venerdì 12 aprile 2019

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsLe Parole del Signore.

Gli Storici e i Vangeli.

9. LE PAROLE DEL SIGNORE.

(a) La Tradizione delle Parole del Signore. — anche Wundt sostiene, come citato da Zimmern, che “la storia della Passione è, ad eccezione di pochi [quali?] dettagli di sufficiente (!) credibilità storica, un tessuto di leggende”. “Ma”, egli dice, “ciò che non troviamo influenzato da queste leggende, o in nessuno dei prototipi mitologici, sono i detti e i discorsi di Gesù, come sono riportati nei vangeli sinottici”. [1] Anche Schneider vede  nel suo insegnamento la prova migliore dell'esistenza storica di Gesù (pag. 465). Cosa dobbiamo fare di questa affermazione? In altre parole, quali prove le parole di Gesù offrono della sua realtà storica?

Abbiamo già sottolineato che i contenuti dei vangeli puntano a due fonti: una memoria delle azioni di Gesù e una collezione dei suoi detti, che ricaviamo dai paralleli in Matteo e in Luca in confronto a Marco. Ma abbiamo anche sottolineato quanto sia incerta la nostra conoscenza di questa collezione di detti — così incerta che possiamo giustamente parlare di questa fonte come di “una x completamente sconosciuta”. 

Ciò che rende questa tradizione di detti così preziosa per i teologi è la circostanza per cui loro credono che essa li avvicini molto più a Gesù del vangelo di Marco. È vero che loro non possono negare che, anche se riuscissero a ricostruire interamente e con fiducia questa tradizione, di cui non vi è purtuttavia alcuna menzione, dovremmo avere ancora soltanto un libro provvisto di certa forma o composizione letteraria, organizzato sulla falsariga di una composizione letteraria. “Per mezzo della fonte dei detti non raggiungiamo di colpo Gesù, ma la comunità. Per dirla con precisione: in casi appropriati apprendiamo dalla fonte ciò che sembrava alla comunità il fatto caratteristico, distintivo ed indispensabile in Gesù” (Weiss, pag. 159).

Ora, in vista dell'intera costituzione della cosiddetta comunità primitiva, ciò non è un grande ottenimento. Lo è ancora di meno quando riflettiamo sul fatto che, come abbiamo sottolineato in precedenza, non siamo affatto sicuri che le tradizionali “parole del Signore” siano le parole di un singolo individuo storico — vale a dire, il Gesù storico. I teologi lo assumono; ma di nuovo si limitano ad aggirare la domanda — un vizio che infetta l'intero loro metodo storico. Le “Parole del Signore” — non finiremo mai di ripeterlo — sono nella Scrittura fin troppo spesso semplicemente parole che il Signore (vale a dire, Jahvè) dà ai suoi seguaci attraverso lo “spirito” al punto che, perfino concedendo l'esistenza di un Gesù storico, sarebbe impossibile discriminare tra ciò che è dovuto allo “spirito” nella collezione e ciò che è dovuto a Gesù. [2] Non sappiamo se la collezione di detti contenesse espressamente soltanto le parole di Gesù, oppure includesse anche detti che per altri motivi erano ritenuti degni di essere ammessi. Non possiamo dire se le parole che si credeva fossero state pronunciate sotto l'influenza dello “spirito” non furono poi incorporate nei vangeli e poste sulle labbra di Gesù semplicemente perché i detti migliori e più importanti dovevano provenire, nell'opinione dei suoi seguaci, dalle labbra di colui che veneravano come “il Signore” nel senso specifico del termine.

Il fatto che una gran porzione di detti che sono tendenziosi, partigiani, fraintesi, e di tarda origine abbia trovata la sua strada tra le “parole del Signore” nei vangeli, che diverse fasi del pensiero religioso abbiano trovato espressione in loro e si siano munite dell'autorità del “Signore dei Signori”, è ammesso da tutti gli studiosi critici. Si può ricavare qualche idea di quanto si disintegra in questo modo se ci si prende la briga di cancellare dai vangeli le parole di Gesù che sono riconosciute come interpolazioni.

Ma abbiamo qualche garanzia della sostanziale veridicità almeno della tradizione? Siamo riferiti alla forma della tradizione, alla profonda impressione delle parole del maestro nella memoria dei suoi ascoltatori, alla preservazione accurata, quasi verbale, dei dettagli che contraddistingue l'istruzione rabbinica. [3] Ci viene detto che il Talmud mostra la tenacia e la coscienziosità di una tradizione del genere. Concedendo, tuttavia, che le circostanze della tradizione fossero davvero così favorevoli, in che modo i vari detti di Gesù giunsero ad esserci preservati in così tante forme diverse come noi effettivamente le abbiamo? Come possiamo spiegare che così tanto è stato perso delle parole di Gesù che era certamente importante, mentre è stato conservato così tanto che non ha importanza? Tuttavia non possiamo supporre che Gesù non abbia detto e predicato più di quanto abbiamo nei vangeli come sue parole. “Quello che era un precetto della scuola per gli allievi dei rabbini”, dice Weiss, “divenne per i discepoli di Gesù una questione di salvezza. Le parole del maestro erano una materia di vita o di morte; erano il fondamento della comunità, e l'accurata determinazione delle parole era il loro dovere più importante” (pag. 116). È sorprendente, tuttavia, il fatto che gli scritti cristiani apparentemente più antichi pongono così poco l'accento sulle parole di Gesù, che Clemente, Giacomo, La Dottrina degli Apostoli, ecc., citano le parole del Signore senza descriverle espressamente come detti di Gesù; [4] che Paolo stesso sembra non sapere nulla di loro, dal momento che, come abbiamo visto, non c'è un singolo caso chiaro in cui egli si riferisca a detti di Gesù, perfino laddove la somiglianza dell'idea avrebbe dovuto rammentargli di loro, oppure laddove il contesto avrebbe dovuto realmente costringerlo a citare l'autorità del maestro a sostegno delle sue opinioni.

Com'è possibile che, se Weiss ha ragione, le parole di Gesù non hanno praticamente recitato alcun ruolo nei primi giorni del cristianesimo? L'affermazione di Weinel (pag. 15) secondo cui i detti di Gesù, non la cristologia, erano la principale preoccupazione dei primi cristiani non può essere confermata da un singolo fatto storico. Secondo Atti, il primo sermone cristiano non fu una ripetizione dell'insegnamento di Gesù, ma un discorso intorno a Gesù, come apprendiamo nei casi di Pietro, di Stefano, di Filippo e di Apollo. [5] Se credevano davvero che quei detti appartenessero a un Gesù storico, perché non sono stati conservati più accuratamente? Com'era possibile che questa collezione di detti fosse andata persa? Si potrebbe pensare che una cosa così preziosa come le parole del loro Signore e Maestro sarebbe stata custodita dalla comunità come un tesoro sacro, copiato innumerevoli volte, e tramandato di generazione in generazione. Invece di questo, sembra che la semplice memoria dell'esistenza di una tale collezione sia stata completamente persa dai cristiani per secoli, ed è stato riservato ai moderni teologi critici il compito di stabilire l'esistenza precedente di una tale fonte. Come se la provvidenza avesse voluto riservare questo materiale per le loro indagini erudite.

(b) Le Controversie con i Farisei. — È stato fatto di recente un tentativo per fornire una prova del fatto che i “detti del Signore” nei vangeli provengono veramente dal Gesù storico. Quei detti e insegnamenti, si dice, quei conflitti con i Farisei, quelle conversazioni con i discepoli, le parabole, ecc., sono così “uniche” e “inimitabili”, si ergono così al di sopra di tutto il resto della letteratura antica, e hanno così manifestato una natura personale, che potevano provenire solo da una personalità, e, in effetti, dal Gesù dei vangeli. Il difetto logico di questa deduzione è ovvio. Nessuno ha mai messo in dubbio che le parole di Gesù nei vangeli abbiano una colorazione completamente personale e individuale, che trasmettano un'impressione di determinate situazioni storiche, e che riflettano i sentimenti e i pensieri di una personale vita interiore. Ma se questa sia stata la vita di un singolo individuo, oppure se un numero di individui in circostanze diverse abbia contribuito ai “detti del Signore” nei vangeli — se quest'unica personalità sia stata il Gesù dei vangeli oppure qualche illustre rabbino — è il grande punto in questione.

Le molte contraddizioni inconciliabili che troviamo nei detti di Gesù suggeriscono piuttosto che diverse persone, non una soltanto, sono dietro di loro. E se realmente essi appartenevano ad un'unica personalità, potevano essere ricondotti a Gesù soltanto nella misura in cui lui ci fosse noto a partire da altre fonti; solamente in tal caso dovremmo avere il diritto di dire che nient'altro che una persona così “unica” come questo Gesù avrebbe potuto pronunciare questi detti “unici”. Ma noi conosciamo questo Gesù e “l'unicità” della sua vita interiore soltanto dalle parole che gli vengono attribuite nei vangeli. Quindi l'argomento cade sempre in un circolo vizioso quando si tenta di provare “l'unicità” di Gesù dalla natura delle sue parole, e la natura “unica” delle sue parole dall'“unicità” del Gesù dei vangeli.

Quei detti sono realmente di una tale natura che devono essere dovuti ad una personalità così straordinaria come Gesù?

Esamina i suoi conflitti con i farisei. Gli evangelisti sono desiderosi di mostrare la superiorità del loro Gesù sui farisei e sugli scribi in certe circostanze particolari e di porla nella luce più chiara possibile. Più e più volte i farisei si avvicinano al Salvatore per metterlo alla prova o per intrappolarlo nelle spire della loro dialettica rabbinica, e più e più volte si ritirano confusi e vergognati dalla chiarezza della sua mente. Eppure in moltissimi casi la maniera in cui Gesù confonde i suoi dotti oppositori è tale che difficilmente conosciamo quale sia la più sorprendente, se la totale infondatezza e insensatezza delle sue risposte, oppure la semplicità dei farisei nell'accettarle.

Così, ad esempio, i discepoli strappano spighe di grano di sabato, e quando i Farisei rimproverano Gesù per questo, risponde: “Non avete letto quello che fece Davide, quando ebbe fame, egli insieme a coloro che erano con lui? Come egli entrò nella casa di Dio e come mangiarono i pani di presentazione che non era lecito mangiare né a lui, né a quelli che erano con lui, ma solamente ai sacerdoti?” (Matteo 12:3). Come se l'azione dei discepoli potesse essere paragonata in qualche modo alla condotta di un esercito affamato, a cui, per giunta, la legge ebraica permetteva persino di cibarsi di cibo impuro! E come se l'offerta di sacrifici nel tempio in giorno di sabato fosse proibita! [6]

In un'altra occasione i sadducei gli pongono la domanda capziosa, a quale marito sarebbe appartenuta dopo la morte una donna che aveva sposato sette fratelli in successione, e Gesù li rimprovera di non conoscere la legge, dal momento che nel mondo a venire le persone non si sarebbero sposate né sarebbero date in matrimonio, ma saranno come gli angeli nei cieli, e aggiunge: “Quanto poi alla resurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è Dio dei morti, ma dei vivi. Udendo ciò, la folla” — osserva l'evangelista — “era sbalordita per la sua dottrina” (Matteo 22:30-33). Perché erano stupiti? Potevano davvero aver presunto che le parole di Gesù fossero una confutazione della visione sadducea secondo cui non esisteva la resurrezione dei morti? Che Dio sia il Dio dei viventi non dimostra che la vita non si estingue alla morte. E quale sia l'obiettivo del riferimento ai patriarchi è impossibile dirlo. Quando, inoltre, Gesù accusa i sadducei di ignoranza della legge, dimentica chiaramente  che proprio secondo la legge la donna non cessa mai di essere la moglie del suo primo marito morto, nonostante i numerosi mariti che lei potrebbe sposare successivamente. [7] Come, allora, avrebbe potuto mettere a tacere i sadducei, o “chiudere la loro bocca”, come dice Lutero, con un'osservazione del genere?

Un'altra volta i farisei gli chiedono, mentre egli insegna nel tempio, con quale autorità lo fa; e Gesù risponde con una domanda sull'origine del battesimo di Giovanni, se proveniva dal cielo o dagli uomini; e quando non osano rispondere — per certe ragioni molto improbabili — risponde, con arroganza: “Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose” (Matteo 21:23), e così elude la loro domanda.

Si suppone che la più grande vittoria di Gesù sui farisei sia stata quando domandò loro di chi fosse figlio il Messia, ed essi dissero, il figlio di Davide. Allora disse loro: “Come mai allora Davide, sotto ispirazione, lo chiama Signore, dicendo: Ha detto il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi [Salmo 110:1] ? Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?” (Matteo 22:43-45). Il vangelo dice che questa risposta confuse  così tanto i farisei che non osavano rispondergli, e non gli fecero più domande da quel giorno. In effetti, la risposta di Gesù contiene una fallacia così ovvia che al massimo potremmo solo capire il comportamento dei Farisei come una riluttanza ad avere qualcosa ancora a che fare con un uomo che ha risposto in questo modo. 

Parlando in generale, i farisei nella descrizione evangelica sono tutt'altro che plausibili. Questi zeloti della legge che chiedono a Gesù una prova della sua missione messianica (Matteo 12:38; 16:1), mentre la legge proibisce loro espressamente di attribuire qualsiasi importanza ai segni e alle meraviglie di un falso profeta (Deuteronomio 13), questi capi della comunità che si lasciano chiamare da Gesù ipocriti, ciechi, serpenti e generazione di vipere, si sottomettono tranquillamente a questi insulti davanti alla folla, si mettono le mani in tasca, ordiscono la distruzione di Gesù, e nel frattempo gli permettono di insegnare nel tempio e nella sinagoga — questi non sono certamente personalità storiche, specialmente quando osserviamo che nessuno di loro è descritto o nominato di persona, laddove il Talmud non omette quasi mai di nominare le persone nella sua memoria delle innumerevoli discussioni dei rabbini con i loro avversari. Abbiamo già visto l'origine di quei farisei che sono messi a tacere da Gesù ad ogni occasione e si lasciano tranquillamente “serrare la bocca” o istruire da lui; provengono dal libro di Giobbe, dove leggiamo nel ventinovesimo capitolo: “I notabili cessavano di parlare e si mettevano la mano sulla bocca; la voce dei capi diventava muta, la lingua si attaccava al loro palato. L'orecchio che mi udiva mi diceva beato......Quando avevo parlato, non replicavano; la mia parola scendeva su di loro come una rugiada. Mi aspettavano come si aspetta la pioggia” — vale a dire, si erano scrupolosamente attenuti in anticipo alle parole di Giobbe, che l'evangelista ha pervertito nel senso che i farisei cercavano di distruggere Gesù, non di essere interiormente rafforzati da lui. In ogni caso, non abbiamo motivo di essere “sorpresi” dal modo in cui Gesù sfugge alle insidie dei suoi nemici. La sua dialettica non è affatto di alto livello, come realizzerà chiunque confronti i conflitti di Gesù e degli scribi e dei farisei con il modo in cui Socrate confonde i suoi avversari nei dialoghi platonici. Non c'è alcun dubbio di sorta sull'“unicità” in questo senso nel caso di Gesù.

(c) Detti di Gesù sui Deboli e gli Umili. — Tra le caratteristiche più raffinate di Gesù dobbiamo collocare, si dice, la sua relazione con gli umili, il suo amore per i bambini, la sua simpatia per gli oggetti meno vistosi in natura. È sicuramente una caratteristica commovente e amabile in un uomo come Gesù chinarsi così amorevolmente verso i più deboli dei deboli, guardare con occhio tenero i fiori del campo e gli uccelli del cielo, per contrapporre la loro indifferenza verso il futuro alla costante preoccupazione dell'uomo per la sua sopravvivenza (Matteo 6:26). Ma che questa caratteristica non sia “unica”, lo apprendiamo dal Talmud, dove leggiamo: “Hai mai visto un uccello o una animale della foresta che deve assicurarsi il cibo con il lavoro? Dio li nutre, e non hanno bisogno di sforzi per ottenere il loro nutrimento. Eppure la bestia ha una mente solo per servire l'uomo. Egli, tuttavia, conosce la sua più alta vocazione — cioè, servire Dio; sarà lui, allora, a preoccuparsi solo dei suoi desideri corporei?” (Kidushin 4, Halach 14). “Hai mai visto un leone che porta un peso, o un cervo che raccoglie i frutti dell'estate, o un lupo che compra olio? Eppure tutte queste creature sono sostenute, sebbene non sappiano curarsi del loro cibo. Ma io, che sono stato creato per servire il mio creatore, devo essere più preoccupato del mio nutrimento”. [8]

Inoltre, si potrebbe sostenere che la descrizione di Isaia del Salvatore come particolarmente simpatizzante per i deboli e i bisognosi sarebbe di per sé sufficiente a “inventare” la simpatia di Gesù per i bambini e a incarnarla nella raffigurazione della sua personalità umana. I bambini erano, come mostra il Talmud, molto amati dagli ebrei, e l'amore per loro è profondamente radicato nella natura ebraica. “Dalla bocca dei bambini e dei lattanti”, dice il salmista (8:2), “hai tratto una forza [lode]; e Gesù ripete questo ai sommi sacerdoti e ai loro seguaci, quando sono indignati per il grido con cui i bambini lo accolgono nel tempio (Matteo 21:15). Nello stesso salmo è detto (4 e 5): “Che cos'è l'uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell'uomo perché te ne prenda cura? Eppure tu l'hai fatto solo di poco inferiore agli angeli, e l'hai coronato di gloria e d'onore”. “Intorno al Messia”, dice il Talmud, “si raduneranno tutti coloro che cercano nella legge, specialmente i piccoli del mondo; poiché dai ragazzi che ancora frequentano la scuola la sua forza sarà aumentata”. [9]

Da quelle parole comprendiamo, anche dal punto di vista mitico-simbolico, il detto: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli” (Matteo 19:14) oppure la scena dove Gesù chiama un bambino, lo pone in mezzo ai discepoli, che hanno domandato chi sia il più grande nel regno dei cieli, e dice: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli” (Matteo 18:2-4). Leggiamo nel Talmud: “Un giovane merita lodi quando diventa [nell'animo] come i bambini” (Tanchuma, fol. 36, col. 4), e “Chiunque si umilia in questa vita per amore della legge, lo stesso sarà annoverato tra i più grandi nel regno dei cieli” (Baha Mezia, fol. 84, col. 2). Non è chiaro, inoltre, se il significato dei passi rilevanti nei vangeli non sia simbolico, e i “bambini” per cui Gesù si preoccupa non siano, come dice W. B. Smith, proseliti al credo in Gesù. Infatti il Talmud parla di coloro che hanno recentemente aderito all'ebraismo come di “bambini”. [10] “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me. Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare” (Matteo 18:5 e 6). Dobbiamo ricordare i molti conflitti tra i primi cristiani, anche nel secondo secolo, sull'opportunità o meno che un pagano che abbracci la fede cristiana debba sottomettersi alla legge ebraica ed essere circonciso o meno, e il disprezzo dei giudeo-cristiani per i cristiani gentili. “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. È venuto infatti il Figlio dell'uomo a salvare ciò che era perduto......Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli” (Matteo 18:10, 14). Questo dovrebbe porre fine a cose così sentimentali del tipo che Weinel sottopone ai suoi lettori a pag. 86 del suo libro, quasi una sorta di importazione indo-germanica nei sentimenti e nelle idee di Gesù, quando dice che Gesù era capace di “sentire la voce di Dio nel cespuglio e nell'albero, nella messe e nel canto degli uccelli, nei fiori che sbocciano e nel gioco dei bambini”.
Gesù dice in Matteo 11:25:
 Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.

Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.

Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.

Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime.

Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero.
Quelle parole sono tra le più belle attribuite a Gesù, ma sono basate su un prestito letterario. Il posto che Gesù attribuisce qui a sé stesso nei confronti di suo padre è appunto la relazione della sapienza con Jahvè nel libro della Sapienza (7:14, 8:3; 17:28). Nel libro di Gesù Siracide è scritto anche: “Acquistate la sapienza senza denaro. Sottoponete il collo al suo giogo, accogliete l'istruzione. Essa è vicina e si può trovare. Vedete con gli occhi che poco mi faticai, e vi trovai per me una grande pace” (51:25). Infatti, la Sapienza stessa fa parlare Siracide così: “Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate,
e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi è più dolce del favo di miele. Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me, avranno ancora sete. Chi mi obbedisce non si vergognerà, chi compie le mie opere non peccherà”
(24:19). L'idea della cena nella quale il sangue del Signore è bevuto e il suo corpo consumato, per purificarsi dal peccato, è percepita in quelle parole. Ma ci rendiamo pienamente conto che quelle parole di Gesù furono davvero prese dalle Scritture e poste sulle labbra di Gesù dall'evangelista quando scopriamo che la prima concezione risale ancora una volta al profeta Isaia, la grande fonte dei vangeli:
“O voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte. 
Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. 
Porgete l'orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò per voi un'alleanza eterna, i favori assicurati a Davide”
(Isaia 55:1-3).
In questo senso Gesù manda via il giovane ricco che non può permettersi di abbandonare le sue ricchezze per amore del regno dei cieli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli......È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Matteo 19:23). Questo, ancora una volta, è un detto familiare dei rabbini, in cui veniva chiesto all'uomo che pretendeva di credere in qualche impossibilità: “Tu sei forse uno della Pombeditha [in Babilonia], che sai far passare un elefante per la cruna d'un ago?” [11] E quando Gesù dice ai discepoli, che chiedono della loro ricompensa per seguirlo: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Matteo 19:29), egli sta semplicemente ripetendo la benedizione di Mosè (Deuteronomio 33:9): “A lui che dice del padre e della madre: Io non li ho visti; che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli......Benedici, Signore, il suo valore e gradisci il lavoro delle sue mani”. “”, continua Gesù. E il Talmud lo supporta, nel dire: “Chi si abbassa, Dio lo esalta; chi si esalta, lui Dio fa abbassare; chi cerca la grandezza, da lui fugge; chi fugge la grandezza, essa lo rincorre” (Erubim, 136, si veda Baba Bathra, fol. 10, col. 3).

(d) La Fede di Gesù in Dio il Padre. — Ma Gesù, ci assicurano i teologi, insegnò una concezione nuova e inaudita di Dio, e particolarmente in questo vi è l'“unicità” e la grandezza insuperabile del suo insegnamento; infatti un tale risultato è possibile solo per un supremo genio religioso — cioè Gesù. Dio come un padre amorevole, in contrasto al Dio irato e severo dell'ebraismo! “Dio e l'anima, l'anima e il suo Dio” — da quando Harnack ha pubblicato il suo Wesen des Christentums il ritornello è riecheggiato in ogni cappella e in tutte le pubblicazioni della scuola teologica evangelica e liberale. Loro danno per scontato, naturalmente, che il “figlio di Dio”, sia che questo sia inteso in senso metafisico o semplicemente in senso metaforico, debba avere avuto una concezione del tutto nuova di Dio, relegando all'ombra tutte le idee precedenti, e si parlano con un'ammirazione estatica della concezione di Dio di Gesù. Eppure l'idea di Dio il Padre è comune a tutte le religioni; ed è un puro pregiudizio teologico dire che, quando un greco pregava a “padre Zeus” o un germano al “Padre degli Dèi Odino”, non c'era alcun sentimento corrispondente nella sua anima, e la sua devozione non era colorata da una fiducia fanciullesca nella bontà, nell'insuperabile sapienza, e nel potere di Dio concepito come un padre. [12] Molto prima del tempo di Gesù l'idea di Dio come il Padre era abbastanza comune tra gli ebrei. Wendt, nel suo System der christlichen Lehre (1906), conta non meno di ventitré brani dell'Antico Testamento in cui Dio è concepito come Padre proprio nello stesso senso che troviamo in Gesù. [13] Isaia esclama, ad esempio (63:16; 64:7): “Tuttavia, tu sei nostro padre......Tu, Signore, tu sei nostro padre, nostro redentore”.

Si potrebbe obiettare che lo Jahvè ebraico sia un Dio severo, che scarica i peccati dei padri sui bambini fino alla terza e quarta generazione (Esodo 24:7). Ma leggiamo anche nell'Antico Testamento: “Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri” (Deuteronomio 24:16); e, d'altra parte, l'idea di Dio come un padre severo e punitore non è estranea a Gesù. E dove troveremo nelle parole di Gesù una espressione su Dio più bella di questa: “Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato” (Esodo 34:6 e 7)? O dove troveremo ringraziamento  più fervente per la paterna bontà e misericordia di Dio se non nel salmista (Salmo 103)? 
Benedici, anima mia, il Signore; e tutto quello ch'è in me, benedica il suo santo nome.

Benedici, anima mia, il Signore e non dimenticare nessuno dei suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe, risana tutte le tue infermità;

salva la tua vita dalla fossa, ti corona di bontà e compassioni;

egli sazia di beni la tua esistenza...

Il Signore è pietoso e clemente, lento all'ira e ricco di bontà.

Egli non contesta in eterno, né serba la sua ira per sempre.

Egli non ci tratta secondo i nostri peccati, e non ci castiga in proporzione alle nostre colpe...

Come un padre è pietoso verso i suoi figli
, così è pietoso il Signore verso quelli che lo temono.

Poiché egli conosce la nostra natura; egli si ricorda che siamo polvere.

I giorni dell'uomo sono come l'erba; egli fiorisce come il fiore dei campi;

se lo raggiunge un colpo di vento esso non esiste più e non si riconosce più il luogo dov'era.

Ma la bontà del Signore è senza fine per quelli che lo temono, e la sua misericordia per i figli dei loro figli.
Per quanto riguarda la relazione di Dio il Padre con l'anima individuale, questo “individualismo religioso”, come viene chiamato, non è peculiare di Gesù o del cristianesimo, ma è una caratteristica fondamentale di tutte le religioni più profonde, e specialmente dei culti misterici. In tutti loro l'individuo cercava di entrare in una diretta relazione personale con la deità, e il sentimento soggettivo della presenza di Dio in loro non era meno forte e profondo che nel caso di Gesù.

In realtà, il Dio di Gesù è semplicemente il Dio dell'Antico Testamento, l'unico Dio di Israele (Marco 12:29), il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (Matteo 22:32). Gesù stesso, come descritto nei vangeli, è così poco consapevole di insegnare qualcosa di nuovo a questo riguardo che non pretende di farlo. Wrede ha distrutto la leggenda teologica secondo cui Gesù aveva insegnato una nuova e più profonda concezione di Dio. [14] Persino Wendt, quando tenta di definire la differenza tra il Dio di Gesù e il Dio dell'ebraismo, deve alla fin fine confessare la verità e ammettere, riguardo all'idea di Dio il Padre: “Gesù non fu il primo a colpire questa nota; fu ascoltata prima del suo tempo sia nel mondo religioso ebraico che in quello greco”. È vero che aggiunge che la fede in Dio il Padre non era mai stata “concepita con tale fiducia e chiarezza, con tale potere ed esclusività, come qui, e mai portata in una relazione così definita con la vita personale” (pag. 25); ma K. Grützmacher le ha definito giustamente “affermazioni che, indipendentemente dalla loro modestia veramente grande come una descrizione di qualcosa di nuovo e di epocale, che il cristianesimo dovrebbe aver introdotto nella storia religiosa dell'umanità, non sono passibili di dimostrazione”. [15]

Il Dio e Padre di Gesù è il Dio comune degli ebrei. “Non cade un solo passero in terra senza il volere del Padre vostro”, dice Gesù in Matteo (10:29); e aggiunge: “Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati”. Abbiamo letto lo stesso nel libro di Giobbe: “Dio non vede forse le mie vie? Non conta tutti i miei passi?” (31:4). “Senza la volontà di Dio nessun uccello cade dal cielo”, dice il Talmud; “quanto meno pericolo può minacciare la vita di un uomo, a meno che il creatore stesso non lo faccia?”. [16] Ed è lo stesso in Pesikta (fol. 18, col. 4): “Non numero tutti i capelli di ogni creatura?” “Nessun uomo si mozza quaggiù il suo dito, a meno che non sia decretato in alto” (Chulin, 7).

Parecchia enfasi è stata posta sul fatto che Gesù non parla di Dio in generale come il padre di tutti gli uomini, ma particolarmente come suo padre. Ma in Marco (8:38; 13:32) Gesù chiama Dio non tanto suo padre quanto il padre del Cristo. È solo in Matteo e in Luca che troviamo quell'intimità e quella familiarità nelle parole di Gesù rispetto alla sua relazione con Dio, e in Giovanni assume una natura completamente mistica. [17] Ma che egli chiama Dio suo padre è, come abbiamo visto, un'espressione presa dal libro della Sapienza, dove i malvagi odiano il “giusto”, perché parla di Dio come “suo padre” (2:16).

(e) Amore dei Vicini e dei Nemici. — Perciò non possiamo trovare nella loro concezione di Dio la caratteristica straordinaria che ci giustificherebbe nell'attribuire le parole dei vangeli ad un uomo così straordinario come Gesù. È presente nelle loro idee etiche?

Secondo Marco (12:29), Gesù risponde allo scriba che gli chiede quale sia il comandamento principale: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.  E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questi”. Le parole si trovano in Deuteronomio 6:4 e Levitico 19:18. Gesù stesso sa bene che in questo non sta esprimendo alcuna nuova idea. Il modo in cui lo scriba concorda con lui dimostra che sta solo esponendo un'opinione comune, e questo è dimostrato anche dal passo parallelo, Luca 10:25, dove Gesù fa citare allo scriba  le parole come un luogo comune della legge. In Matteo 22:40, Gesù aggiunge: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”. Inoltre, leggiamo in Tobia  4:15: “Non fare a nessuno ciò che non piace a te”; e troviamo il detto nella stessa forma negativa nel Talmud: “Un pagano andò da Hillel e gli disse: Mi converto al giudaismo a condizione che tu mi insegni tutta la Torà mentre io sto su un piede solo. Hillel lo accolse nel giudaismo e lo istruì in questo modo: Quello che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri. Questa è tutta la Torà. Il resto è commento. Va' e studia!” [18] Se questo lo si ritiene inferiore rispetto a quello che Gesù richiede, dobbiamo ricordare che la massima è in una forma negativa nelle edizioni più antiche dei vangeli. In questo senso, perciò, l'“amore” che Gesù richiede è semplicemente l'amore del proprio prossimo dell'Antico Testamento.

In Matteo 5:43, tuttavia, è detto: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. Qui l'amore del prossimo sembra essere elevato in un comando ad amare i propri nemici. Weiss è stupito che io abbia “trascurato questo e così molte altre cose” (pag. 166). Avrei dovuto pensare che gli apologeti cristiani sarebbero stati meglio avvisati a non toccare quell'argomento. Se Gesù pronunciò realmente quelle parole, egli tradì una stupefacente ignoranza della legge Mosaica. Dove è scritto che gli ebrei debbano odiare i loro nemici? In Levitico 19:18, dove si prescrive l'amore del proprio prossimo, è espressamente detto: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo” e “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d'un peccato per lui [riprendi pure il tuo prossimo, ma non tirarti addosso alcun peccato per causa sua]”. Non solo verso la loro propria gente, ma anche verso gli stranieri, gli ebrei non devono essere privi di amore: “Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d'Egitto” (Esodo 23:9), e “Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come tu stesso” (Levitico 19:34). Persino l'amore dei nemici è comandato nella legge: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Esodo 23:4 e 5). “Non ti rallegrare”, dice Proverbi (24:17), “per la caduta del tuo nemico e non gioisca il tuo cuore, quando egli soccombe”. “Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere; perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà” (25:21 e 22). In Giobbe è rappresentato come un crimine contro Dio rallegrarsi della sventura del proprio nemico (31:29), e il salmista si vanta di aver salvato uno che era stato il suo nemico senza motivo (7:5). “Non dire: Voglio ricambiare il male”, si legge in Proverbi (20:22); “confida nel Signore ed egli ti libererà”. “Essi maledicono, ma tu benedirai”, dice il salmista (109:28). E Gesù Siracide dice: “Perdona l'offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati” (28:1).

Non solo l'Antico Testamento, ma anche il Talmud è pieno di richieste d'amore per i propri nemici e di esempi di buoni sentimenti nei confronti degli avversari. “Tu non odierai, nemmeno interiormente” (Menachot, 18). “Ama colui che ti punisce” (Derech Erez Sutha, cap. 9). “Com'è possibile per uno che teme Dio odiare un uomo e considerarlo un nemico?” (Pessachim, 113). Un rabbino soleva, prima di andare a letto, perdonare tutti coloro che lo avevano offeso durante il giorno. Un altro, il rabbino Josua, voleva portare il giudizio divino su un eretico che lo tormentava, ma andò a dormire, e quando si svegliò rifletté: Questo sonno era un avvertimento che il giusto non dovrebbe mai invocare la punizione di Dio sui colpevoli (Berachot, 76, anche 10a). “Quando”, dice il Talmud (Sanhedrim, 39b), “gli angeli volevano cantare un canto di gioia perché gli Egiziani erano stati distrutti nel mare, Dio disse loro: Le mie creature sono annegate, e voi cantate?” Infine Giobbe dice (31:13): “Se ho negato i diritti del mio schiavo e della schiava in lite con me, che farei, quando Dio si alzerà?......Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel seno?” 

Il Talmud non limita in alcun modo questo amore dei propri nemici ai membri del proprio popolo. Poiché l'uomo è invitato a pregare Dio per i peccatori (Sohar per Genesi, fol. 67), così Dio dice a Mosè: “Israelita o Gentile, uomo o donna, schiavo o libero, tutti sono uguali per te” (Jalkut, cap. 20b). In conformità a questo, e in accordo con Levitico 19:9, il Talmud li comanda di non impedire che i poveri gentili di cogliere nei campi (Gittin, cap. 5) e rappresenta ripetutamente Abramo l'israelita come modello di tolleranza. La cosa migliore è, tuttavia, che le parole di Gesù, “Benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano”, non si trovano affatto nei manoscritti più antichi dei vangeli, ma sono trovate nel Talmud, dove noi leggiamo: “È meglio soffrire un'ingiustizia che commetterla” (Sanhedrim, fol. 48), e “Sii piuttosto tra i perseguitati che tra i persecutori” (Baba mezia, 93). “Dove nel mondo”, chiede Weiss, “c'è un testo ebraico o una comunità ebraica che abbia mai fatto dell'amore del proprio nemico un precetto fondamentale di convivenza? E ovunque sia stato messo in pratica —  da dove è provenuto l'impulso, che ha ispirato gli uomini a questo? Dal Talmud, o dall'Antico Testamento, oppure dalla figura di colui che sigillò la sua parola sulla croce?” (pag. 165). La risposta si trova in quanto sopra.

È puro pregiudizio teologico e perversione della Storia dire che Gesù è stato “il primo” a predicare l'amore dei nemici, che gli uomini devono al suo esempio soltanto il fatto che l'amore del proprio prossimo sia diventato il principio supremo della condotta morale, come pretende Weinel. Come se gli Stoici non avessero predicato l'amore universale dell'umanità molto prima del tempo di Gesù; non semplicemente come una resistenza passiva, ma come un interesse attivo per la sorte degli altri e una disponibilità disinteressata sulla base della discendenza da un comune Padre divino e da membri di una comune umanità! Come se Gesù non avesse violato il suo stesso comando nella sua condotta verso la donna cananea (Marco 7:27), nel suo rifiuto di permettere ai discepoli di andare a predicare il vangelo ai gentili e ai samaritani (Matteo 10:5), nella sua maledizione dei luoghi che non sarebbero stati convertiti, e nella sua rabbia contro i farisei e gli scribi a causa della loro opposizione a lui! È una vuota frase teologica dire che Gesù “elevò l'ideale altruistico ad un altezza di intimità suprema” e “distrusse in linea di principio le barriere tra popoli e sette”; [19] è tutt'altro che il risultato di una candida indagine religioso-scientifica — è una chiusura risoluta dei propri occhi dinanzi ai fatti esaltare Gesù, dinanzi alle suddette citazioni dell'Antico Testamento e del Talmud, per un merito che non appartiene a lui, ma a loro, e mantenere la finzione che l'amore per i nemici fu reso da Gesù una “regola fondamentale di convivenza” in un senso superiore a quello che troviamo nel resto dell'ebraismo. Finché i teologi continueranno a elogiare le massime morali di Gesù in questo modo a spese dell'etica non cristiana, dobbiamo rifiutarci di considerare imparziali i loro sforzi, a dispetto di quella pretesa di “onorabilità” che ripetono così pietosamente, e per quanto orgogliosamente possano avvolgersi nel mantello della loro infallibilità scientifica. Non mettiamo in discussione il loro onore soggettivo, ma mettiamo in dubbio la loro capacità, nella loro atmosfera di ipnotismo teologico, di osservare le cose come realmente sono. E se essi concedono che il precetto dell'amore per i nemici non ha nulla di particolarmente caratteristico di Gesù, vi è una fine della dimostrazione di “unicità” che era basata su di esso, e la realtà storica del Gesù dei vangeli cade al suolo.

(f) Il Discorso della Montagna. — Un'attenta indagine mostra che i rimanenti precetti morali e le parole edificanti di Gesù non hanno maggior titolo di originalità del comando di amare i propri vicini e nemici. Esamina il Discorso della Montagna, ad esempio, che è mancante in Marco, e certamente non era mai stato consegnato nella forma in cui lo abbiamo; questa collezione della quintessenza dell'insegnamento etico di Gesù è una “semplice raccolta di letteratura ebraica esistente” e non contiene una sola idea che non troveremo altrimenti nella letteratura proverbiale ebraica. Robertson, seguendo Rodriguez (Les origines du Sermon de la Montagne, 1868), ha dato nel suo Christianity and Mythology un'intera serie di paralleli; e dal lavoro del rabbino dottor Emanuel Schreiber, Die Prinzipien des Judentums, verglichen mit denen des Christentums (1877), si vedrà che il numero di coincidenze, non solo con il Talmud, è incalcolabile. [20]

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, Gesù inizia il Discorso; e il salmista (116:6) dice: “Il Signore protegge gli umili: ero misero ed egli mi ha salvato”. “Beati coloro che piangono, perché saranno consolati”, è la frase successiva; e Isaia dice (66:13), “Come una madre consola un figlio così io vi consolerò” a coloro che piangono la perdita della loro patria, e annuncia loro il compimento glorioso delle promesse divine. “Beati i miti perché erediteranno la terra”, è la terza massima; e Isaia dice (57:15): “Io dimoro nel luogo eccelso e santo, ma sto vicino a chi è oppresso e umile di spirito per ravvivare lo spirito degli umili, per ravvivare il cuore degli oppressi”. “L'orgoglio abbassa l'uomo”, dice Proverbi (29:23), “ma chi è umile di spirito ottiene gloria”. “Figlio”, dice Siracide (3:17), “nella tua attività sii modesto, sarai amato dall'uomo gradito a Dio”. Rabbino Jochanan dice: “Quando un uomo ha acquisito la mansuetudine, acquisirà anche onore, ricchezza e sapienza” (Midrash Jalkut Mischle, 22); e il salmista dice (37:11): “Ma gli umili erediteranno la terra e godranno di una gran pace”.

“Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia”, continua Gesù, “perché saranno saziati”. “Chi cammina nella giustizia e parla con lealtà”, dice Isaia (33:15), “costui abiterà in alto”; e il Talmud dice: “Qualsiasi epoca in cui non si trova la dottrina — cioè, in cui una vita retta, conforme alla legge, non è possibile — vive nella fame” (Schemot rabba, cap. 31; si veda anche Salmo 118:19). In Proverbi leggiamo (21:21): “Chi ricerca la giustizia e la bontà troverà vita, giustizia e gloria”. Questo concorda anche in sostanza con la quinta beatitudine: “Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta”. La pietà e la simpatia, anche per gli animali, sono esortate e lodate sia nell'Antico Testamento che nel Talmud. [21] “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, è la sesta beatitudine. “Chi salirà al monte del Signore?”, dice il salmista (24:3), “Chi potrà stare nel suo luogo santo?”. “Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. Ma anche il salmista esclama (34:14): “Cerca la pace e adoperati per essa”. Infatti, la pace è elevata ad una posizione così alta dai talmudisti da chiamare “pace” lo stesso Messia, e Isaia lo ha descritto soprattutto come un portatore e un principe di pace. Infine, l'ottava beatitudine, “Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli”, ha un'eco nel Talmud: “Coloro che sono perseguitati e non perseguitano, che sostengono le ingiurie e le offese e non offendono, sono gli eletti di Dio, di cui è detto: Splendono come il sole” (Schabbeth, 886). Abbiamo già visto, inoltre, che la persecuzione a causa della loro giustizia è un segno dei buoni nel libro della Sapienza e assicura loro il cielo.

Non è necessario entrare in altri dettagli del Discorso della Montagna. Non contiene, come abbiamo detto, niente di nulla al di là della comune etica ebraica, nonostante il disturbo che si son presi gli evangelisti per creare un contrasto artificiale tra l'etica di Gesù e la morale ebraica del tempo, e nonostante lo sforzo dei teologi cristiani per oscurare la vera relazione dell'etica cristiana con l'etica ebraica. Così il divieto di adirarsi contro il proprio fratello (Matteo 5:22) è di Levitico 19:17. [22] La massima secondo cui semplicemente guardare la moglie altrui equivale all'adulterio (Matteo 5:28) è coperta da Giobbe 31:1 e da Siracide 9:5 e 8, e da simili massime severe nel Talmud, come ad esempio: “Chiunque guardi anche il mignolo di una donna ha già violato il matrimonio nel suo cuore” (Bereschit, 24 e 24a). Quando Gesù insiste sulla purezza e sulla bontà del cuore prima che un uomo si avvicini all'altare per offrire il sacrificio (Matteo 5:23), sta semplicemente seguendo Isaia e gli altri profeti che pongono la devozione di cuore al di sopra della devozione esteriore dei sacrifici e delle opere buone. [23] In effetti, sembra che la massima citata, che non si debba resistere al male, ma porgere l'altra guancia al persecutore (Matteo 5:39), possa essere fatta risalire ad Isaia 1:6, e alla descrizione del servo di Dio, che offre il dorso a coloro che lo percuotono e la sua guancia a coloro che gli strappano i capelli. C'è, inoltre, un famoso proverbio ebraico: “Se qualcuno ti chiede l'asino, dagli anche la sella” (Baba kama, 27).

Ancora, l'esortazione quanto a dare l'elemosina, a fare del bene in segreto (Matteo 6:1-4), a pregare e a digiunare (5) e a perdonare le offese (14) è fondata sull'insegnamento ebraico, ed è riecheggiata in massime simili dell'Antico Testamento e del Talmud. Isaia richiede un digiuno interiore, non esteriore (58). Il predicatore invita i suoi lettori a evitare molte parole nel pregare (5:1; si veda anche Siracide 7:14). Quanto alla “Preghiera del Signore”, non solo sono contenute parecchie frasi nell'Antico Testamento [24] e nel Talmud, ma è certo che non era stata pronunciata da Gesù nella sua forma attuale. [25] L'avvertimento contro l'accumulo di tesori terreni e contro i pericoli della ricchezza (Matteo 6:19), e l'esortazione a guardare prima al regno di Dio, sono abbastanza in accordo con i profeti (Siracide 27:1, 31:3; Siracide 5:9, 12). Il detto: “Non giudicate, affinché non siate giudicati” (Matteo 7:1), recita nel Talmud: “Giudica tutti nel modo più favorevole possibile” (Abot, 1:6), e “Non giudicare il tuo prossimo finché non ti metti al suo posto” (Abot, 2:4), e “Con la misura con cui un uomo misura, gli sarà misurato” (Sota, 86). Il detto circa la trave e la pagliuzza (Matteo 7:4) si trova parola per parola nel Talmud (Baba bathra, 15), e recita, sulle labbra del rabbino Nathan: “La colpa da cui non sei libero non addossarla ad altri” (Baba mezia, 59). La frase “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”, corrisponde alle parole del profeta Geremia (29:13): “Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il vostro cuore”, e alla frase “Le porte della preghiera non sono mai chiuse” del Talmud (Sota, 49). Geremia, come Gesù, mette in guardia contro i falsi profeti, ed esorta al vero pentimento e alle buone azioni.

In considerazione di tutto ciò, non si vede perché la gente dovrebbe essere “stupita” dall'insegnamento di Gesù (Matteo 7:28), dal momento che tutti i principi morali che gli evangelisti hanno posto nel cosiddetto Discorso della Montagna erano stati a lungo, come dice Renan, “il piccolo cambiamento delle sinagoghe”. Forse verrà suggerito che i più bei detti di Gesù che si trovano anche nel Talmud sono stati presi da quest'ultimo dai vangeli. Ma al momento della compilazione del Talmud l'odio reciproco tra le due parti era così grande che molto certamente un pio ebreo non avrebbe ammesso nella sua raccolta parole che sapeva essere rappresentate dai cristiani come le “parole di Gesù”. Se fosse fatto inconsapevolmente, mostrerebbe solo quanto fosse lieve fin dall'inizio la differenza tra la moralità ebraica e quella cristiana; e sarebbe difficile evitare la conclusione che i cristiani avevano preso le loro “parole di Gesù” dalla comune sapienza proverbiale degli ebrei.

Naturalmente, era solo la parte miglire della letteratura disponibile che sembrò ai cristiani abbastanza buona da esser posta sulle labbra di Gesù. Naturalmente, stiamo trattando un “ebraismo spiritualizzato e intimo”, una filosofia di vita e della deità che, tra gli ebrei dispersi, era stato permeato dal pensiero e dal sentimento più raffinati dello spirito greco. Chiunque dubiti della possibilità di questo deve rammentare solo la descrizione dell'ebraismo nelle pagine degli stessi vangeli, e prendere per storico il fatto che l'ebraismo fosse ai tempi di Gesù altrettanto fossilizzato e svuotato come viene descritto nei vangeli. Tale assunzione è una pura petitio principii, e va contro l'esperienza familiare del fatto che, quando i capi religiosi di un popolo cadono nel formalismo, la corrente della vita religiosa interiore scorre liberamente in altri canali, e potrebbe produrre nuovi e notevoli fenomeni. Ricorda gli antichi mistici al tempo degli scolastici del Medioevo, oppure i pietisti durante il predominio del razionalismo teologico più arido.

Di solito è tra i laici, tra le sette segrete e le conventicole, che la vita religiosa pulsa tanto più energicamente e diventa tanto più profonda in proporzione al formalismo della religione ufficiale. Certamente, in contrasto allo spirito dei farisei e degli scribi all'inizio circa del secondo secolo, è uno “spirito nuovo” che vive nella setta di Gesù e trova espressione nelle parole e nelle idee che Gesù avrebbe dovuto pronunciare. Ma non è uno spirito nuovo in senso creativo, dal momento che tutto ciò che contiene di valore morale è stato derivato dal grande repertorio della sapienza proverbiale ebraica, non prodotto da sé stesso. Sono gli ideali di uomini che, nessuno sa quanto tempo prima, avevano meditato sugli scritti dei profeti, specialmente Isaia, avevano acceso il fuoco del mondo religioso interiore tramite la devozione chiara e penetrante dei salmi e dei proverbi, avevano assorbito il loro spirito e non avevano mai cessato di rimanere in continuo contatto con l'“imperituro nelle Scritture”. Non avrebbero potuto, è vero, aver trapiantato quei fiori più raffinati dell'ebraismo nel loro giardino se non fossero stati personalmente disposti a questa intimità religiosa. Ma che un'unica singola personalità abbia dato loro questo spirito, come dicono i teologi, è proprio altrettanto superfluo da supporre come lo è in casi simili l'ascesa di un fervore pietistico e mistico tra i laici a margine della dottrina ufficiale della setta. Quei primi cristiani non dovevano cercare le perle — il vero e l'eterno — nel deserto della conoscenza ufficiale della legge, poiché non vi avevano mai espressamente guardato per loro. E quando si dice che solo un genio religioso del tutto eccezionale come Gesù avrebbe potuto fare questo, si dimentica che le parole di Gesù che sono giunte fino a noi non furono selezionate da lui, ma dagli evangelisti, per via di tradizione; dal momento che esse rappresentano certamente solo una parte insignificante di ciò che Gesù avrebbe potuto insegnare.

Così la caduta di Gerusalemme, il crollo delle condizioni politiche e nazionali della religione ebraica, il sempre più aspro antagonismo della devozione legalistica dei farisei con i settari cristiani, e la loro concezione interiore della fede ebraica, sono del tutto sufficienti a spiegare non solo l'esplosione della speranza messianica tra di loro, ma perché i cristiani proprio in questo momento — un tempo di profonda umiliazione e difficoltà - annunciarono che il Messia stava arrivando immediatamente, e rivolsero tutti i loro sforzi ad una preparazione per la sua venuta. Tutte le elevate massime e promesse morali su cui la comunità aveva a lungo meditato, e che forse i suoi membri avrebbero potuto riunire in una collezione di cosiddetti “Detti del Signore”, ora affiorate sulle labbra dei cristiani, in contrasto alla giustizia ufficiale legalistica, presero la forma di detti dello stesso Messia atteso, di avvertimenti, di consolazioni e di promesse date durante la sua vita terrena, che essi consideravano una condizione della sua venuta ulteriore nello splendore in qualità del Messia; e mentre la vaga immagine del servo isaiano di Dio e Salvatore che viveva nei loro cuori, forse alimentata da esperienze visionarie, assunse la forma e i tratti di un Gesù storico, la parola e l'immagine si fusero involontariamente, non coscientemente, nelle loro infiammate fantasie in un'inseparabile unità, proprio come le sette religiose sono abituate a considerare le più profonde e importanti delle loro regole e delle loro pratiche rivelazioni della deità o del loro presunto fondatore.

(g) Ulteriori Passi Paralleli. — Così vediamo che dalle parole di Gesù non si può trarre alcuna dimostrazione della sua storicità; anzi, perfino Weiss ammette che è “possibile” che “non una sola parola di Gesù sia stata preservata, e che ogni cosa sia stata posta sulle sue labbra” (pag. 168). Pensiamo di essere del tutto giustificati nell'assumere questo quando scopriamo che sarebbe difficile citare una singola espressione di Gesù che non si possa prendere dal Talmud o dall'Antico Testamento. A quali dettagli perfino apparentemente piccoli questo si estende lo si vede in Matteo 8:22: “Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. Questo corrisponde al comando nel Talmud di rimandare la sepoltura del corpo di un parente alla lettura della legge (Megillah, fol. 3). In effetti, la peculiare espressione di Gesù può essere compresa solo quando apprendiamo che la vita senza dio è detta nel Talmud “morta” (Jalkut Rubeni, fol. 177, col. 3). Perfino un detto come quello di Matteo 10:40-42, e di Luca 10:16, si trova nel Talmud: “Colui che porta il suo vicino a casa sua ha la stessa ricompensa come se la Schechinà stessa [lo spirito divino] sia entrata a casa sua” (Shir hashirim rabba, fol. 13, col. 3). “Colui che nutre uno erudito nelle cose divine sarà benedetto da Dio e dagli uomini” (Sohar per Gen., 129, col. 512). “Se prestate ascolto al mio angelo, è come se mi aveste ascoltato” (Schemoth rabba Abschn., 32, fol. 131, col. 3). “Se onorerai i miei comandamenti, onorerai me; se li disprezzi, disprezzi me in loro” (Tanchuma, fol. 16, col. 3).

Esamina un detto come quello di Matteo 10:35: “Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera”, e confrontalo con Michea 7:6: “Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera e i nemici dell'uomo sono quelli di casa sua”. L'esortazione di Gesù sul metodo di riconciliazione con un fratello che ha offeso (Matteo 18:15-17) corrisponde alla procedura raccomandata da Joma (fol. 87, col. 1), sennonché in un caso è l'offeso, e nell'altro chi offende, a dover agire. Matteo 18:20 — “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”  — recita nel Talmud: “Dove ci sono due persone, e non fanno della legge il soggetto del loro discorso, è il posto dello schernitore [Salmo 1:1]; ma dove la legge è oggetto di discorso, c'è anche la Schechinà” — ossia, lo spirito di Dio (Pirke Aboth, col. 3). Gesù dice in Luca 10:18: “Io vedevo Satana cadere dal cielo come folgore”. In Isaia è parimenti detto di Babilonia: “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore di popoli?” (14:12), e il contesto chiarisce con quanta facilità le parole si potrebbero applicare a Satana.

Abbiamo dimostrato in precedenza come il Talmud concorda sulla storia della moneta delle tasse e sulla risposta di Gesù alla domanda dei farisei, se fosse lecito prestare tributo a Cesare o meno. La storia dell'unzione di Gesù a Betania è evidentemente derivata dal Salmo 23:5 (“Per me tu imbandisci la tavola, sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo; la mia coppa trabocca”), e da Deuteronomio 15:11 (“Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese”). La scena nel giardino del Getsemani è provocata da Genesi 23:3 e 5, dove Abramo porta con sé suo figlio Isacco e due servi, e li invita ad aspettare e a pregare mentre lui va con Isacco a sacrificare il ragazzo. C'è anche un riferimento alla storia di Eliseo, quando si addormenta sotto un cespuglio mentre fugge da Acab, ed è due volte risvegliato da un angelo, che gli dà un pezzo di pane e un recipiente d'acqua, e lo esorta a rafforzarsi per il viaggio. È significativo che troviamo qui le parole che si presentano nei vangeli: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita” (Marco 14:36 e 41). Poi c'è la frase: “La mia anima è triste fino alla morte”. “Perché ti abbatti, anima mia, perché gemi dentro di me? Spera in Dio, perché io lo celebrerò ancora per la liberazione della sua presenza”; recita così il Salmo 42:5, in accordo con Marco 14:34. E i versi 35 e 36 suggeriscono Siracide (23:1 e 4): “Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi al loro volere, non lasciarmi cadere a causa loro [i miei peccati]......non mettermi in balìa di sguardi sfrontati”.

NOTE

[1] Völkerpsychologie, II, 3, 528.

[2] Proprio come nella collezione di detti si ipotizza che ci sia scritto, “Gesù ha detto”, ecc., così nei profeti troviamo le parole di Jahvè introdotte da “Oracolo di Jahvè”, “Così dice Jahvè”, ecc. Abbiamo già visto che Gesù è forse solo un altro nome per Jahvè.

[3] Se questo è vero, come mai un tale dettaglio importante come la Preghiera del Signore ci sia stato preservato in queste varie forme? Nessuno sa esattamente quali parole Gesù utilizzò in questa preghiera. Secondo Harnack, la versione più antica : “Padre, il pane per domani dacci oggi, e perdonaci i nostri peccati come noi perdoniamo agli altri, e non ci indurre in tentazione”. Sitzungenbreicht der Preussichen Akademie der Wissenschaften, 1904, Bd. V. Si veda Steudel in Berliner Religionsgespräch, “Hat Jesus gelebt?” 1910, 59 ss.

[4] Così leggiamo in Clemente (46:8) il detto di Gesù: “Guai a quell'uomo...Meglio sarebbe per quell'uomo se non fosse mai nato” (Matteo 26:24), ma senza un riferimento a Gesù. Ancora, in 49:1, troviamo un inno all'amore che si avvicina molto a 1 Corinzi 13:1, sebbene Paolo non sia menzionato. Leggiamo in 1 Clemente 13:1: “Ricordiamoci soprattutto delle parole che il Signore Gesù disse insegnandoci la benevolenza e la magnanimità. Così disse: Siate misericordiosi per ottenere misericordia; perdonate per essere perdonati; come farete agli altri, così sarà fatto a voi; come date, così sarà dato a voi; come giudicate, così sarete giudicati; la bontà che usate, sarà usata; la misura con la quale misurate, sarà di misura per voi (Matteo 7:1; Luca 6:36-38; Matteo 5:7, e 6:14; Luca 6:31). Rafforziamoci in questo comandamento e in questi precetti, per procedere umili ed ubbidienti alle sue sante parole”. Ma leggiamo anche in una occasione: “Dice la sua santa parola: A chi rivolgerò lo sguardo se non al mite, al pacifico e a chi teme le mie parole?” — una citazione da Isaia (66:2). In L'Insegnamento degli Apostoli (1:2) la dottrina delle due vie è sviluppata, ed è citata pure nell'Epistola di Barnaba (18:1); e troviamo parole che riecheggiano il Discorso della Montagna, sebbene Gesù non sia menzionato come loro autore, e non sia dato un indizio che non si tratti di comuni detti ebraici, come suggerisce la citazione dei dodici comandamenti Mosaici.
 
[5] Atti 2:14; 3:12; 7:2; 8:5 e 32; 18:24. 

[6] Si veda il Trattato Schabboth, fol. 17, col. 1: “Le operazioni implicate nell'offerta dei sacrifici non sono considerate come lavoro — cioè come infrazione del Sabato”. Si veda anche Rosh Hashana, fol. 21, col. 2, ecc.

[7] K. Lippe, opera citata, pag. 228.

[8] Si veda anche Salmo 136:25; 147:9.

[9] Sohar per Esodo, fol. 4, col. 13.

[10] Jebamoth 22a, 48b, 976; Necharoth 47a. 

[11] Baha mezia, fol. 38, col. 2; si veda anche Bereschit, fol. 55, col. 2. Abbiamo osservato in precedenza come la storia del giovane ricco sia considerata da Schmiedel uno dei “pilastri di una vita realmente scientifica di Gesù”, perchè contiene la sconfessione dell'epiteto “buono” da parte di Gesù. Ma, come ha mostrato Smith nel suo Ecce Deus, vi è menzione solo di una parabola. Il giovane ricco è un simbolo dell'ebraismo, che deve rinunciare alla sua proprietà — le sue prerogative e i suoi pregiudizi — e condividerle con i gentili, e “se ne andò afflitto” perchè non ha il coraggio di fare così. Le parole, “Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto” (Marco 10:22) sono, come ha mostrato Smith, sorprendentemente basate sulle parole di Isaia 57:17, dove la traduzione greca dice di Israele: “E fu addolorato, e se ne andò tristemente”. Non potrebbe essere l'intera storia una parafrasi delle parole di Isaia? 

[12] Si veda A. Dieterich, Mithrasliturgie (1903), pag. 141.

[13] Si veda Esodo 34:6; Deuteronomio 8:5; 32:6; Siracide 23:1; Salmo 103; Sapienza 2:16, ecc. 

[14] Paulus, pag. 91.

[15] Gegen den religiosen Ruckschritt (1910), pag. 4.

[16] Bereschit rabba, 79, fol. 77, col. 4.

[17] Ernest Havet, Le Christianisme et ses origines (1884), IV, pag. 37.

[18] Trattato Schabboth, 31a.

[19] “Gesù non ha affatto “scoperto” l'altruismo nell'etica. I moralisti ellenistici esortavano all'altruismo molto tempo prima della nascita di Gesù. Se l'etica di Gesù sembra particolarmente altruistica, questo è dovuto, a parte la suggestione teologica, al fatto che le massime altruistiche di Gesù potrebbero sembrare meno restrittive e più impressionanti che nel caso dei greci, perché la capacità scientifica, e perciò il controllo scientifico di una nuova etica, era più esile nel caso degli ebrei e di Gesù che tra i greci e i loro pensatori prominenti” (Schneider, pag. 476). Potremmo aggiungere il fatto che, quando la cultura religiosa e la Chiesa fanno tutto ciò che possono per imprimere sulla gente questa visione falsa dell'etica di Gesù, non si basano soltanto sull'assenza di pensiero delle masse, ma sul fatto che davvero pochi sanno qualcosa circa la filosofia e la religione greca o indù. 

[20] Si veda anche Nork, Rabbinische Quellen und Parallelen zu neutestamentl. Schriftstellen (1839); T. Eschelbacher, Das Judentum und das Wesen des Christentums, 1908.

[21] Deuteronomio 25:4; 22:6 e 10.

[22] Si veda anche Genesi 49:7; Proverbi 12:16, e 14:16.

[23] Isaia 1:11; Geremia 6:20; 7:22; Osea 6:6; Amos 5:22; Michea 6:6; Malachia 1:10; Siracide 7:9, ecc. 

[24] Si veda, per esempio, Siracide 28:2.

[25] Si veda Robertson, pag. 450, e la nota di cui sopra concernente la Preghiera del Signore. Mi è  abbastanza incomprensibile come, a fronte di questo chiaro fatto, un rabbino ebreo come Klein possa dire: “Gli studiosi dell'evoluzione della religione non hano ancora fatto alcun tentativo per esporre paralleli a questa preghiera unica (!). Si tratta della cosa più personale che possediamo di Gesù” (pag. 34).

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