mercoledì 27 marzo 2019

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsIl Problema dell'Autenticità.

Paolo non un Testimone della Storicità di Gesù.

3. IL PROBLEMA DELL'AUTENTICITÀ. 

Il Cristo paolino è un principio metafisico, e la sua incarnazione è solo un'idea, un elemento immaginario del suo sistema religioso. L'uomo Gesù è in Paolo l'idealizzato servo sofferente di Dio di Isaia e il giusto della Sapienza, uno stadio intermedio di evoluzione metafisica, non una personalità storica. Quando ammettiamo questo, eliminiamo l'ostacolo principale che finora ha impedito ai teologi di studiare seriamente il problema della falsità delle epistole paoline. Ciò che hanno detto sull'argomento fino ad oggi mostra tutto fuorché un'indagine priva di pregiudizi in merito. La teologia storica ha bisogno di autentiche epistole paoline, per basare su di esse la sua fede in un Gesù storico, e perciò esse non devono essere false. Ma come faranno a dimostrare che sono autentiche? Non ci sono testimonianze non cristiane. Il silenzio di Filone e di Flavio Giuseppe intorno ad un apostolo che si suppone abbia gettato gli ebrei in scompiglio per tutta la terra (Atti 24:5), che sia stato perseguitato da loro con l'odio più acuto, e che sia stato trascinato in tribunale più di una volta, coinvolgendo le più alte autorità ebraiche e romane, non è stato ancora spiegato dai nostri avversari. Che dire delle testimonianze cristiane? Ce ne sono “abbastanza di loro”, dice J. Weiss. Sfortunatamente, ciò che i teologi avanzano —, come la lettera di Clemente ai Corinzi, su cui si affida Weiss — è stato a lungo dimostrato inaffidabile dagli olandesi, specialmente da Loman, [1] Van Manen e Steck. [2] Non c'è alcuna prova dell'esistenza delle epistole paoline prima di Giustino, e rimane una questione aperta se Giustino avesse qualche conoscenza di tali epistole. Papia a sua volta tace sulle epistole di Paolo, anche nel punto dove sarebbe stato costretto a menzionarle se le avesse conosciute. [3] È anche materia di riflessione il fatto che già nel secondo secolo esistevano sette eretiche, come i Severiani, che dichiaravano che fossero false tutte le epistole di Paolo.

(a) Argomentazioni Emozionali per la Autenticità. — Possiamo, perciò, solo cercare di dimostrare l'autenticità delle epistole paoline mediante argomenti interni, tramite considerazioni filologiche o analisi del loro stile. Ma come possiamo stabilire in questo modo che le epistole fossero state scritte davvero dall'apostolo Paolo e appartengano alla metà del primo secolo, visto che non abbiamo esempi indipendenti della scrittura di Paolo, è difficile dirlo. Quando un filologo come Wilamowitz deduce l'autenticità delle epistole dal loro stile vivido e personale, e dice, categoricamente, “Questo stile è di Paolo, e di nessun altro", [4] abbiamo semplicemente un'altra dimostrazione della dipendenza di tutta la nostra scienza sulla teologia. In che modo il filologo conosce la natura e la personalità di Paolo se non dalle epistole pubblicate sotto il suo nome? Trova quindi la prova della autenticità nelle epistole stesse; e quando scopre che le epistole soddisfano naturalmente questo test, pensa di aver stabilito la loro autenticità. “Viene usato un paradigma”, dice Van Manen, “che è stato preso dall'epistola o dalle epistole la cui autenticità è in discussione, e gli studiosi procedono come se l'immagine dell'apostolo delle genti che devono alla tradizione, alle descrizioni da terze persone, o alla loro ricerca personale, sia stata ricavata separatamente dall'epistola o dalle epistole a cui è applicata. Esclamano: Paolo alla vita! Riconoscono un tratto dopo l'altro. Ma cosa hanno veramente dimostrato? Si sono semplicemente imbrogliati”. [5]

Ma che dire della “possente personalità”, della “originalità non-inventabile”, dell'“anima” che vive nelle epistole? Quando i nostri avversari non trovano altro argomento, devono fare affidamento naturalmente sull'originalità, sull'unicità, sull'impossibilità di inventare lo stile delle epistole. Su questo punto troviamo von Soden, Jülicher, Weiss e tutti gli altri in pieno accordo. “Allora l'impressione generale fatta dalle epistole”, esclama J. Weiss, estaticamente — quasi lo vediamo con gli occhi levati al cielo e la sua mano posata sul testo di Paolo — “questa ricchezza di toni e ombre, questa straordinaria originalità che ogni uomo che non può percepire accusa sé stesso di una grande incultura del gusto e del giudizio letterario” (pag. 100).

Ma chi nel mondo contesta una parola di questo? Ciò che contestiamo è la deduzione dell'apostolo Paolo da quelli aspetti delle epistole. Non importa quanto “personale” possa essere lo stile delle epistole, esso non ci dà la minima certezza che le epistole siano state scritte dall'uomo il cui nome appare a capo di ciascuna. Né deriva dalla “natura originale dello stile” il fatto che non avrebbero potuto essere prodotte da una scuola o da un gruppo. Lo stile della letteratura giovannea non è ancora più originale? Oppure i poemi omerici devono essere stati composti da un singolo Omero perché hanno tutti lo stesso stile? A dirla tutta, inoltre, le epistole non si accordano tra loro, né c'è completa armonia entro i limiti di una singola epistola. [6] Quanto all'originalità, van Manen osservò: “Essere originali in qualsiasi forma, in qualsiasi lingua o età, è proprio altrettanto possibile, a condizione che l'uomo abbia le capacità necessarie, per chi si copre con la maschera di qualche altra persona come per uno che scrive nel suo stesso nome e in persona, per lo scrittore pseudonimo proprio altrettanto bene che per lo scrittore sincero” (pag. 188). Sui principi dei nostri avversari, l'opera di Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, deve essere stata scritta dall'antico fondatore religioso persiano, perché è così personale, così originale, così ricca di toni e ombre. Sugli stessi principi, il quarto vangelo fu scritto evidentemente dall'apostolo Giovanni; e, difatti, fino alla metà del secolo scorso i teologi fingevano di percepirvi il vero battito del cuore del discepolo che Gesù amava. “Il che”, come dice Van Manen, “dovrebbe renderci più cauti, e sollevare il problema se non siamo a volte troppo rapidi a identificare una vecchia opinione di lunga data con l'impressione fresca e genuina che l'opera, l'epistola, farebbe su un lettore imparziale. È quantomeno certo che nessuno è ancora riuscito a definire l'elemento “personale” in maniera tale che qualsiasi gruppo moderato sia d'accordo nella descrizione. Un ritratto soddisfacente di Paolo è una delle cose che non sono altro che pii desideri” (pag. 189).

Jülicher dice, in riferimento alla “netta variazione di tono, agli umori, alle allusioni a cose note solo alle persone a cui è rivolta l'epistola, e agli scoppi di una rabbia quasi sinistra nelle epistole paoline” (pag. 25), che nessun uomo potrebbe mettersi nei panni di un altro in questo modo. In questo egli mostra semplicemente il fatto che un moderno professore di teologia seduto alla sua scrivania è incapace di farlo, non che un appassionato gnostico del secondo secolo, nel mezzo della lotta contro l'ebraismo legale e che cerca ardentemente di rivendicare la sua concezione del vangelo, non avrebbe potuto “inventare” quelle cose. Non è necessario, quindi, considerarlo un “falsario” che “opera con incredibile finezza e crea i monumenti più straordinari di un grande entusiasmo” (pag. 26). Ha bisogno solo di porre in parole i suoi sentimenti e pensieri, e, siccome non era raro al tempo, pone sull'opera il nome dell'apostolo Paolo, col quale sente un'affinità spirituale, o che ha scelto per qualche altra ragione; e ciò che sembra impossibile a Jülicher è realizzato.

(b) Argomentazioni per la Autenticità dei Tempi. — I difensori della autenticità delle epistole paoline sarebbero in una cattiva situazione se non avessero avuto altri argomenti oltre alle considerazioni estetiche che abbiamo appena esaminato. Ne hanno altri, comunque. Secondo von Soden, nessuno ha mai dato una teoria comprensibile dell'origine di quelle epistole nel secondo secolo. “Hanno a che fare con fin troppe cose, e con l'interesse più vivo, che nessuno nella cristianità considerò seriamente nel secondo secolo, come apprendiamo da altri documenti affidabili” (pag. 29). Jülicher dice anche: “Non si adattano a nessun altro periodo se non agli anni tra il 50 e il 64”. Altri, tuttavia, in particolare gli esperti olandesi, sono dell'opinione contraria. Hanno sottolineato, tra le altre cose, la ricca vita interiore delle comunità a cui l'apostolo rivolge le sue epistole, e la complessa organizzazione e le istituzioni ecclesiastiche, che sono difficilmente coerenti con l'idea che quelle fossero comunità appena fondate e piuttosto giovani; indicano piuttosto che erano state in esistenza da molto tempo. Van Manen in particolare ha descritto la condizione della comunità romana come una che non possiamo concepire nell'anno 59, in cui si suppone che l'epistola ai Romani sia stata rivolta ad essa (pag. 155); e Steck ha mostrato lo stesso riguardo alla comunità di Corinto (pag. 265). [7] Tali istituzioni come il battesimo per procura per i morti (1 Corinzi 15:29) e la legge ascetica del matrimonio (1 Corinzi 7) puntano piuttosto al secondo secolo, con la sua influenza gnostica, che alla metà del primo; a meno di ammettere che il culto di Gesù sia molto più antico di quanto i nostri teologi siano disposti a pensare, e che lo gnosticismo sia la radice dell'intero cristianesimo. Anche le divisioni e le fazioni della comunità di Corinto, che l'apostolo è desideroso di conciliare, e la cui natura non è ancora riuscita a spiegare, danno l'impressione che “sono semplicemente descritte schematicamente sotto nomi che erano familiari dai tempi apostolici, e lo scopo generale dell'avvertimento contro le divisioni ecclesiastiche era proprio come il periodo successivo rese ovunque necessario”. [8] È stato detto che il dono delle lingue che è menzionato in 1 Corinzi 12-14 fosse “del tutto scomparso” nel secondo secolo, e questo si avanza come prova del fatto che le epistole paoline devono essere state scritte nel primo secolo. [9] Ma il fenomeno “estatico o metodista” delle lingue è così generale, e ricorre così costantemente in periodi di eccitazione religiosa, trovandosi persino tra certe sette religiose e istituzioni del nostro tempo, che il silenzio riguardo ad esso del resto della letteratura del secondo secolo non ci autorizza a concludere che le epistole paoline siano autentiche. Conosciamo il dono delle lingue dalle epistole, che si presume appartengano al primo secolo. Ma come si può dire che queste epistole debbano appartenere al primo secolo perché si tratta in loro del dono delle lingue? Il problema della circoncisione, inoltre, non era affatto irrilevante nel secondo secolo, come dice Clemen [10]; è fin troppo chiaro dal Dialogo di Giustino con l'ebreo Trifone (cap. 47). Vi si solleva il problema se i giudeo-cristiani che si attengono alla legge possano essere salvati, e la risposta è che non vi è alcun motivo per cui non dovrebbero esserlo, a condizione che non impongano la legge sui cristiani gentili con il pretesto che essi altrimenti non potrebbero essere salvati, e non rifiutino di vivere con i cristiani gentili. Ciò indica che verso la metà del secondo secolo le due fazioni della cristianità si sono ancora affrontate tra loro proprio come le troviamo intente nell'epistola ai Galati. [11]

Come è noto, l'atteggiamento del cristiano verso la legge e la sua relazione con l'ebraismo è una preoccupazione centrale del sistema paolino. Ora, durante tutto il primo secolo, almeno fino alla distruzione di Gerusalemme, non c'era opposizione tra ebrei e cristiani riguardo alla legge. Vivevano amichevolmente l'uno con l'altro, si visitavano, si sposavano e si sostenevano l'un l'altro — in caso di malattia, per esempio. Così, tra molti altri, ci conferma Chwolson — e ha studiato attentamente la materia — nel suo lavoro su The Last Passover. Nell'anno 62, secondo il resoconto di Flavio Giuseppe, il sommo sacerdote Anano fece uccidere Giacomo, e questo dispiacque ai farisei. Secondo Atti (15:5), alcuni dei farisei si unirono alla setta. Infatti, intorno all'anno 58, gli scribi tra i farisei si levarono a favore di Paolo, e riconobbero di non aver trovato alcuna offesa in lui (Atti 23:9). Infatti, il testo di Atti non sa nulla di una differenza fondamentale tra Paolo e il resto degli apostoli in relazione al loro atteggiamento nei confronti dell'ebraismo, e persino il resoconto dei suoi viaggi — la parte di Atti che ha la pretesa più forte di essere considerata genuina — tace su qualsiasi differenza di pensiero tra Paolo e i primi discepoli di Gesù, e non tradisce con una sola sillaba il fatto che Paolo abbia promulgato un vangelo molto più progredito di quello degli apostoli originali e superando i loro sia nella ricchezza dei suoi contenuti che nella profondità dei suoi pensieri. Confronta con questo il vigore con il quale le epistole paoline attaccano la legge mosaica, la profonda opposizione tra le idee di Paolo nelle epistole e quelle degli ebrei, specialmente dei farisei, il suo rifiuto e la sua fresca interpretazione dell'idea ebraica più antica del Messia, la sua glorificazione del Gesù crocifisso e risorto a costo di tutto ciò che fosse caro al sentimento religioso degli ebrei; e poi rifletti se un tale sistema fosse più probabile che si sviluppasse nel primo secolo, pochi anni dopo la morte di Gesù, oppure nel secondo secolo — se non si adatta a nessun altro periodo se non agli anni tra il 50 e il 64!

Effettivamente, come affermano gli ebrei, e come hanno dimostrato Lublinski e altri, fu la distruzione di Gerusalemme ad aver portato alla rottura tra ebrei e cristiani. Fu solo quando, dopo la caduta della città santa, l'organizzazione sacerdotale ebraica e la vita religiosa furono costrette a separarsi, e gli ebrei, pur di mantenere la purezza e la forza della loro fede sconfitta, si misero in disparte, e cercarono in un accresciuto servizio della legge qualche compenso per la perdita del tempio, che i cristiani, con la loro idea più liberale del culto, la loro moralità interiore alimentata dai profeti, e il loro più forte senso di penitenza a causa della loro attesa di una imminente fine del mondo, cominciarono a separarsi dagli altri ebrei, dai quali non erano ancora stati essenzialmente distinti, e si resero conto di costituire una particolare comunità religiosa in opposizione all'ebraismo. Questa separazione aumentò fino all'inimicizia mortale e all'odio inconciliabile quando, verso la fine del primo secolo, la parte dei cristiani contrari alla legge prese il sopravvento, quando i cristiani arrivarono a negare la validità della legge e la sua indispensabilità per la salvezza religiosa; quando, negli ultimi conflitti decisivi degli ebrei contro i romani, i cristiani si schierarono al fianco di quest'ultimi e, abbandonando le loro speranze nazionali della restaurazione di Gerusalemme e della liberazione politica di Israele, cercarono di impedire la ricostruzione del tempio, e così si separarono apertamente dai loro compatrioti. Gli ebrei ora rifiutavano di avere qualsiasi rapporto con i cristiani; maledissero e bruciarono le loro Scritture, e li espulsero dalle comunità. I cristiani si vendicarono di questa condotta etichettando gli ebrei come induriti. Li rimproverarono di essersi tagliati fuori dalla promessa, e contrapposero sé stessi come gli  eletti dal cielo ai loro ex compatrioti come reietti di Dio e dannati. Questa è proprio l'idea che pervade le epistole paoline. Idee simili a quelle esposte in Romani 9 fino a 11, che comunicano che gli ebrei, a dispetto delle promesse fatte ai loro padri, non avranno alcuna parte nelle benedizioni del cristianesimo, non hanno avuto alcun fondamento di sorta nel tempo intorno all'anno 59. La domanda sul perché gli ebrei furono esclusi dalla salvezza non poteva sorgere e trovare una risposta finché essi non furono effettivamente fuori dal cristianesimo. Tuttavia, nel momento in cui si suppone che l'epistola ai Romani sia stata scritta, la missione ai gentili era appena stata pienamente sviluppata, e almeno quelli tra gli ebrei che vivevano nella diaspora non avevano ancora avuto l'opportunità di apprendere il vangelo. In che modo, allora, Israele poteva essere descritto a quel tempo come “staccati dal tronco” (Romani 11:17-21)? Come si poteva parlare di una “caduta” degli ebrei, i quali stanno per essere colpiti dalla “severità di Dio”? Questo, come osserva van Manen, presuppone la caduta di Gerusalemme, “il primo fatto importante dopo la morte di Gesù in cui i cristiani potrebbero vedere una punizione” (pag. 159).

La tendenza cristiana che si opponeva più strenuamente all'ebraismo era lo gnosticismo. Le sue radici risalgono, come hanno mostrato Friedländer [12] e altri, al periodo dell'origine del cristianesimo. Ma non è fino al secondo secolo che lo incontriamo come una teoria filosofico-religiosa pienamente sviluppata o una teosofia. Ora il paolinismo ha la più stretta affinità con lo gnosticismo, come hanno dimostrato Holsten, Pfleiderer, Weizsäcker e altri. In entrambi l'idea della fede si trasforma nell'idea della conoscenza; questa conoscenza si basa sulla rivelazione divina: la salvezza dell'anima dipende dal riconoscimento di certi fatti della rivelazione. In entrambi troviamo un sistema completamente dualistico, in cui Dio e il mondo, la legge e la grazia, la morte e la vita, lo spirito e la carne, ecc. sono posti in netto contrasto e la tendenza al misticismo e all'ascetismo va di pari passo con la ricerca di un'interpretazione speculativa dei fatti dell'esperienza religiosa. Oltre alla loro idea di Dio e alla loro cristologia e dottrina della redenzione, hanno in comune un gran numero di idee, come la gnosi, la grazia, il pleroma, l'ectroma, la vita, la luce, ecc. Concordano anche, non solo nel loro facile disdegno della Storia, ma anche nella loro ostilità verso l'ebraismo e il loro deprezzamento — anzi, il rifiuto — della legge. In un caso, il legame tra lo gnosticismo e Paolo è così evidente da poter essere citato come una prova del fatto che Paolo non sapeva nulla di un Gesù storico; è il passo in 1 Corinzi 2:6, dove l'apostolo parla dei “principi di questo mondo”, che non sapevano che cosa fecero quando “crocifissero il Signore della gloria”. È stato riconosciuto parecchio tempo fa da van Manen e da altri che per questi “principi” noi dobbiamo intendere, non le autorità ebraiche o romane, né alcun altro potere terrestre di sorta, ma i “nemici di questo mondo”, le potenze superiori demoniache, le quali governano la terra per un po', ma “passeranno” prima del trionfo imminente del Dio-salvatore. [13] Questa è precisamente l'idea gnostica della morte del Redentore, ed è qui esposta da Paolo; da ciò possiamo dedurre che egli non concepì la vita di Gesù come un evento storico, ma come un dramma metafisico generale, in cui cielo e  terra lottano per il dominio.

È risaputo che gnostici eminenti come Basilide, Valentino e, in particolare, Marcione, si appellano fiduciosamente a Paolo. La simpatia di Marcione per Paolo gli ha valso il nome di “apostolo degli eretici”. Tutto questo si potrebbe spiegare nel fatto che lo gnosticismo del secondo secolo ebbe una fonte in Paolo, e si è appropriò delle sue idee nell'esposizione delle proprie dottrine. Ma è proprio altrettanto possibile che sia il paolinismo che lo gnosticismo appartengano alla stessa età, e siano solo diversi rami della stessa radice. Questo mi sembra più probabile quando riflettiamo su quanto bene il terreno debba essere stato preparato per le lettere dell'apostolo se dovessero essere capite nelle comunità. Tali difficili disquisizioni dogmatiche come quelle nella epistola ai Romani implicano un lungo periodo di evoluzione, durante cui le idee dell'apostolo devono essere state parecchio discusse nelle comunità. Suggeriscono una familiarità con il paolinismo che è difficilmente credibile, specialmente nella lontana Roma, nel momento in cui si suppone che l'epistola sia stata scritta. “Il paolinismo”, dice van Manen, “sembra essere un fenomeno generalmente familiare e molto discusso. Ha i suoi sostenitori e i suoi oppositori, le sue parole d'ordine e le sue frasi stereotipate, il suo proprio linguaggio, che non ha bisogno di spiegazioni perché si assume che i lettori lo capiscano” (pag. 141). Senza alcuna spiegazione l'apostolo usa un certo numero di espressioni che sarebbero state comprese di colpo nei circoli gnostici del secondo secolo, ma che non potevano forse essere state comprese a metà del primo secolo, alcuni decenni dopo la morte di Gesù, in lettere rivolte a comunità appena fondate.

Ma è particolarmente singolare il fatto che Paolo stesso avrebbe dovuto acquisire una conoscenza così tanto dettagliata e sistematica delle idee gnostiche subito dopo la tragedia del Golgota. Basta ricordare i punti fondamentali del sistema paolino per constatare che van Manen ha ragione nel dire che “un lungo tempo deve essere trascorso dall'apparizione dei primi discepoli prima che potesse nascere una nuova tendenza di questa natura. Abbiamo qui più di un semplice trionfo sulla ripugnanza alla croce, grazie alla quale  pii ebrei sono stati messi in grado di accettare l'ideale di un Messia sofferente, di salutare Gesù di Nazaret come il Messia promesso ai loro padri e di unirsi alla nuova fratellanza. Noi abbiamo qui una completa rottura con l'ebraismo, un sistema nuovo e sostanzialmente completo, che necessita solo di essere elaborato in dettaglio e adattato alle esigenze di una generazione successiva, una riforma profonda del sistema prevalente, sicuramente il frutto di una profonda esperienza di vita e di un lungo periodo di fervente pensiero”. Si suppone che questa riforma, secondo l'opinione prevalente, abbia avuto luogo alcuni anni dopo la morte di Gesù, che sia stata provocata da un uomo che, lui stesso un ebreo e allievo degli studiosi ebrei, è ritenuto aver vissuto interamente nell'ebraismo fino a quel momento, e che sia sorta in circostanze che avrebbero potuto ostacolarla invece che favorirla! Ciò sembra essere piuttosto incomprensibile dal punto di vista psicologico. “È semplicemente inconcepibile”, dice van Manen, “che Paolo l'ebreo, che perseguitava la comunità con convinzione, abbia provocato una rivoluzione così straordinaria nella fede di questa comunità quasi immediatamente dopo averla accettata. Non è concepibile che questo ardente zelota per il Dio di Israele, per le leggi, la morale e le usanze di Israele, debba percepire così all'improvviso, quando ha vinto la sua ripugnanza della croce, che questo Dio non era il più alto, ma deve far strada al padre, che né gli ebrei né i gentili avevano conosciuto prima della venuta di Cristo [?]; che questo Cristo non era quello promesso ai loro padri, il Messia, ma un essere soprannaturale, il figlio stesso di Dio, che per un certo periodo assunse l'aspetto di un uomo come noi; e che la legge, con tutte le sue prescrizioni e le sue promesse, poteva e doveva essere messa da parte in quanto priva di valore o di significato. Non dobbiamo dimenticare che tutto questo è nuovo nel vangelo paolino, e non ha alcun rapporto con la “fede” dei primi discepoli, che erano ancora ebrei purosangue nelle loro attese messianiche. Tentiamo di capire cosa significa per un ebreo sincero e pio, come il convertito Paolo, abbandonare il Dio dei suoi padri e inchinarsi a uno che fino ad allora era stato sconosciuto. Considera la dipendenza del pio ebreo sulla legge e sulla morale e sui costumi che essa prescrive. Immagina cosa è necessario per far accettare ad un uomo come un essere soprannaturale, come lo stesso figlio di Dio, uno che aveva poco prima considerato un impostore e che era morto in croce come un criminale alcuni anni prima, anche se ora riconosce la sua innocenza e la sua elevata natura di unto di Dio. Una credenza nella resurrezione e nella vita trasfigurata di Gesù non poteva realizzare questo, non più di quanto abbia portato i primi discepoli a divinizzare il maestro, perché si credeva che anche Enoc, Mosè ed Elia fossero stati elevati in cielo; non avevano cessato per quel motivo di avere una natura umana nella mente dei credenti. In questo possiamo chiaramente discernere l'influenza di idee di un'origine non ebraica, le idee della gnosi orientale, che a loro volta erano entrate in contatto con la filosofia greca e le nozioni pagane della divinità. Non abbiamo qui nessun caso di ordinaria “deificazione”, per la quale una pia immaginazione potrebbe fornire il materiale. Se il cristianesimo non fosse entrato in contatto con la gnosi attraverso ‘Paolo’, se fosse rimasto permanentemente sotto la guida dello spirito ebraico, il monoteismo di Israele l'avrebbe ammonito contro la deificazione del suo ‘fondatore’, proprio come ai tempi dei loro padri Mosè, il fondatore della religione di Israele, fu risparmiato dalla deificazione”. [14]

Quali sforzi hanno compiuto i critici storici per rendere più o meno comprensibile l'improvvisa conversione di Paolo dopo la visione di Damasco! Ma né le risorse della dialettica hegeliana, usate da Baur e, in un certo senso, da Pfleiderer, né quelle della psicologia moderna, impiegate da Jülicher, da Weiss e da altri, hanno permesso alla teoria prevalente di dare persino plausibilità alla loro idea dell'origine della cristologia paolina, e di colmare di considerazioni psicologiche e storiche la lacuna, la cui realtà J. Weiss non nega, [15] tra la dottrina di Paolo e quella dei cosiddetti discepoli di Gesù. Che la luce che Paolo vide, e le parole che udì, lo portassero a condannare tutto il suo precedente pensiero, esistenza, fede e speranza, e lo convertissero in una “nuova creatura”, è difficilmente credibile. Un evento del genere sarebbe così “unico” nella storia mondiale che ogni uomo che lo ammette non ha bisogno di negare altri “miracoli” nel Nuovo Testamento, o di considerare incredibile ognuna delle sue affermazioni. È stato recentemente suggerito che lo stesso Gesù storico possa essere stato coinvolto nella conversione; sentiamo a proposito della “forte impressione” che Gesù deve aver fatto su Paolo, e Kölbing [16] e J. Weiss parlano di “un'azione spirituale della persona di Gesù” — alcuni addirittura suggeriscono un incontro da qualche parte tra i due. Tale teoria non trova alcun sostegno in Atti o nelle epistole paoline; anzi, come ho detto prima, renderebbe l'apostolo non veritiero, siccome egli dice ripetutamente ed enfaticamente che ha ricevuto il suo vangelo solo tramite una rivelazione interiore (Galati 1). Anche i teologi vedono nel “miracolo di Damasco” un'altra prova della “grandezza e del significato insuperabili” del loro Gesù, e cercano di cogliere l'“impressione ineffabile” che Paolo deve aver avuto di Gesù, pur di trovare in questa maniera qualche  giustificazione del loro culto di Gesù. L'evento, tuttavia, non è reso più plausibile in questo modo, perché la difficoltà consiste precisamente in come fosse possibile per una mente monoteista, per un ebreo zelante, divinizzare un uomo che era morto non molto tempo prima, non un personaggio di antichità remota tale come Mosè, Elia o Enoc. E la difficoltà non viene rimossa supponendo che l'apostolo avesse incontrato in un luogo o in un altro il Gesù crocifisso. Paolo non aveva mai conosciuto Gesù personalmente. Il cristianesimo che fu collegato a Paolo nel suo sviluppo successivo non può essere ricondotto ad un'azione personale di Gesù sull'apostolo. Ciò è dimostrato inequivocabilmente dai documenti, dagli Atti degli Apostoli e dalle epistole. Ogni uomo che nega questo sta leggendo nei documenti qualcosa che non contengono; anzi, essi dicono il contrario. Chiunque in loro legga questo sta semplicemente introducendo nei documenti una concezione di Gesù che ha ottenuto altrove, interpretandoli in un senso che non giustificano, e non può lamentarsi se i suoi avversari considerano una ridicola allucinazione e presunzione la sua pretesa di essere “logico” e “privo di pregiudizi”.

(c) La Falsità delle Epistole Paoline. — Se Paolo si riferisce nelle sue epistole ad un Gesù storico, quelle epistole, che recano il suo nome, forse non possono essere state scritte dall'apostolo che fu mutato da Saulo a Paolo dalla visione di Damasco. Perché è inconcepibile che un individuo storico, subito dopo la sua morte, debba essere elevato dall'apostolo alla dignità di un secondo Dio, di un cooperatore nella creazione e nella redenzione del mondo. Se le epistole furono scritte veramente da Paolo, il Gesù Cristo che è una figura centrale in loro non può essere una personalità storica. Il modo in cui il presunto ebreo Paolo parla di lui è contrario ad ogni esperienza psicologica e storica. O le epistole paoline sono autentiche, e in tal caso Gesù non è una personalità storica; oppure egli è una personalità storica, e in tal caso le epistole paoline non sono autentiche, ma scritte in un periodo molto posteriore. Questo periodo successivo non avrebbe avuto difficoltà ad elevare alla sfera della deità un uomo dei tempi passati che gli era conosciuto solo per una vaga tradizione. E se le epistole non provengono da Paolo, appartengono ad una cerchia totalmente diversa da quella degli ebrei convertiti, e sono piuttosto, come dice Steck, l'opera di un'intera scuola di gnostici anti-nomianisti del primo quarto del secondo secolo, che mirava a distaccare il cristianesimo dal suo ceppo materno ebraico, e a farne una religione indipendente; in quel caso i loro riferimenti a Gesù non hanno valore storico, e non possono essere citati come prova del Gesù storico.

Non si obietti il fatto che le epistole paoline recano inconfondibilmente il marchio della paternità ebraica, e che nel loro schema rabbinico di pensiero e di argomentazione puntano al Paolo degli Atti. Infatti, a parte il fatto che questo non permetterebbe di dimostrare che Paolo ne fosse l'autore, dal momento che l'autore gnostico del secondo secolo potrebbe essere un rabbino farisaico convertito in un apostolo tramite qualche “eccezionale esperienza”, la natura ebraica dell'autore delle epistole e la sua relazione con il rabbinismo non sono affatto così certe come suggeriscono i credenti in Paolo; anzi, anche qui sembra che la maggior parte di loro non sappia nulla del modo di ragionare rabbinico e del metodo di argomentazione, se non dalle epistole stesse. Gli studiosi ebrei, che possono apprezzare il punto, non riconoscono affatto del loro stesso spirito il contenuto delle epistole; negano con forza che il loro autore possa essere stato un allievo dei rabbini. C'è un serio motivo di riflessione nel fatto che, come ha sottolineato Kautzsch nel 1869 e come ha confermato Steck (pagina 212), lo scrittore delle epistole non cita il testo ebraico delle Scritture, ma la traduzione greca della Septuaginta, con tutti i suoi errori, e che per  questo fa dichiarazioni che uno sguardo al testo ebraico gli avrebbe mostrato all'istante come sbagliate. [17] Ciò sarebbe incomprensibile da parte di un ebreo rigoroso e allievo dei rabbini, perché la traduzione dell'Antico Testamento in una lingua straniera era considerata dagli ebrei rigorosi della Palestina un peccato contro la legge, una profanazione della parola sacra.

Paolo conosceva veramente l'ebraico? La domanda sembra essere assurda se l'autore delle epistole fosse davvero l'allievo di Gamaliele e fosse stato un fanatico della legge mosaica. Eppure le epistole non danno traccia di una familiarità con l'ebraico. Nonostante l'assicurazione dello scrittore di essere nato ebreo, egli sembra essere greco in tutto. Pensa come un greco, parla come un greco, usa libri greci; e qualunque cosa ci sia in lui che possa essere spiegata — ci viene detto — soltanto dall'ebraismo è molto più vicino, come dice van Manen, all'ebraismo alessandrino o ellenistico di Filone e della Sapienza, da lui spesso impiegato, che alle idee dell'Antico Testamento, e in nessun modo necessita di essere stato attinto dalla Bibbia ebraica.

Inoltre, questo presunto allievo dei rabbini interpreta la legge in un modo che, come ci viene confermato da esperti ebrei, è tutt'altro che rabbinico. Mentre i rabbini lasciano intatto il significato letterale della scrittura anche nelle loro interpretazioni allegoriche, l'apostolo è estremamente arbitrario sotto questo aspetto; trasforma il significato delle parole dentro e fuori, e cambia un significato chiaro nell'esatto opposto, come mostra Eschelbacher (tra gli altri) nel caso di Galati 4:21 (pag. 546). L'autore delle epistole paoline non possiede né un'accurata conoscenza del testo delle scritture né un interesse, o comprensione, del suo contenuto. Egli stravolge il semplice corso del testo per i suoi scopi del momento, e offende gravemente sia la lettera che lo spirito dei brani in un modo che nessun uomo che fosse passato per le scuole si sarebbe mai arrischiato a fare. “Le interpretazioni delle scritture nelle epistole paoline”, dice Eschelbacher, “non possono, né nella sostanza né nella forma, essere messe in relazione alcuna né con quelle degli esperti palestinesi, né con quelle dei filosofi religiosi giudeo-ellenistici, o con quelle del loro tempo o del periodo successivo. Non c'è nulla di analogo a loro in tutta la letteratura ebraica. Questo si trova solo negli scritti cristiani del secondo secolo, come l'epistola agli Ebrei, l'epistola di Barnaba, gli scritti di Giustino, ecc.” (pag. 550). “Non c'è alcuna allusione di sorta di una conoscenza approfondita delle scritture, o di una familiarità scolastica di ciò che era insegnato nelle scuole ebraiche in Palestina o altrove, nelle epistole paoline” (pag. 668).

Quando esaminiamo tutto ciò che è stato avanzato, specialmente dagli olandesi, contro l'autenticità delle epistole paoline, in particolare la contraddizione tra il testo di Atti e le epistole, [18] non possiamo resistere all'impressione che l'ostinazione con cui la teologia storica si aggrappa alla paternità paolina, e dichiara che ogni attacco contro di essa sia “fuori discussione”, è in realtà dovuta ad un pregiudizio molto comprensibile piuttosto che ai meriti del caso. Agli occhi di questi teologi Paolo è il più grande testimone della storicità di Gesù su cui la loro “scienza” possa contare, quindi nulla può essere “scientifico” che tenda a screditare la testimonianza del loro testimone. Noi che siamo convinti che, perfino se le epistole paoline fossero autentiche, non proverebbero l'esistenza di un Gesù storico, e che probabilmente si riferiscono del tutto a un altro Gesù, siamo solo moderatamente interessati al problema di chi fosse l'autore delle epistole. Non importa a noi se ci fu un unico autore oppure se, come hanno cercato di dimostrare gli olandesi, parecchi cooperarono per fabbricarle; se sono originali, oppure sono semplicemente elaborazioni di lettere più antiche; se in sostanza risalgono ad un apostolo Paolo che predicò il vangelo ai gentili verso la metà del primo secolo, fondò comunità, e fu in una certa misura in opposizione agli “apostoli originali” a Gerusalemme, oppure se siano del tutto prodotti del primo quarto del secondo secolo, e la figura dell'apostolo sia un pezzo di finzione.

È possibile che, come credono Steck e van Manen, esistette davvero un Paolo, un uomo che, sebbene possa aver assunto una posizione alquanto eccezionale nei confronti degli altri apostoli, a malapena può essere stato così decisamente contrario a loro come lo rappresentano le lettere, e i cui aspetti abbiamo descritto, in maniera alquanto didattica, in Atti. Questo Paolo, tuttavia, era in quel caso “un ebreo per nascita, che in qualche misura aveva voltato le spalle all'ebraismo. Predica la circoncisione — vale a dire, la fedeltà ai riti e ai costumi dell'ebraismo, la fedeltà alla legge nonostante la sua accettazione della fede e delle attese dei discepoli di Gesù”. [19] Non c'era così alcun legame diretto tra lui e l'autore delle lettere che recano il suo nome; esse mostrano uno spirito completamente diverso. Ma c'era un legame indiretto nel fatto che il paolinismo, come tentativo di staccare il cristianesimo dall'ebraismo, facendo di esso una religione mondiale e, al tempo stesso, spiritualizzando e approfondendo i suoi contenuti, potrebbe aver avuto un ricordo riconoscente dell'uomo che per primo diede ampia notorietà alle idee della nuova religione. Ma è ugualmente possibile che il nome di Paolo sia solo un titolo generale per un certo numero di scrittori di lettere, i quali inventarono il personaggio per conferire un'aura di autorità ad un sistema religioso che andava oltre il cristianesimo originario. Non sarebbe stato possibile attribuire un sistema così peculiare e nuovo come il paolinismo ad un discepolo immediato del “Signore”, alla cui presunta personalità storica si appellarono gli altri seguaci della nuova religione. Ma qualche sorta di legame con il Gesù “storico” era necessario pur di rimpiazzare il  cristianesimo più antico con le sue propensioni ebraiche, e di basare l'ostilità all'ebraismo su una “rivelazione” che proveniva dallo stesso Gesù. Nacque così il personaggio del Paolo un tempo pio ebreo, che infuria contro i cristiani, ed è poi convertito da una visione, e, da zelota contro la legge, fonda un cristianesimo puramente spirituale, col suo stesso esempio rendendo più facile agli ebrei l'abbandono della legge.

Comunque possa essere stato, le epistole paoline, non dobbiamo ripeterlo, non danno alcun supporto di sorta al credo in un Gesù storico. Anche questo, come abbiamo detto, mette fine all'interesse religioso nella storicità di Paolo, e storici e filologi profani possono essere lasciati in pace per ricostruire, a partire da Atti e dalle cosiddette epistole di Paolo, un quadro della sequenza reale degli eventi che accompagnarono l'ascesa del cristianesimo.

NOTE

[1] Quaestiones Pauline.

[2] Galaterbrief, pag. 287.

[3] Eusebio, Storia Ecclesiastica, 3:40.

[4] Kultur der Gegenw., I, pag. 159.

[5] Römerbrief, pag. 185.

[6] Confronta Steck, pag. 363.

[7] Oltre a van Manen (pag. 14), William B. Smith ha mostrato, in un articolo del Journal of Biblical Literature (1910), che anche Harnack apprezza, che Romani 1:7 recitava in origine: “A voi tutti che siete amati da Dio” invece che “A voi tutti che siete in Roma, amati da Dio, chiamati santi”, cosicché l'epistola di Paolo non era rivolta ai Romani, ma era un messaggio teologico a tutti i cristiani in generale: un'opinione che Zahn ha adottato nella terza edizione del suo Einleitung in den Römerbrief. (Si veda Harnack in Preuschen's Zeitschr., 1902, pag. 83).

[8] Steck, opera citata, pag. 72.

[9] Otto Schmiedel, Die Hauptprobleme der Leben-Jesu-Forschung, pag. 14.

[10] Paulus, sein Leben und sein Wirken, I, pag. 11, 1904.

[11] Steck, pag. 380.

[12] Der vorchristliche Gnosticismus, 1898.

[13] Römerbrief, pag. 124.

[14] Opera citata, pag. 136. Quanto all'impossibilità del Gesù storico di essere deificato da Paolo e alla grande differenza tra questo tipo di deificazione e la deificazione di altre importanti personalità, come per esempio l'Imperatore, ecc., si veda Lublinski, Das werdende Dogma, pag. 49.

[15] Paulus und Jesus, pag. 3 e 72.

[16] Die geistige Einwirkung der Person Jesu auf Paulus, 1906.

[17] Per dettagli ulteriori si veda Eschelbacher, “Zur Geschichte und Charakteristik der Paulinischen Briefe,” nel Monatsschrift für Geschichte u. Wissenschaft d. Judentums, 51 Jahrg., Neue Folge, 15 Jahrg., 1907, pag. 411 e 542.

[18] Schlager, Der Paulus der Apg. und der Paulus der Briefe, nel periodico Die Tat, 2 Jahrg., 1910, Heft 8.

[19] Van Manen, Römerbrief, pag. 206. 

Nessun commento: