza. [6] Poi, realizzato questo compito in questo o quel luogo, si affretta a ricominciarlo altrove, senza attardarsi a lungo nella stessa città; il suo ruolo è soprattutto quello di un conquistatore.

Alessandro, attraversando l'Asia al pari di un uragano, aveva fondato un impero che non gli sopravvisse di un giorno; delle venti Alessandrie che ha seminato dal Nilo all'Indo, appena due hanno conservato il suo nome.

Allo stesso modo, da Gerusalemme a Corinto, passando per la Fenicia e l'Asia Minore, Paolo fonda una moltitudine di Chiese di cui non vi è più menzione subito dopo la sua scomparsa e che, tutte, dimenticano completamente il loro creatore. Cosa ne è delle chiese dei Galati, dei Colossesi (nei pressi di Laodicea) dei Tessalonicesi — e di quelle che, almeno se si crede agli Atti degli Apostoli, egli doveva stabilire ovunque andasse, a Damasco, a Tarso, a Iconio, a Perge, ad Atene, ecc., chiese che non erano altro che l'incontro di una cerchia abbastanza ristretta di giudaizzanti convertiti alle sue idee, ma che avrebbero dovuto conservare a lungo la sua forte impronta? Non se ne è più parlato dopo di lui.  

Ma, in compenso, così rapida come era stata l'azione di Paolo, essa doveva essere durevole, in un'altra direzione che senza dubbio egli non aveva affatto previsto: la sua influenza distruttiva dell'autorità abitudinaria del clero, doveva sopravvivergli ed estendersi fino ai nostri giorni quando le sette protestanti si richiameranno soprattutto a lui.

Paolo, in effetti, è stato e resterà l'Apostolo dello scisma: ha reciso senza pietà il legame che legava così strettamente i primi cristiani con gli ebrei ortodossi; i nazareni non erano che dei timidi dissidenti i quali, verosimilmente, al pari senza dubbio, dei seguaci del Battista, a dispetto del suo immenso successo iniziale, sarebbero un giorno o l'altro tornati in seno alla sinagoga; i paolini sono degli eretici, decisi a procedere fino all'estremo della loro logica e con i quali nessun compromesso è possibile. Paolo sta combattendo una battaglia che i nazareni non vogliono ingaggiare così completamente, e se vogliono allentare un poco i vincoli della Legge, essi non vogliono affatto abrogarla. Così, perfino trionfanti, ma trascinati, non sanno dove, nel torrente delle idee di Paolo, gli conservano un rancore mal dissimulato, della vittoria che egli li obbliga a riportare malgrado loro. Alcuni commentatori moderni (A. Reville, l'Antechrist et le Christianisme, Revue des Deux-Mondes, 15 dicembre 1873), non hanno esitato a sostenere che il falso profeta dell'Apocalisse è proprio l'Apostolo dei Gentili, abbassato fino a quel punto dal fanatismo dei giudaizzanti... e, nel seguito, si vede la passione teologica spingersi fino a confondere sistematicamente Paolo e Simone il Mago.

Potrebbe essere molto audace cercare un bagliore nelle tenebre dell'Apocalisse, ed è più saggio non tentarlo affatto. Comunque sia, Paolo, dopo la sua morte leggendaria sotto Nerone, [7] cade in un oblio profondo: “Paolo fu nel primo secolo un fenomeno in qualche modo isolato. Non lasciò mai una scuola organizzata; lasciò, al contrario, ardenti avversari che, dopo la sua morte, vorranno bandirlo in qualche modo dalla Chiesa e metterlo sullo stesso piano di Simone il Mago. Gli si rimosse ciò che consideriamo la sua opera, la conversione dei Gentili. La Chiesa di Corinto, che aveva fondato per conto proprio, pretese di dovere la sua origine a lui e a san Pietro. Nel secondo secolo, Papia e san Giustino non pronunciano più il suo nome” (Renan, les Apôtres, pag. 3).

“Il secondo secolo parla appena di lui e sembra cercare, per principio, di cancellarne la memoria” (Renan, Saint-Paul, pag. 564). Se conserva una fama relativa in Oriente, nei concili greci, è perché si è lontani fisicamente e moralmente dall'influenza di Roma, ma il cristianesimo latino non pronuncia il suo nome che al seguito del suo rivale. San Paolo, nel Medioevo, è in qualche modo annegato nei raggi di san Pietro; .... quasi nessuno, prima del 16° secolo, si appella al suo nome ...; ha pochi devoti e gli edificano a malapena delle Chiese” (Renan, Saint-Paul, pag. 565).

La Chiesa cattolica, infatti, che si richiama a san Pietro, ha sempre mostrato istintivamente un sacco di diffidenza nei confronti dell'Autore delle Epistole, e il suo nome non si trova nemmeno nei messali dei fedeli (eccezion fatta nel Confiteor, dove è annegato tra gli altri santi. In compenso, la Riforma lo ha rimesso al posto d'onore che è il suo e ha persino portato i cattolici a riconoscere, benché con rammarico, l'importanza del suo ruolo. Questo è perché le sue Epistole sono le più suggestive: se il Gesù dei Vangeli, di cui Roma è soddisfatta, è un personaggio dei più pallidi, dei più inconsistenti, quello di Paolo è, per così dire, inesistente, ma, d'altro canto, gli inizi della Chiesa sono scolpiti lì con un rilievo e una verità, che si cercherebbe invano nelle  pagine dolciastre degli Atti degli Apostoli.

Per la sua maniera di interpretare i testi sacri, respingendo l'autorità intransigente del clero ebraico, Paolo è, a modo suo, un precursore del Libero pensiero; quello che ha fatto riguardo alla Bibbia ebraica, Lutero e i suoi successori lo faranno riguardo all'interpretazione del Nuovo Testamento da parte del clero cattolico. La scienza moderna, con maggiore erudizione e audacia, ma senza fanatismo, allargherà le brecce che si sono aperte nei Testi sacri, ma è sempre nell'arsenale delle Epistole dell'Apostolo dei Gentili che andrà a trarre le armi più formidabili contro la fede antica.

NOTE

[1] ZOLA (Lourdes, pag. 448) ha magistralmente dipinto questo ardente bisogno delle folle di credere all'incredibile:

"Ed è qui che è necessario credere, mia cara bambina. Vedete questo buco nero, sognate alla Grotta risplendente, alla Basilica trionfante, all'intera città costruita, a questo mondo creato, a queste folle accorse! Ma se Bernadette fosse solo un'allucinata, una pazza,  l'avventura non sarebbe forse più sorprendente, ancora più inspiegabile? Come: il sogno di una pazza sarebbe bastato a scuotere così le nazioni: ... No, no:  un soffio divino era passato che solo può spiegare il prodigio”.

“... Sì: era vero, un soffio era passato, il singhiozzo del dolore, il desiderio inestinguibile verso l'infinita speranza. Se il sogno di una bambina sofferente era sufficiente per portare la gente, per far piovere i milioni e far spuntare dal suolo una nuova città, non era forse questo sogno che ha placato la fame dei poveri uomini, l'insaziabile bisogno che hanno di essere ingannati e confortati? Lei aveva riaperto l'ignoto, senza dubbio in un momento sociale e storico favorevole; e le folle vi si erano precipitate. Oh! rifugiarsi nel mistero, quando la realtà è così dura, affidarsi al miracolo, poiché la natura crudele sembra una lunga ingiustizia! Ma si ha un bell'organizzare l'ignoto, ridurlo in dogmi, farne delle religioni rivelate, vi è sempre in fondo solo questa chiamata della sofferenza, questo grido della vita, che richiede la salute, la gioia, la felicità fraterna, fino ad accettarli in un altro mondo, se non può essere su questa terra. A cosa serve credere ai dogmi? Non è abbastanza piangere e amare?

“...L'eterno bisogno del soprannaturale farebbe vivere nell'uomo doloroso l'eterna fede. Il miracolo, che non si poteva accertare, doveva essere un pane necessario per la disperazione umana...”
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"Non v'è certamente bisogno di credere in un dogma rivelato per essere profondamente sincero, invocando un Salvatore... Quando la razza umana scomparirà, questo sarà ancora invocando soccorso e, forse, tentando di sognare che il soccorso gli è venuto” (J. LEMAITRE, Conférence sur Châteaubriand, 14 e 15 febbraio, 1912).

[2] Renan lo contesta. Dopo aver detto (PAUL, pag. 561) che “i progressi della setta (cristiana) erano stati veramente meravigliosi”, aggiunge, tre o quattro righe più in basso:

“In tutta questa storia, è importante guardarsi dall'illusione che la lettura delle epistole di Paolo e degli Atti degli Apostoli produce quasi inevitabilmente... Un paese era considerato evangelizzato quando il nome di Gesù vi era stato pronunciato e una dozzina di persone si erano convertite. Una Chiesa spesso, non conteneva affatto dodici o quindici persone. Forse tutti i convertiti di san Paolo in Asia Minore, in Macedonia e in Grecia non oltrepassarono di molto la cifra di un migliaio”. E Renan fa con infelice precisione il censimento di questi mille.

Se gli Atti sicuramente esagerano il numero di convertiti, crediamo che l'Autore della vita di Gesù, per eccezione in questo caso, pecca per eccesso di scetticismo. Non è possibile accettare che il credo nel Messia, già prima di Gesù, avesse ancora così pochi seguaci al tempo di Paolo, e il governo imperiale potesse essere disturbato dalle stravaganze di qualche dozzina di miserabili sconosciuti: era necessario molto di più per mettere in moto la pesante procedura romana. Si spiegherebbe ancora meno il fatto che venti anni della propaganda furiosa di Paolo e dei proseliti fanatici che lasciò dietro di sé dovunque egli era passato, avrebbero prodotto solo un migliaio di conversioni tra delle masse ignoranti, pronte in anticipo a credere a tutto ciò che lusinga la loro sete di felicità, né si spiegherebbe il fatto che l'Apostolo avrebbe corso così tanti e così grandi pericoli, sopportato così tante persecuzioni, per arrivare ad un risultato così meschino.

Renan stima ad una trentina il numero di persone che componevano la Chiesa di Corinto; siccome le donne e i bambini di una certa età, almeno, ne facevano parte, si poteva supporre quasi una dozzina di famiglie cristiane in città. Questo è ben poco e se si considera che tra “coloro, che si chiamano fratelli, vi erano dei fornicatori, degli avari, degli idolatri, dei calunniatori, degli ubriaconi, dei ladri” (1 Corinzi 5:11), senza contare un incestuoso (1 Corinzi 5:1), ci si potrebbe chiedere se la Chiesa di Corinto comprendesse un solo uomo onesto (Si veda La Prétendue Morale dans l'Evangile).

Né si comprende più, nell'ipotesi di un'assemblea così ristretta e così povera come Paolo “ha dovuto spogliare altre Chiese per servirli” (2 Corinzi 11:8), non si comprende, io dico, il fatto che l'Apostolo insiste così spesso e così a lungo (1 Corinzi 16:1-4 — 2 Corinzi, capitoli 8 e 9 nel complesso), a ricavare abbondanti elemosine da persone così bisognose e che queste elemosine valgano la pena che le porti lui stesso a Gerusalemme. Questa insistenza e questo viaggio provano a sufficienza che gli adepti dovevano essere numerosi.

Inoltre, non sappiamo da mille esempi, come le leggende più campate in aria, le superstizioni più grossolane, trovano immediatamente una quantità straordinaria di partigiani, quando cadono in un ambiente appropriato? Per non parlare di Guglielmo Tell, al quale tutto il mondo ha creduto così a lungo, non vediamo, nel medioevo, una schiera di pazzi persuasi di essere stati trasformati in lupi mannari, una moltitudine di folli che si immaginavano di aver assistito al sabba e di avere avuto rapporti sessuali con il diavolo, dei poveri imbecilli che sostenevano fermamente di aver visto dei fantasmi? Queste pazzie sono estremamente contagiose: così si può (con le dovute riserve), non dubitare affatto delle migliaia di conversioni operate da Paolo, e credere che un sacco tra i nuovi cristiani ebbero delle visioni simili alla sua, e come lui, percepirono in estasi il Cristo risorto. Perfino ai nostri giorni, queste apparizioni soprannaturali si verificano ancora e incontrano masse di convinti adepti.

Questa fede nell'esistenza dei licantropi, universalmente accettata nel passato, non può più ora, nonostante il numero e l'autorità di coloro che una volta ne sostenevano la realtà, minare lo scetticismo contemporaneo o reclutare nuovi seguaci. Queste diavolerie svanirono da sé non appena si cominciava a realizzarne la vanità. Nessuno oggi, salvo alcuni pazienti affetti da delirio e rapidamente rinchiusi in manicomio, si crede mutato in lupo o si immagina di aver assistito al sabba. Tutt'al più, in alcune delle nostre province più arretrate, si troverebbero ancora vecchi contadini che prestano fede ai fantasmi; ma già, questa chimera di cui Paolo è vissuto, non ha più influenza sulla loro condotta, ed essi non osano confessarla francamente. Lo spiritismo, una nuova superstizione che ha oggigiorno conquistato così rapidamente molti adepti, anche nelle classi illuminate, si nasconde, più spesso, sotto esperimenti pseudo-scientifici.

[3] Andronico e Giunia, di cui abbiamo solo i nomi (Romani 16:7), avevano anche preceduto Paolo nell'apostolato.

[4] Gli Atti (21:8) citano un “Filippo, l'evangelista”,  uno dei sette diaconi (6:5), probabilmente lo stesso, di cui san Epifanio (Haeres 26:13) dice che esiste un vangelo sotto il suo nome. D'altra parte, gli Atti non menzionano mai i Vangeli di Marco, Matteo e Giovanni, e l'allusione a quello di Luca è quantomeno dubbia.

[5] In Inghilterra: Eresia di Wycliffe (1370-1384), il più grande dei precursori della Riforma; insurrezione dei Lollardi (1392). 

In Boemia: Giovanni Hus e Girolamo di Praga, bruciati al rogo nel 1415 e nel 1416; terribile rivolta degli Ussiti (1415-1434).

In Italia: Arnaldo da Brescia, bruciato al rogo nel 1155; Savonarola, bruciato nel 1498.

In Francia: l'eresia degli Albigesi che si era estesa su una gran parte dell'Occidente e fu sterminata solo dopo una guerra atroce.

Tutti sono dei precursori più o meno audaci nei loro attacchi contro Roma, di cui le celebri tesi di Lutero sono solo, fin troppo spesso, la riproduzione.

[6] Paolo (Romani 11:17 e 24) dice: “Se tu sei stato tagliato dall'olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell'olivo domestico...”, il che indica una strana arboricoltura. 

Il verso (Romani 16:22) è poco chiaro: “Vi saluto anch'io, Terzo, che ho scritto questa lettera”. Si suppone che Paolo abbia dettato la sua Epistola ad uno chiamato Terzio. — Il verso (Galati 6:11) mostra egualmente che Paolo scriveva sempre la sua corrispondenza di sua mano. Renan e A. Loisy l'ammettono. 

[7]  Gli Atti si interrompono bruscamente due anni dopo l'arrivo di Paolo a Roma, dove era stato condotto per essere giudicato da Cesare (Nerone), vale a dire, nell'anno 60, secondo Renan o nel 65, secondo il signor Sabatier. La tradizione lo fa decapitare per ordine dell'imperatore, nello stesso tempo in cui san Pietro è crocifisso, a testa in giù, posizione molto scomoda. Ma questa tradizione si fonda sulla “Relazione di Marcello”, presunto discepolo di san Pietro, opuscolo che la Chiesa stessa respinge come apocrifo, anche se ha trattenuto la leggenda del martirio dei due Apostoli. Questa relazione non è altro che un tessuto di assurdità, una raccolta di racconti ridicoli, tra cui una cosiddetta lettera di Pilato all'imperatore Tiberio, e un incontro di bizzarri miracoli tra san Pietro e Simon Mago. Nerone condannò a morte i due Apostoli, per aver ucciso Simone, rompendo con le loro preghiere, l'incantesimo che consentiva a costui di sostenersi in aria volando.

È anche in questa leggenda che troviamo il “Quo vadis, Domine?” e il racconto della morte di Nerone, morto di fame, mentre fuggiva nei boschi, e divorato dai lupi.

Havet crede che Paolo morì di malattia e non fu affatto torturato a Roma. È per non contraddire la leggenda del suo martirio, che gli Atti  smentivano senza dubbio, che si è soppressa la fine.

A noi ci piace immaginare, e questa fine del grande rivoluzionario ci sembra così più nobile e più bella, che Paolo tornò a Gerusalemme, per recarsi in soccorso della grande insurrezione ebraica che Tito soffocò nel sangue nel 70. L'indomabile tribuno sarebbe caduto, armi in pugno, eroicamente, sotto la spada dei soldati di Roma, e non sotto la scure dei littori, difendendo il suo paese e il suo Dio e svanendo con loro sotto le rovine della città e del tempio. È chiaro che se questa ipotesi è corretta, la leggenda ha dovuto cancellarla risolutamente.

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