giovedì 28 marzo 2019

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsLe Fonti dei Vangeli

Il Problema dell'Autenticità.

 LA TESTIMONIANZA DEI VANGELI

Il valore probatorio degli scrittori profani e delle epistole paoline rispetto all'esistenza di un Gesù storico si è dimostrato illusorio. L'autenticità delle epistole paoline non è affatto stabilita. Anche se fossero state scritte davvero dall'apostolo negli anni cinquanta e sessanta del primo secolo, non avrebbero dato testimonianza allo storico essere umano Gesù. Il fatto che l'apostolo abbia in mente una tale persona, e non un essere celeste, un Gesù dio-salvatore, che è diventato uomo, non può essere dedotto dalle epistole, ma è letto in loro, cosicché l'esistenza di un Gesù storico è semplicemente assunta. Ora, questa assunzione è basata sui vangeli e, pertanto, le epistole paoline non possono a loro volta servire a provare l'esistenza del Gesù dei vangeli.

Non c'è altra fonte del credo in un Gesù storico, se non i vangeli. La credibilità dei documenti storici del cristianesimo non trova alcun sostegno al di fuori di loro stessi. Per uno storico quella è una situazione deplorevole. Perfino Weiss sente di dover offrire qualche scusa nel citare i vangeli come testimoni, siccome gli scettici potrebbero obiettare che un testimone difficilmente può testimoniare a suo proprio favore. Lui si consola indicando la grandezza e la bellezza dei vangeli come qualche assicurazione della loro verità, dimenticando che la verità soltanto rivendica sé stessa, e non i suoi autori. Per quanto possiamo stimare il contenuto dei vangeli, questo apprezzamento non getta la minima luce sulla storicità delle dichiarazioni fatte in loro. Per quanto molto la figura di Gesù, come è introdotta negli atti e nelle parole della narrazione evangelica, possa muovere e ammaliare i sentimenti del lettore, non si può concludere da quei sentimenti che una personalità storica fosse il modello del personaggio. Altrimenti dovremmo descrivere gli eroi di Omero, l'Amleto di Shakespeare e il Faust di Goethe come personalità storiche perché sono rappresentati in modo così vivido, e fanno una così “forte impressione” sulle anime sensibili. Il tentativo di provare la storicità di Gesù è senza speranza se non ci sono a suo favore altre fonti storiche oltre ai vangeli, perfino se la tradizione evangelica sia così vicina ai fatti storici da poter avere a che fare con reminiscenze storiche. Osserviamo, perciò, quanto sia importante per coloro che mantengono la storicità di Gesù avere altri testimoni oltre ai vangeli, e comprendiamo i frenetici sforzi dei teologi “storici” per trattenere le prove di storici profani e di Paolo, per quanto siano sottili e discutibili. L'importanza dell'inchiesta sui documenti evangelici è impostata così nella sua vera luce. Non si tratta semplicemente del problema di stabilire nei dettagli la credibilità storica delle narrazioni evangeliche, ma di assicurare in generale un fermo terreno storico in cui poter ancorare la tradizione. Ricavare qualche assicurazione della natura storica dei vangeli è una materia di vita e di morte per la fede storica del cristiano. Da qui accade che ogni appiglio venga accolto con entusiasmo, e in questa materia gli “storici” teologici tradiscono una soddisfazione e una liberalità che non sarebbero tollerate in nessun ramo della Storia profana.

1. LE FONTI DEI VANGELI 

Un tale appiglio, riguardo al credo nella storicità dei vangeli, è la testimonianza spesso citata di Papia. È, com'è noto, uno dei risultati “più sicuri” (sebbene affatto indiscussa) della discussione moderna della vita di Gesù il fatto che il vangelo di Marco sia il più antico dei quattro sopravvissuti. In confronto agli altri vangeli, mostra “la massima freschezza” e “vividezza”, il “carattere pittoresco” più impressionante, e una tale abbondanza di dettagli banali che dà l'impressione di “suggerire direttamente la narrazione di un testimone oculare”. È, quindi, una felice coincidenza, ci assicurano i teologi, [1] che Papia, vescovo di Ierapoli intorno all'anno 150, faccia una dichiarazione su Marco, l'autore del vangelo, che concorda mirabilmente con quell'impressione. Dice: “Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che egli ricordava delle parole e delle azioni di Cristo; poiché egli non aveva udito il Signore, né aveva vissuto con Lui, ma, più tardi, come dicevo, era stato compagno di Pietro. E Pietro impartiva i suoi insegnamenti secondo l’opportunità, senza l’intenzione di fare un’esposizione ordinata dei detti del Signore. Cosicché non ebbe nessuna colpa Marco, scrivendo alcune cose così come gli venivano a mente, preoccupato solo d’una cosa, di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire alcuna menzogna a riguardo di ciò”.

In questa maniera l'origine del vangelo più antico sembra risalire molto vicino al tempo di Gesù, e la sua natura storica sembra essere accreditata. Il solo interrogativo è fino a che punto possiamo fare affidamento sulla dichiarazione del Vescovo di Ierapoli. Ora Papia fa appello al sacerdote Giovanni [Presbitero Giovanni] come sua autorità. Chi è il sacerdote Giovanni e da dove ha ricavato la sua conoscenza? Secondo Girolamo e Ireneo, era identico a Giovanni l'evangelista. Lo stesso Papia, tuttavia, lo nega quando ci assicura che lui stesso non ha mai visto né sentito i santi apostoli, ma doveva la sua conoscenza ai loro amici, gli anziani. Quindi Papia ricevette le sue informazioni sull'origine del vangelo da Giovanni, Giovanni da Marco, e Marco ricevette le sue informazioni su Gesù da Pietro, che a sua volta disse solo ciò che sapeva di Gesù. Vedendo che, inoltre, gli scritti di Papia sono andati perduti, e che sappiamo di lui solo da Eusebio (del quarto secolo), quella è chiaramente una prova troppo complicata per meritare un'accettazione senza riserve. Inoltre, non apprendiamo da Papia se Pietro abbia raccolto dalla sua esperienza personale di Gesù ciò che egli comunicò a Marco, oppure, se non lo ha fatto, da dove questo testimone originale abbia derivato la sua conoscenza del Salvatore. Dalle parole di Papia non risulta che Pietro fosse un discepolo personale di Gesù, per quanto enfaticamente Eusebio possa considerarlo tale, e per quanto Papia possa averlo pensato. Il buon vescovo non era affatto il tipo di uomo in possesso di un'idea chiara di una cosa del genere. Secondo Eusebio e Ireneo, era proprio “di mente limitata”, e le altre cose che raccoglieva dagli anziani nella forma di parabole e di insegnamenti di Gesù e di atti degli apostoli, pur di avere quante più informazioni possibili su Gesù e i suoi seguaci, sono così discutibili e miracolose che persino Eusebio è obbligato a relegarle nella provincia della favola. [2]

C'è un'altra materia che apprendiamo riguardo al vescovo da Eusebio (2:15), e anche questo dovrebbe aiutare a dimostrare la connessione del vangelo di Marco con il Gesù storico. Papia dice che, quando Pietro giunse a Roma e sconfisse il mago Simone nel loro conflitto, i suoi ascoltatori si rivolsero a Marco, che accompagnò Pietro, nel loro zelo per il vangelo, e lo implorarono di lasciare loro un memoriale scritto dell'insegnamento che era stato oralmente consegnato a loro, ed egli lo fece. L'apostolo, dice, apprese questo da una rivelazione dello Spirito Santo (!), gioì del loro zelo, e impartì che lo scritto dovesse essere utilizzato nelle chiese. “Perché”, domanda Lublinsky, “Pietro dovette apprendere dallo Spirito Santo il fatto che il suo costante compagno aveva scritto un vangelo, invece che dallo stesso Marco, il quale avrebbe dovuto prima chiedere al suo maestro di esaminare un'opera così sacra e importante? Inoltre, sarebbe impossibile per l'apostolo confermare e raccomandare un'opera che non fu scritta nel giusto ordine della vita del Salvatore. Tale noncuranza è ancora più difficile da credere quando riflettiamo sul fatto che è detto che gli ebrei avevano già assunto un atteggiamento di ostilità nei confronti dei cristiani, e certamente avrebbero denunciato di colpo ogni falsità o inesattezza da parte cristiana. Erano vivi ancora fin troppi testimoni degli eventi perché chiunque osasse correggere la materia persino di poco” (pag. 62).

C'è, infatti, molto da dire a proposito della congettura di Lublinski sul fatto che ci sia menzione di un vangelo appartenente alla prima metà del secondo secolo, a cui si cercò di dare un certo prestigio canonico facendolo risalire a Pietro e allo Spirito Santo, e sul fatto che la storia dell'attività pedagogica di Pietro fosse stata inventata per coprire la disconnessione del suo materiale. Farlo risalire direttamente all'apostolo, come il primo vangelo fu attribuito a Matteo e il quarto a Giovanni, era impossibile per qualche ragione. Era, perciò, attribuito al nome di Marco, di cui era detto nella cosiddetta prima epistola di Pietro: “La chiesa che è in Babilonia eletta come voi, vi saluta; e così fa Marco, il mio figlio”, proprio come il terzo era ascritto al medico Luca, e quindi messo in relazione con l'apostolo Paolo. [3]

In ogni caso, è impossibile provare la connessione dei vangeli con il Gesù storico da quei due riferimenti di Papia, come sono conservati da Eusebio. Perfino se l'informazione in Papia fosse meglio accreditata di quanto sia, la sua dichiarazione non è dovuta sorgere indipendentemente dalla natura letteraria del vangelo di Marco. È detta concordare perfettamente con quella natura. Ma non sappiamo se il vangelo non fosse stato attribuito precisamente a Marco, e connesso così a Pietro, perché al momento della sua apparizione questa natura accidentalmente concordante del vangelo impressionò i suoi lettori, se non era stato espressamente scritto nel senso petrino.

Oltre al riferimento all'origine del vangelo di Marco, abbiamo in Eusebio anche uno all'origine del vangelo di Matteo; un riferimento a cui la teologia storica attribuisce la massima importanza e di cui l'autore è ancora Papia. “Matteo”, ha detto, “scrisse i detti del Signore in lingua ebraica; e ciascuno poi li interpretava come poteva” (3:40). I teologi presumono di colpo che questi “detti del Signore” siano detti del Gesù storico; ed è possibile che Papia intendesse questo, anche se non menziona il nome Gesù, e abbiamo nella letteratura cristiana antica (come l'Insegnamento dei Dodici Apostoli e l'epistola di Giacomo) parole del Signore che non sono citate come parole di Gesù, ma sono chiaramente detti di precedenti maestri profetici, i cosiddetti apostoli. L'espressione “detti del Signore” spesso significa i detti di importanti personalità religiose che erano attribuiti alla diretta influenza dello Spirito Santo; persino le citazioni dell'Antico Testamento sono chiamate “parole del Signore”, cioè, del Dio di Israele. [4] Inoltre, l'identità del Matteo che a detta di Papia ha scritto le parole del Signore con l'evangelista Matteo non è certa, poiché quest'ultimo attingeva da fonti greche, e il pubblicano che Gesù chiama (Marco 2:14) e in cui dovremmo identificare l'autore del vangelo, non si chiamava Matteo, ma Levi, figlio di Alfeo, e sembra non essere stato identificato con l'apostolo Matteo fino a un periodo successivo. [5] Questo è ciò che i teologi definiscono “una tradizione solida”! Non possiamo evitare il sospetto che quei presunti detti di Gesù, le “parole del Signore” di Papia, che si dice Matteo abbia raccolto, non erano le parole di un singolo individuo specifico o di un Gesù storico, ma erano semplicemente poste sulle sue labbra in seguito. [6] In tal caso, questo secondo passo di Papia riferito a Matteo è altrettanto incapace di mostrare una connessione storica dei vangeli con la vita di un Gesù storico. Non ne apprendiamo nulla se non che c'erano “parole del Signore” nel secondo secolo in numerose versioni differenti e che queste differenze erano spiegate dal fatto che fossero dovute a traduzioni diverse di una fonte comune, l'autore della quale era ritenuto essere stato un certo Matteo, il cui nome figurava tra i cosiddetti discepoli di Gesù.

È su questa “solida tradizione” che i teologi critici moderni basano la loro ipotesi delle due fonti. Essa suppone che il vangelo di Marco, o una sua precedente versione, il cosiddetto “Marco Primitivo”, sia una fonte dei nostri tre vangeli sinottici; descrive le azioni di Gesù. L'altra fonte è la fonte dei discorsi o dei detti, il documento che Papia attribuisce a Matteo, il cosiddetto “Matteo Primitivo”. I nostri attuali Matteo e Luca hanno preso indipendentemente il loro resoconto delle azioni di Gesù dal vangelo primitivo di Marco, e hanno preso le parole di Gesù dall'altra fonte, e combinato le due fonti. Ognuna di loro, tuttavia, ha la sua “proprietà privata”, qualcosa che non si trova nelle fonte di detti o nel Marco primitivo, ma si deve probabilmente alla tradizione orale. Nell'elaborare questa ipotesi i teologi differiscono considerevolmente l'uno dall'altro. Alcuni dicono che c'erano storie della vita di Gesù anche nel Matteo primitivo e discorsi di Gesù nel Marco primitivo. Altri pensano che oltre ai Matteo e Marco primitivi ci fosse una forma primitiva di Luca; secondo Arnold Meyer, questa potrebbe essere stata più antica del Marco attuale, e aver contenuto, oltre alle storie della nascita e dell'infanzia di Gesù, le parabole e le storie che tendevano a glorificare la povertà e a svalutare la ricchezza. Otteniamo così un “Vangelo Ebionita” o un vangelo “dei Poveri”, che si ritiene sia stato usato particolarmente da Luca. Recentemente, se possiamo interpretare così un passo in Weiss (pag. 155), il vangelo di Giovanni, che è stato quasi completamente escluso dalla discussione sulle fonti della vita di Gesù per più di mezzo secolo, sembra far ritorno al gruppo delle fonti. Sarebbe un altro esempio del fatto che “tutto quanto tornerà ad accadere”, come ha detto Nietzsche. Il gioco di combinare le varie possibilità sembra essere una parte essenziale della discussione teologica delle fonti. In tutti i casi, il continuo lavoro dei teologi ha complicato così tanto il problema delle fonti della vita di Gesù che è quasi impossibile parlare ancora di un'“ipotesi delle due fonti”, e parlarne liberamente.

Qualunque cosa si possa dire dal punto di vista filologico quanto al valore dell'ipotesi delle due fonti, di cui i teologi critici tedeschi sono così orgogliosi, essa non ha alcun valore, come hanno dimostrato le considerazioni precedenti, nella misura in cui è interessata la storicità di Gesù. Non ne avrebbe nemmeno se i contenuti esatti delle fonti ci fossero noti, come sembra pensare Weinel, e se la ricostruzione delle fonti nella traduzione tedesca di Harnack, che non è in alcun modo generalmente ammessa, fosse qualcosa di più di un semplice tentativo ipotetico, e se le analisi corrispondenti di Wernle non fossero congetture velate e incerte. Non importa fin quanto il metodo dei teologi storici sarà migliorato in futuro, esso non può fare di più. Che nei vangeli abbiamo davvero a che fare con la “tradizione di una personalità” — precisamente, il Gesù storico — non può essere mostrato nemmeno dalla più acuta critica filologica e dalla più perfetta padronanza dell'apparato tecnico. Il tentativo dei teologi storici di raggiungere il nucleo storico dei vangeli con mezzi puramente filologici è senza speranza, e deve rimanere senza speranza, perché la tradizione evangelica fluttua nell'aria; la fede nel suo valore storico non è confermata da una singola testimonianza esterna che possieda la minima pretesa di fiducia.

NOTE

[1] Wernle, Die synoptische Frage, 1899, pag. 204.

[2] Storia Ecclesiastica 3:40.

[3] Si veda Gfrörer, Die heilige Sage, I, 3-23, 1838; anche Lützelberger, Die kirkliche Tradition über den Apostel Johannes, 1842, pag. 76-93.

[4] Matteo 10:20; Marco 13:11. Confronta anche Apocalisse 19:10: “La testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia”.

[5] Wernle, opera citata, pag. 229.

[6] Steudel, Wir Gelehrten vom Fach! pag. 37; Im Kampf um die Christusmythe, pag. 56. 

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