lunedì 18 febbraio 2019

Il Cristo è esistito?I vangeli (V)

Gli scrittori sacri

CAPITOLO V

I VANGELI

Se lasciamo da parte i vangeli apocrifi, di cui la Chiesa non riconosce affatto l'autenticità, sebbene vi abbia attinto largamente, non ci resta come unica fonte di informazioni su Gesù che i quattro vangeli di Marco, di Matteo, di Luca e di Giovanni. Prima di esaminare quale grado di fiducia dovrebbe essere accordato loro, vediamo prima di tutto ciò che si può trarre di accettabile sulla carriera di Cristo.
Rifiutiamo, soprattutto, ciò che è un miracolo e che, lungi dal poter pretendere la minima realtà storica, non può che risvegliare i nostri dubbi su tutto il resto e metterci in guardia contro i racconti di scrittori così grossolanamente ingenui. Il critico meno esigente non può arrestarsi per un solo minuto di fronte a queste favole stravaganti.
Dal momento che gli evangelisti non hanno avuto, per un solo momento, l'intenzione di documentarci sulla biografia del figlio di Maria, non è affatto facile estrarre dalla loro opera una serie di fatti così tanto insoddisfacenti. Tutto è subordinato in loro alle preoccupazioni dogmatiche più assillanti; gli eventi, anche i più ammissibili, i più naturali, gli atti della banalità più volgare, sono piegati con sforzo per essere aggiunti, come meglio possono, [1] alle più oscure predizioni dei Profeti, e perdono perciò ogni certezza; il vero, se ce n'è uno, prende l'apparenza del falso; non c'è un solo punto dei vangeli che non sia stato falsificato in questa maniera. Le puerilità, le improbabilità, le impossibilità, le contraddizioni brulicano: ne consegue che la lettura del Libro ci impone l'impressione ben motivata che non vi è probabilmente una sola parola di vero nell'opera, e sicuramente, alcuna parola di verosimile. 
Gesù, secondo il Libro sacro, è figlio del carpentiere Giuseppe, e si tenta, molto goffamente, di associarlo alla discendenza davidica; sua madre si chiama Maria e questo è tutto ciò che si sa su di lei. Viene al mondo al tempo di Erode il Grande (vale a dire, al più tardi, quattro anni prima della nostra era). — (Matteo 2:1 — Luca 1:5): Marco e Giovanni non hanno affatto ritenuto opportuno fornirci una qualche indicazione a questo riguardo e Gesù appare bruscamente nel loro racconto. Luca precisa, in aggiunta, la qual cosa è contraddittoria, che fu verso l'epoca del censimento di Quirino (Luca 2:2) che nacque il Salvatore; ma questo censimento ebbe luogo solo al momento della riunione della Giudea con la Siria, dopo la deposizione di Archelao, figlio di Erode (anno 6), dieci anni, almeno, dopo la morte di Erode il Grande. Più tardi, Gesù è circonciso, secondo le usanze degli ebrei; arrivato all'età adulta si fa battezzare da Giovanni; poi, allorché il Battista era stato messo a morte, per ordine di Erode Antipa, tetrarca di Galilea, Gesù sembra succedere a Giovanni e comincia la predicazione del suo vangelo, vale a dire la venuta del regno da Dio, verso l'anno 28 o 29 (Luca 3:1); riunisce un certo numero di seguaci, ma dopo un anno circa di predicazione (tre anni secondo il quarto vangelo), sulla denuncia dei sacerdoti, di cui preoccupa l'ortodossia e attacca l'influenza, è consegnato alle autorità romane e messo in croce, sotto Ponzio Pilato, che fu procuratore della Giudea (dall'anno 26 all'anno 36).
Ecco tutto quello che si sa d'accettabile sulla vita di Gesù. Ma questi semplici fatti sono indiscutibili? Noi non la pensiamo così. I racconti degli evangelisti, anche al di fuori del meraviglioso di cui sono circondati e che desta già i nostri sospetti, offrono una miriade di azioni incoerenti, illogiche, di fatti inconcepibili o inconciliabili; ci torneremo più tardi, in occasione di alcuni dei più importanti.
Inoltre, nessuno degli scrittori sacri ha potuto conoscere il Redentore e la Chiesa lo ammette per due di loro; i loro libri, qualsiasi cosa si possa dire, non sono per nulla delle Memorie di autori coinvolti negli avvenimenti, che ne abbiano custodito una memoria più o meno fedele, che siano stati direttamente o indirettamente in relazione col loro eroe o con qualcuno del suo entourage. Tutti i critici riconoscono che nessuno dei vangeli avrebbe potuto essere composto prima della caduta di Gerusalemme (anno 70), e nulla ci assicura che non siano di gran lunga posteriori. [2] Marco, il più antico, difficilmente può essere datato prima dell'anno 80; Luca redasse probabilmente la sua opera verso il 90; Matteo, nell'anno 100; Giovanni, nel primo quarto del secondo secolo (M. Vernes), verso l'anno 125. Altri esegeti, tuttavia, credono Luca posteriore a Matteo e noi seguiamo la loro opinione. In ogni caso, nessuno degli autori si presenta come testimone oculare del dramma che racconta, tranne Giovanni (21:24), in un capitolo evidentemente aggiunto da un'altra mano rispetto al resto della narrazione; inoltre, nessuna critica ammetterà che questo vangelo non sia stato scritto molto tempo dopo la morte del presunto Apostolo. Inoltre, il titolo stesso non presenta affatto i vangeli come composti da Marco, Matteo, Luca e Giovanni, ma secondo Marco, Matteo, ecc. ...: vi è là una sfumatura apprezzabile.
Va aggiunto che, anche se si ammette la tradizione ecclesiastica, “i vangeli sono dei poveri documenti” (Hauvet); che “il loro valore storico è molto sottile” (M. Vernes); non ci insegnano nulla sulla stessa fisionomia di Gesù: era giovane o vecchio, alto o basso, grasso o magro, robusto o debole, bruno o biondo? Non sembra affatto che fosse maritato, ma nulla ci dice il contrario: Marco, che non parla affatto del padre del Salvatore e che nomina a malapena una volta sua madre, avrebbe potuto, altrettanto bene, dimenticare sua moglie; sapeva scrivere? Di che viveva? Non ci viene detto nulla di tutto questo ed è solo una lettura discutibile di Marco (6:3) che gli ha fatto attribuire il mestiere di carpentiere, così come a suo padre. La riconciliazione delle date che si possono trarre dai vangeli sinottici e principalmente da Luca, fa supporre che morì verso i 30 o 35 anni, mentre Giovanni (8:57) sembra dire che si stava avvicinando alla cinquantina. [3] La tradizione lo fa nascere il 25 dicembre, ma i vangeli non dicono nulla al riguardo, e il momento di questa nascita, proprio al solstizio d'inverno come quello di Giovanni il Battista è posto al solstizio d'estate,  senza dubbio non è stato scelto a caso. Coincide con la festa pagana di Natalis invicti (Invictus è il Sole che sembra rinascere in questa stagione; Natalis è la stessa cosa della nostra parola Natale). Questa data non fu fissata se non fino a molto tardi, nel IV° secolo, quando si cercò di precisare gli elementi fluttuanti del mito cristiano.
Nessun personaggio della storia oppure della leggenda è più vaporoso, più inafferrabile: Marte, Cerere sono delle figure familiari accanto a quella del Messia; sappiamo che Atene aveva gli occhi azzurri e che Venere era bionda; gli Atti di Tecla ci fanno un ritratto impressionante di Paolo. Gesù, al contrario, [4] è una figura ieratica, un simbolo, una personificazione artificiale del tipo convenzionale del Messia annunciato dall'Antico Testamento, piuttosto che un personaggio reale; così, l'imbarazzo dei pii cristiani che si sono impegnati a trasmetterci l'immagine, non è affatto più piccolo rispetto a quando tentano di tracciarci il volto del Padre Eterno. Al posto del caratteristico profilo ebraico che si impone, ci rappresentano immancabilmente la fisionomia attuale degli occidentali che loro hanno sotto gli occhi e financo la loro maniera di vestire: nelle Catacombe di Roma che racchiudono gli affreschi cristiani più antichi conosciuti, Gesù è generalmente un adolescente imberbe, la testa rasata alla romana, rivestito della tunica corta senza maniche in uso a quel tempo, soprattutto nelle classi inferiori, o addirittura dell'exomis a una sola manica portata dagli schiavi; gli artisti del Rinascimento, al contrario, ce lo ritraggono piuttosto barbuto e con i capelli lunghi e fluttuanti, come un cavaliere alla moda del tempo; solamente allora, il suo costume è divenuto del tutto convenzionale e immutabile, proprio come è stato conservato fino al giorno d'oggi: un vestito lungo, ricoperto di un ampio mantello di colore diverso; oblio bizzarro, in un caso e nell'altro, i pittori non gli danno mai un'acconciatura, cosa che è inammissibile nel paese dal cielo infuocato dove si suppone abbia vagato. Tutte queste immagini, beninteso, non hanno alcun valore positivo, ma ne consegue che, fin dai primi giorni, non esisteva alcuna tradizione che si rapportava a una realtà vivente e capace di stabilire la convinzione che il successore del Battista fosse stato un essere in carne ed ossa: Cristo non fu mai per un istante, nemmeno nei tempi apostolici, un personaggio storico, ma restò costantemente una creazione immateriale di leggenda; anche quelli che avrebbero potuto conoscerlo se egli fosse esistito, come san Paolo, o essere stati in relazioni con i galilei della sua età, come san Marco, non ne parlarono mai se non come di un essere soprannaturale e di cui le avventure sono state fabbricate con le profezie dell'Antico Testamento degli ebrei. Egli non è, infatti, che la riproduzione immaginata del sogno messianico dei devoti ebrei; non lo si vede mai vivere, agire in una maniera umana: ognuno degli atti a lui attribuiti non ha altra ragione se non quella di dimostrare che egli realizza le profezie più o meno nebulose, più o meno adattate ai bisogni della causa, che sono state estrapolate penosamente dai Profeti della Antica Legge. Lo stesso dramma della Passione che ha un lato così commovente (e sul quale ci torneremo) è viziato, ad ogni riga, da questa preoccupazione infantile di modellare i gesti più insignificanti del Salvatore sulle parole ispirate dei suoi predecessori.
Questi autori della Buona Novella che, scrivendo tutti  in greco, non sembrano mai aver sentito parlare di Olimpiadi; questo Marco che, secondo la tradizione, redasse il suo libro in Italia; questo Matteo, funzionario romano; questo Luca, così istruito, non conosce né le idi né le calende; questo Giovanni, nato in Galilea, ignora il calendario ebraico. Indicano i mesi dell'anno con “il tempo della mietitura” (Matteo 13:30) o “del grano maturo” (Matteo 12:1), oppure “dei fichi” (Marco 11:13). Da nessuna parte, nei vangeli, proprio come in tutto il Nuovo Testamento, si trova una data precisa: Gesù è nato sotto Erode (ancora Marco e Giovanni non lo dicono affatto), fatto che lascia un margine di quarant'anni; è morto sotto Ponzio Pilato, fatto che ci apporta una nuova indecisione di dieci anni. Dal testo di Marco, che ha servito da base ai tre evangelisti successivi, è impossibile trarre la probabilità che il Redentore abbia vissuto trent'anni anziché ottanta. Non riscontreremo mai, non più nel Libro sacro, un nome di personaggio conosciuto che, in assenza di una data precisa, possa fissarci a uno o due anni circa; la Storia (e anche la geografia) è  lettera morta per tutti questi scrittori.
“La brava gente crede alla divinità di Gesù, sulla fede di copie alterate, di manoscritti perduti, redatti non si sa dove, né quando, da degli autori sconosciuti che si contraddicono e non sono stati affatto i testimoni di ciò che raccontano” (abate Loriaux, l'Autorité des Evangiles).
“Ego vero evangelio non crederem, nisi Ecclesiae Catholicae me commoveret auctoritas” (sant'Agostino, Contra Epistolam Manichoei, cap. V. — citato da Huxley, Science et Religion, pag. 28). — “Io non crederei al Vangelo, se non vi fossi costretto dall'autorità della Chiesa cattolica”. Ma l'autorità della Chiesa era fondata sui vangeli, sant'Agostino  gira in un circolo vizioso senza accorgersene.
L'esistenza di Gargantua poggia su delle basi così tanto solide quanto quelle della leggenda di Gesù: Voltaire (Dict. philos., art. Gargantua) mette crudelmente in parallelo le due favole: 
“Se mai c'è stata una reputazione ben consolidata, è quella di Gargantua. Tuttavia, in questo secolo filosofico e critico, è capitato d’imbattersi in intelletti temerari che hanno osato negare i prodigi di questo grand’uomo, e che hanno spinto il pirronismo fino al punto di dubitare che egli sia mai esistito.
Come è possibile, si chiedono, che nel XVI° secolo vi sia stato un eroe del quale nessun contemporaneo, né Sant’Ignazio, né il cardinale Caetano, né Guicciardini, né Galileo, ha mai parlato, e a proposito del quale non sia mai stata trovata nemmeno la più breve nota nei registri della Sorbona?
Provate a sfogliare le storie di Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, ecc., e non vi troverete neanche una parola su Gargantua. Tutta la sua vita, dalla nascita alla morte, è una trama di prodigi inconcepibili.
.. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ..
Gargantua fondò l’abbazia di Thélème. Non si trovano da nessuna parte i suoi atti ufficiali; è vero, non ne ebbe mai; eppure essa esiste, possiede una rendita di diecimila pezzi d’oro. La Senna esiste, è un monumento eterno del potere della vescica di Gargantua. Inoltre, cosa vi costa crederci? Non si deve forse abbracciare il partito più sicuro? Gargantua può procurarvi denaro, onori e credito. La filosofia non vi darà mai nulla di più che la soddisfazione dell’anima, ed è ben poca cosa. Credete a Gargantua, vi dico io; per poco che siate avidi, ambiziosi e bricconi, vi troverete benissimo”.

GLI EVANGELISTI: MARCO

La critica considera unanimemente Marco come il più antico degli evangelisti, benché la Chiesa lo abbia collocato al secondo posto nella raccolta del Nuovo Testamento. A questo titolo, è presso di lui che si può sperare di incontrare le informazioni più interessanti e più autentiche su Gesù di Nazaret, informazioni che, finora, abbiamo vanamente cercato altrove. Prima di esaminare fino a che punto possiamo fare affidamento sul suo racconto, riassumiamo ciò che contiene sul Salvatore, il secondo vangelo, cancellando, come è giusto che sia, dalle poche pagine che contiene, tutto ciò che è miracolo.
Al momento in cui Giovanni il Battista, così nominato da una delle cerimonie che imponeva ai suoi neofiti, predicò nel deserto di Giuda, regione sterile e poco popolata, situata ad ovest del Mar Morto, verso la foce del Giordano, il falegname di Nazaret viene a trovarlo e si fa battezzare da lui (1:1- 11), collocandosi così volontariamente tra i discepoli del Nazir. Poi, subito dopo che sull'ordine di Erode Antipa, Giovanni era stato gettato in prigione, il Nazareno tornò in Galilea e sostituì nella sua predicazione l'asceta che lo battezzò (1:14-15). Riunisce, a sua volta,  alcuni seguaci e si mette a predicare alla folla, con grande dispiacere dei suoi genitori che dicono che ha perso la testa (3:21) e degli scribi che lo credono posseduto dal diavolo (3:22).
Marco non dice esattamente dove è nato il Redentore, ma lo chiama Gesù di Nazaret (14:67). Questa località è, del resto, perfettamente sconosciuta in Palestina. L'evangelista viene a sapere solamente che il Salvatore è il figlio di una certa Maria, sulla quale non dà alcun dettaglio (6:3) e non si degna nemmeno di citare  il padre del suo eroe; non fa alcuna menzione della concezione miracolosa, dogma destinato, nel corso dei secoli, a prendere uno sviluppo così inaudito. Il Cristo ha quattro fratelli: Giacomo, Giuseppe, Judas (che la Chiesa nomina Giuda per distinguerlo dall'aborrito Iscariota), e Simone, e parecchie sorelle menzionate in blocco (6:3). Gesù sembra non avere alcun successo nel suo villaggio natale (6:4), “poiché nessun profeta è disprezzato se non nella sua patria”, ma la sua fama si diffuse ancor più lontano ed Erode Antipa, che ha appena decapitato Giovanni il Battista, sembra allarmato di apprendere che egli ha così rapidamente un successore (6:16). Il figlio di Maria si reca infine a Gerusalemme dove, su mandato dei sommi sacerdoti, degli scribi e degli Anziani, è arrestato e, dopo un breve interrogatorio, consegnato al procuratore romano Ponzio Pilato che, cedendo con riluttanza alle grida della folla eccitata, lo fa mettere in croce, insieme a due ladroni. Giuseppe d'Arimatea, membro distinto del Sinedrio, fa seppellire, la stessa sera, il corpo, dopo averne ottenuto l'autorizzazione del funzionario imperiale. [5]
Ecco tutto. Non una data precisa, non una sola parola che possa metterci sulla via di un sincronismo qualunque. Siccome Ponzio Pilato aveva esercitato le funzioni di procuratore della Giudea dall'anno 26 all'anno 36, la morte di Gesù oscilla tra questi due estremi, mentre non vi è affatto un verso in Marco che ci indichi, persino vagamente, il momento della sua nascita. Nulla più che ci documenti, per quanto poco, sulla fisionomia di Cristo. A parte il Battista, il magistrato romano ed Erode Antipa che Marco non distingue affatto da Erode il Grande, nessun personaggio di cui si possa o trovare la minima traccia nella Storia; il sommo sacerdote stesso non è affatto nominato: è inimmaginabile. Si immagina uno storico del XVI° secolo che, raccontando la vita di Lutero, ignorerebbe il nome di Leone X e si accontenterebbe di chiamarlo il Papa?
Tutto questo è molto magro, eppure nulla ci assicura che, anche nell'esposizione di questi fatti così semplici, emerga qualcosa di certo. L'impossibilità materiale della maggior parte degli avvenimenti riportati nel libro di Marco, le incoerenze e le contraddizioni nei dettagli dei fatti che di per sé non offrono nulla di inaccettabile nel loro insieme, la facilità incredibile con la quale gli altri evangelisti modificano il testo del loro predecessore, che serve loro da base, tutto ciò prova abbondantemente che non si può accordare alcuna fiducia al secondo evangelista.
E prima di tutto, chi era questo Marco a cui è attribuita l'ispirazione del più antico dei vangeli?
Secondo la tradizione della Chiesa, un certo Papia che era vescovo di Ierapoli, in Frigia (140-150), racconta, secondo Giovanni l'Anziano, personaggio perfettamente sconosciuto, che “Marco” (Alfred Loisy, Evang. Synop. I, pag. 23) “essendo divenuto l'interprete di san Pietro, scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che egli ricordava delle parole e delle azioni di Gesù; non con ordine, poiché egli non aveva udito il Signore, né aveva vissuto con lui; ma, più tardi, come dicevo, era stato compagno di Pietro. E Pietro impartiva i suoi insegnamenti secondo l’opportunità, senza l’intenzione di fare un’esposizione ordinata dei detti del Signore. Cosicché non ebbe nessuna colpa Marco, scrivendo alcune cose così come gli venivano a mente, preoccupato solo d’una cosa, di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire alcuna menzogna a riguardo di ciò”.
Questa tradizione spiega o vuole spiegare perché un presunto vangelo dettato da Pietro, ebreo e analfabeta, è scritto in greco; ma rende molto straordinario il silenzio di Marco che, attingendo alla migliore delle fonti, ignora tante cose che conoscono gli altri evangelisti, suoi successori: è inammissibile, ad esempio, che il Principe degli Apostoli non abbia mai parlato davanti al suo segretario, del Discorso sulla Montagna e della Preghiera del Signore, parti della predicazione del Messia che costituiscono l'essenza del suo insegnamento; che non gli sia riuscito di nominare Giuseppe, il padre di Gesù, così come Anna e Caifa, i carnefici del Signore; che non abbia affatto menzionato Paolo, il persecutore dei Nazareni e suo rivale e che abbia spinto la modestia fino al punto di non far allusione alla parola divina sulla quale è assisa l'autorità della Chiesa e la sua preminenza personale nel Collegio dei Dodici: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Matteo 16:18-19). Inoltre, questa spiegazione non ci insegna nulla che riguardi la persona di Marco. Gli antichi prologhi dei vangeli (Alfred Loisy, Evang. Synopt., 1,  pag. 51) aggiungono che Marco era di origine levitica, che scrisse il suo libro in Italia, che divenne vescovo di Alessandria e morì martire. È impossibile attribuire il minimo valore storico a questi insignificanti romanzi. La tradizione, inoltre, assimila l'evangelista Marco a Giovanni Marco, che lasciò Paolo per accompagnare Barnaba a Cipro (Atti 15:39).
Il Papia, che si fa il portavoce di Giovanni l'Anziano, era, come abbiamo visto, un vescovo di Ierapoli, morto nel 163 circa. “Egli ha ricercato (Grande Encyclop., art. Papia) con molta attenzione, gli echi della tradizione apostolica ed ha riunito ciò che ha trovato, in un'opera (Spiegazioni delle parole del Signore) di cui non restano che dei rari frammenti, il cui significato è molto controverso”. Eusebio (260-340), vescovo di Cesarea che, nella sua Storia ecclesiastica, ha conservato qualche frammento del libro di Papia, lo definisce “una mente molto piccola” che non fa affatto  aumentare la fiducia già molto limitata che avremmo potuto accordargli. Papia, inoltre, vivendo più di un secolo dopo Gesù, non ha potuto che raccogliere delle leggende discutibili, prive di consistenza, che erano diffuse in mezzo a sette cristiane della quarta generazione che succedette ai discepoli immediati dell'Unto e lui non era certamente uomo che li controllasse minimamente.
Quale era questo Giovanni l'Anziano che il vescovo di Ierapoli indica come sua fonte di riferimenti? È l'apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e compagno di Gesù? L'unica riconciliazione delle date mostra che è più che improbabile che Papia abbia potuto conoscerlo e soprattutto, raccogliere dalla bocca di un macrobita più che centenario, le informazioni che riporta. Se non è affatto Giovanni, “il discepolo prediletto”, chi è dunque? Un compilatore di leggende, come lo stesso Papia? In sintesi, resta solamente acquisito il fatto che un personaggio molto oscuro, di nome Papia, sostiene le sue affermazioni tendenziose sulla testimonianza di un Giovanni completamente sconosciuto, per aumentare il credito di un'opera scritta da un autore ancora più problematico.
Così dunque, secondo l'ammissione stessa della Chiesa, Marco non ha affatto conosciuto Gesù. Il titolo del libro (Vangelo secondo san Marco) dimostra che non si è affatto osato sostenere, all'origine, mentre ancora l'ignoranza, la credulità e l'assenza universale di spirito critico lasciavano la libertà di permettersi quasi tutto, che fosse l'opera personale di questo apostolo. Inoltre, nulla nel testo, indica che sia stato redatto da un uomo nominato Marco o da qualsiasi altro personaggio del circolo leggendario di Cristo: è uno scritto assolutamente anonimo, qualunque cosa si possa dire. Del resto, queste opere pseudo-epigrafiche erano, per così dire, la regola in questo ambiente: la moltitudine degli apocrifi, delle apocalissi, dei versi sibillini ne sono la prova. È dunque impossibile vedervi la relazione persino alterata dei racconti di un testimone che abbia assistito agli eventi, e questa conclusione si impone con ancor più forza, per quanto riguarda gli altri tre vangeli che sono solo un rimaneggiamento di quello.
Comunque sia, una critica sgombra da ogni ostacolo confessionale non può ammettere che la composizione più antica dei nostri vangeli risalga a prima della distruzione di Gerusalemme (70); e la data  più antica della sua redazione deve essere collocata intorno all'anno 80, che ci preclude ancora di supporre l'opera di un contemporaneo di Gesù o di san Pietro. La sua brevità, in rapporto ai vangeli seguenti, può far credere che la leggenda del Crocifisso, che non è ancora stata delineata ai tempi di Paolo, stia cominciando a svilupparsi solo all'epoca di Marco. Bisogna egualmente riconoscere che questo vangelo è quello sul quale l'immaginazione e lo spirito settario hanno meno lavorato, il che non ci impedisce di aggiungere che la tradizione ecclesiastica che lo dà come documento di prima mano non è affatto sostenibile e che essa è respinta all'unanimità dall'esegesi contemporanea.

GLI EVANGELISTI: MATTEO

Il vangelo che gli esegeti moderni collocano generalmente come il secondo in ordine di tempo (e, a volte il terzo), è quello che porta il nome di Matteo e che la Chiesa ha messo in testa al Nuovo Testamento. La  sobrietà notevole di Marco è sostituita dalla abbondanza dei discorsi, molto sconnessi, peraltro, attribuiti al Redentore. Questi discorsi, se ci informano circa la dottrina del Messia, o almeno sull'idea che se ne faceva intorno all'anno 100, non ci insegnano nulla del tutto sull'uomo, e il testo rimanente non dice affatto molto di più sulla biografia di Gesù, la cui persona umana sembra aver interessato solo pochissimo gli scrittori sacri. Sembra incredibile per la nostra intelligenza contemporanea che si sia trattato con tanta indifferenza un personaggio reale, che aveva giocato un ruolo di una certa importanza. Matteo, che si ritiene essere stato il compagno di Gesù, non ci indica né la data della sua nascita, né quella della sua morte, né addirittura la sua età approssimativa; non ci dice affatto di cosa viveva; ignora l'epoca della sua predicazione, gli eventi che la hanno preparata e preceduta; non sembra affatto conoscere l'agitazione intensa della tormentata Palestina. L'incontro del Battista e del Redentore è riportato in due righe, senza che alcuno dei due profeti interroghi il suo collega circa i suoi progetti. È senza alcuna spiegazione che i pescatori galilei abbandonino tutto per accompagnare il Salvatore, quando disse loro: “Seguitemi!” È difficile essere più lontani dalla realtà.
Ecco, spogliato del meraviglioso che costituisce la maggior parte del racconto, ciò che si può estrarre da Matteo:
Innanzitutto, una genealogia assai maldestra e totalmente diversa da quella che ci viene presentata dal terzo evangelista, collega Giuseppe a Davide e, questo re, ad Abramo, antenato mitico degli ebrei. Queste due genealogie, notiamo en passant, non sempre concordano con la successione dei re fornita dall'Antico Testamento ed elencano dopo di loro una serie di nomi completamente sconosciuti: esse sono, inoltre, assai poco ammissibili, una rispetto all'altra. Inoltre, gli evangelisti, nella loro ingenua cecità, non realizzano affatto che se Giuseppe fosse disceso realmente dal glorioso monarca, Gesù non sarebbe più per quello di sangue reale, poiché lo sposo della Vergine non è affatto suo padre; logicamente, è la lista degli antenati di Maria che avrebbero dovuto dettagliarci. [6]
Scartiamo, come è giusto che sia, il sogno di Giuseppe (1:20), nel quale un angelo del Signore [7] gli annuncia che il figlio di sua moglie è stato concepito per l'opera dello Spirito Santo. È per la garanzia di un'enormità così prodigiosa, una conferma ben magra e di cui pochi mariti si accontenterebbero ai nostri giorni: Giuseppe è veramente di composizione troppo buona. Matteo, del resto, abusa un po' troppo dei sogni dello sposo credulone dell'Immacolata in questi capitoli 1 e 2 e, ai nostri giorni, siamo poco disposti ad accettarli come prove; ma, nello spirito dell'evangelista, così come in quello dei cristiani convinti, costituiscono una dimostrazione irrefutabile. Marco e Giovanni, al contrario, non lasciano affiorare alcun sospetto sulla legittimità del figlio di carpentiere di Nazaret; ma, con Matteo, il mito di una diretta filiazione divina comincia ad emergere e Luca (1:26-30) gli darà uno sviluppo più ampio. Giovanni ha soppresso, senza esitazione, tutti i racconti d'infanzia: altrettanto credulone dei suoi predecessori, si mostra tuttavia meno grossolanamente ingenuo. Il primo evangelista ci fa in seguito il racconto di un incredibile massacro di bambini appena nati, ordinato da Erode e di cui alcun altro scrittore del Nuovo Testamento ne fa menzione. È inutile dire che nessuno storico ha mai raccontato questo crimine inaudito e che Giuseppe, che mette tante crudeltà orribili sul conto di Erode, non ha mai inteso parlare di questo crimine esecrabile; ma si lascino da parte questi racconti fantastici per venire ad eventi pressappoco ammissibili.
Gesù è dunque nato a Betlemme (2:1) — perché il re Davide nacque lì e una profezia di Michea (5:1) annuncia che il capo supremo di Israele uscirà da Betlemme Efrata per far cessare la guerra e mettere il popolo scelto a capo di tutte le nazioni. Sono necessarie, inoltre, le luci della fede per riconoscere il pietoso Cristo evangelico in questa magnifica descrizione. È al tempo di Erode il Grande che il Salvatore viene al mondo; è figlio putativo del carpentiere Giuseppe, e di Maria (13:55); ha quattro fratelli minori (Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone) e delle sorelle (13:55). Subito dopo la morte del re ebreo, Matteo fa ritornare Giuseppe e la sua famiglia dall'Egitto, dove era fuggito prima del massacro degli Innocenti, a Nazaret, “perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: Sarà chiamato Nazareno” (2:23). [8] Questa Fuga in Egitto, di cui non parla alcuno degli altri tre evangelisti, è altrettanto favolosa dell'Adorazione dei Magi e della stella che li precede per guidarli. [9] Non più di Marco e di Giovanni, Matteo non dice che Gesù è stato circonciso; Luca solo (2:21) menziona questa cerimonia, d'altronde molto probabile e che la Chiesa festeggia ancora. Più tardi, non si sa a quale età (la data, come al solito, è indicata nel testo solo dal cliché: “in quel tempo”), Gesù troverà Giovanni per farsi battezzare da lui, il che suggerisce che divenne uno dei suoi proseliti (3:13). Non appena apprende che per ordine di Erode Antipa, il Battista è stato gettato in prigione (4:12, 17), il figlio del carpentiere comincia a predicare per suo conto in tutta la Galilea e riunisce dei discepoli.
Nel suo villaggio natale, è poco ascoltato (13:58); tuttavia, il tetrarca Erode-Antipa si inquieta per questa propaganda (14:2) che per lui non è senza dubbio affatto meno ostile di quella di Giovanni che ha appena decapitato e il nuovo ispirato deve allontanarsi. Finisce per recarsi a Gerusalemme, dove viene arrestato e consegnato a Ponzio Pilato che lo fa crocifiggere. Giuseppe d'Arimatea si prende cura di metterlo nel sepolcro.
Come si vede da quanto precede, il vangelo di Matteo, nei fatti che non è affatto impossibile ammettere, non devia essenzialmente (tranne che per la fuga in Egitto) da quello di Marco, di cui egli è certamente solo un rimaneggiamento molto libero, con l'aggiunta di numerosi discorsi. Noteremo in particolare l'aggiunta del Sermone sulla Montagna e della Preghiera del Signore che Marco e Giovanni non conoscono affatto e che Luca riproduce con qualche variante.
Le informazioni che possediamo su Matteo sono ancora più rare, se possibile, di quelle raccolte su Marco e provengono dalla stessa fonte: Papia, appoggiato all'autorità di Giovanni l'Anziano; non hanno affatto maggiore consistenza. Si veda ciò che dice Papia:
“Matteo” (Alfred Loisy, Evang. Synopt. I, pag. 23) “scrisse i detti del Signore in lingua ebraica; e ciascuno poi li interpretava come poteva”. Chi è allora l'autore della versione greca che ci è pervenuta? Mistero. La tradizione della Chiesa fa di Matteo il pubblicano che lasciò la sua funzione con tanta facilità per seguire il Salvatore (Matteo 9:9) e che Marco (2:14) e Luca (5:27) chiamano Levi; è bizzarro in questa ipotesi che Matteo parli così sdegnosamente del suo precedente mestiere (9:10-11 — 18:17 — 21:32). Soprattutto, è inaccettabile che un testimone oculare abbia potuto raccontare così tanti miracoli, alcuni dei quali, come ad esempio, quello di Gerasa, hanno scandalizzato un sacco di persone, anche tra i cristiani più convinti.
“L'attribuzione del primo vangelo all'apostolo Matteo non è affatto sostenibile” (Alfred Loisy, Evang. synopt. I, pag. 81). Nulla, inoltre, nell'opera, indica che il vangelo secondo san Matteo sia stato scritto da un personaggio con questo nome o da un altro contemporaneo di Gesù: al pari degli altri vangeli, è un opuscolo completamente anonimo, attribuito gratuitamente a Matteo, il pubblicano, probabilmente perché è l'unico dei libri della Buona Novella che lo nomina.

GLI EVANGELISTI: LUCA

Il terzo vangelo è sicuramente, a sua volta, solo una copia ritoccata di Marco; di Matteo, egualmente, a meno che non sia costui che abbia imitato il testo di Luca, un'alternativa ancora discussa dagli esegeti. Vi si discosta, tuttavia, in maniera sensibile. La genealogia di Gesù, o piuttosto quella di Giuseppe, come lui la presenta, differisce totalmente da quella avanzata da Matteo; ma, mentre costui segue da vicino la lista dei Re enumerati nell'Antico Testamento, tra Davide e Zorobabele, Luca, al contrario, interpone nello stesso periodo, una serie di nomi del tutto sconosciuti. Tra Zorobabele e Giuseppe, l'uno e l'altro evangelista immaginano una nomenclatura fantasiosa di nove personaggi [10] nel primo vangelo e di diciotto nel terzo, di cui nemmeno uno è comune ad entrambe le serie. Il padre stesso di Giuseppe non è affatto lo stesso in entrambe le parti della Buona Novella. Alfred Loisy, l'erudito esegeta (Evang Synopt. I, pag. 329) pensa “che queste genealogie sono state create per servire d'argomento” e  che la differenza tra Matteo e la Bibbia è voluta: questa spiegazione è probabilmente buona, ma bisogna ammettere che non è affatto naturale che ci ispiri fiducia in degli autori che falsificano così facilmente i testi più sacri per i bisogni della loro causa.
Luca dà un grandissimo sviluppo alla leggenda della concezione verginale e a quella della nascita miracolosa di Cristo. Marco, al pari di Giovanni, non parla di nulla di tutto ciò e Matteo ne fa menzione solo come un sogno di Giuseppe. Luca è anche l'unico che colloca un aneddoto (2:43-49), fin troppo puerile, nel lungo periodo della vita di Gesù che si estende tra la sua nascita e il suo battesimo da Giovanni: per trenta anni (forse cinquanta), l'esistenza del futuro Redentore scorre oscura e, nulla ne prepara, non più in Luca che negli altri vangeli, [11] l'entrata in scena del figlio di Dio e il colpo di teatro con cui i pescatori galilei che non l'hanno mai visto prima, abbandonano tutto per seguirlo. Del resto, Luca confessa di non essere affatto un testimone oculare, ma “unicamente un compilatore dei racconti che correvano sul Cristo: crede quindi solamente necessario, a imitazione di parecchi altri, scrivere la storia degli avvenimenti accaduti, dopo essersi informato esattamente e e seguendo il rapporto di coloro che li hanno visti con i loro propri occhi” (Luca 1:1-3). Soltanto, dato che Luca scrive intorno all'anno 100, questi testimoni devono essere stati molto vecchi!
Ecco ora il riassunto della sua storia, di cui sopprimiamo i miracoli, così come abbiamo fatto per gli altri evangelisti:
Il Salvatore nacque a Betlemme (2:4-7), al tempo del censimento di Quirino, governatore della Siria (anno 6); ma Luca sembra anche dire, nel capitolo 1, verso 5, che accadeva ai tempi di Erode il Grande morto quattro anni prima della nostra era. Forse confondeva Erode il Grande con suo figlio Erode Antipa, fatto che avrebbe rimosso la contraddizione. [12] Il figlio di Maria ha dei fratelli che il terzo evangelista non nomina affatto (8:19-20); al pari di Giovanni, non fa menzione delle sorelle del Nuovo Dio. L'anno 15 di Tiberio (questa è l'unica data precisa citata nel Nuovo Testamento e corrisponde all'anno 29 della nostra era), Giovanni cominciò a predicare in Giudea, Anna e Caifa essendo sommi sacerdoti. In realtà, Anna non esercitava più il sacerdozio fin dall'anno 15 dopo Gesù Cristo, e Caifa, elevato a questo ministero nell'anno 18, lo lasciò nell'anno 36. Dopo che Gesù era stato battezzato da Giovanni, esordisce nella predicazione: aveva allora, a detta di Luca (3:23), una trentina d'anni, che ci porta all'anno 36, se era nato sotto Quirino, e all'anno 26, se era venuto al mondo nell'ultimo anno del regno di Erode. Con un po' di buona volontà, entrambe le date possono corrispondere col racconto di Matteo. La tradizione prende la media tra questi due punti di riferimento e pone la morte del suo eroe intorno all'anno 30.
Dopo una predicazione [13] la cui durata non è affatto indicata, ma che sembra essere durata un anno, Gesù va a Gerusalemme (19:1), vi viene arrestato e condotto al sommo sacerdote. Al pari di Marco, Luca non dà il nome di questo importante pontefice; tuttavia, ci fa apprendere (3:2) che al momento in cui il futuro Redentore si fece battezzare, Anna e Caifa erano sommi sacerdoti, il che è inesatto, e si può supporre che egli li consideri entrambi ancora in carica, al momento della morte del Salvatore, a continuare il loro duumvirato immaginario. Ciò che può ancora impegnarci di più a credergli, è che Giovanni, riproducendo lo stesso errore, conduce il Cristo successivamente da Anna e da Caifa. All'indomani del suo arresto, l'imputato viene trasferito al tribunale di Ponzio Pilato, che lo interroga e lo rimanda ad Erode. Luca è l'unico degli evangelisti che immagina l'intervento di Erode in questo affare e, comunque, lo racconta assai goffamente. Il tetrarca che non può estrarre alcuna risposta da parte dell'incolpato, si accontenta, “con i suoi soldati”, di farsi beffe di lui e lo fa ricondurre dal procuratore Pilato che tenta vanamente di salvare il disgraziato dicendo che né lui né Erode lo hanno trovato colpevole di alcun crimine; ma è obbligato a cedere alle grida di una popolazione furiosa e a farlo crocifiggere “con due altri malfattori” (23:32). Giuseppe d'Arimatea si prende cura del suo funerale, dopo averne ottenuto l'autorizzazione del procuratore.
Questo racconto segue da vicino quello dei primi due sinottici; tenta persino di datare alcuni fatti; ma, sfortunatamente, le date che indica non concordano affatto tra loro, né con ciò che la Storia reale ci fa conoscere.
Se abbiamo ancora su Marco e su Matteo alcune informazioni (peraltro più che discutibili), su Luca, non possediamo nulla di nulla. La Chiesa, è vero, identifica il Luca dei vangeli con l'Autore degli Atti, a causa della somiglianza delle dediche delle due opere (Luca 1:3 — Atti 1:1), e al discepolo di Paolo, “il caro medico”, che è menzionato nella Epistola apocrifa ai Colossesi (4:14). Questo non è per nulla impossibile, ma è ancora molto meno sicuro, perché, in tutto il Nuovo Testamento, è necessario rinunciare a cercare qualcosa che sia preciso e soprattutto solido. La tradizione ecclesiastica ci presenta egualmente Luca come uno dei settanta discepoli istituiti dal Signore e che il terzo vangelo è l'unico a menzionare (10:1); ma questa ipotesi non concorda con il preambolo (1:1-2-3). Tommaso d'Aquino farà di Luca un pittore, senza che nessuno sappia il perché, così che il caro dottore è diventato, non il patrono della Facoltà, ma quello della corporazione di artisti del pennello. Non vi è là, ovviamente, nulla di serio a riguardo.
Tutto sommato, non si sa assolutamente nulla di Luca, nemmeno se il redattore del terzo vangelo portasse questo nome. È vero che lo stesso si può dire altrettanto degli altri tre evangelisti. La sua relazione è dunque un'opera altrettanto anonima di quella degli altri libri della Buona Novella, e non vi è affatto più una sola parola che ci possa permettere di sospettarne l'autore.

GLI EVANGELISTI: GIOVANNI

Si comprende da subito, alle prime parole del quarto vangelo, che si arriva ad un'epoca sensibilmente posteriore a quella dei primi tre (un quarto di secolo, almeno) e che il cristianesimo comincia a guadagnare delle classi un po' meno ignoranti. La narrazione di Giovanni non è però, a sua volta, che un ritocco dell'opera di Marco, allo stesso modo dei vangeli di Matteo e di Luca, ma si vede che l'autore ha qualche tintura della filosofia neo-platonica, così estranea ai suoi predecessori: egli parla del Verbo come Filone ed è il solo, fra gli scrittori del Nuovo Testamento, che ne parla; sopprime le parabole che trova, senza dubbio, un po' troppo infantili; cancella dal suo racconto tutte le imprecazioni contro i ricchi che occupano così tanto spazio nei suoi colleghi, soprattutto in Luca, e che, probabilmente, suonerebbero male nell'ambiente più elevato che è il suo. È di gran lunga più sobrio a proposito dei fatti mitici: passa sotto silenzio la serie infinita di guarigioni meravigliose infilate dai suoi predecessori e si accontenta di un solo paralitico e di un unico cieco. La colomba che discende dai cieli aperti, il Diavolo che tenta il Messia, la Metamorfosi di Cristo o Trasfigurazione, il potere trasmesso dal Cristo ai suoi Apostoli di scacciare i demoni e di operare delle guarigioni prodigiose, tutte queste assurdità rivoltano troppo il suo buon senso perché si abbassi a riportarle. Le questioni di moralità così raramente affrontate nei tre sinottici, non sono nemmeno toccate da Giovanni; il Discorso sulla Montagna che forma la sintesi evangelica come la sua quintessenza, gli è sconosciuto, così come la Preghiera del Signore, di un realismo senza dubbio troppo grossolano per il suo delicato misticismo.
Scritto in greco, così come i vangeli precedenti, questo si discosta ancora molto da quello dei sui predecessori nell'esposizione dei fatti e delle gesta attribuite al Salvatore; ha dei miracoli diversi e dei nuovi personaggi che hanno ignorato i più antichi; l'azione è quasi nulla; l'insieme, soprattutto, produce un'impressione di totale difformità; è realmente a parte nella collezione sacra. Tuttavia, il racconto degli eventi pressappoco ammissibili della carriera di Gesù è, praticamente, lo stesso di quello delle tre opere precedenti. Sono principalmente le dottrine ad essere differenti. Ecco, sbarazzatosi del soprannaturale e delle teorie mistiche che lo ingombrano, il riassunto di ciò che concerne la vita del Redentore:
Giovanni passa interamente sotto silenzio la concezione verginale, i Re Magi, la Fuga in Egitto, ecc. ecc., e allo stesso modo di Marco, apre il suo libro, ex abrupto, con l'incontro di Cristo e di Giovanni (1:29); non dice nemmeno che il primo fu battezzato dal secondo. Gesù riunisce dei discepoli [14] e comincia la sua predicazione in concomitanza [15] con quella di Giovanni (3:22-26), poi percorre la Galilea e va una prima volta a Gerusalemme (5:1). Torna quasi subito sulle rive del lago di Tiberiade e, più tardi, non osando ritornare apertamente nella città santa (7:1), nonostante i suoi fratelli che non credono affatto alla sua missione (e di cui l'evangelista non dà affatto i nomi) lo spingano, al fine probabile di sbarazzarsi di lui, egli vi si reca in segreto (7:10). Arrestato molto tempo dopo, è condotto dal sommo sacerdote Anna, suocero di Caifa che, in seguito ad un interrogatorio brevissimo, lo rimanda a suo genero; [16] ma costui non si interessa un solo minuto dell'accusato. Il Messia è finalmente portato al procuratore che, suo malgrado, lo fa mettere in croce; allora Giuseppe d'Arimatea si impegna generosamente per assicurargli una sepoltura adeguata.
Questo racconto è più corto e meno ricco di episodi di quello dei tre sinottici, senza, inoltre, che si possa contarvi molto. Nella misura in cui ciascuno degli evangelisti si allontana dall'epoca degli eventi che racconta, le questioni di dogma e di dottrina che, perfino in Marco, occupano il posto maggiore, diventano sempre più preponderanti e la personalità confusa di Gesù svanisce ancora di più e si perde più profondamente nella nebbia della leggenda; questo fenomeno è particolarmente manifesto nel quarto vangelo, dove ogni azione del Redentore prende la forma fastidiosa dell'allegoria.
Secondo la tradizione ecclesiastica, Giovanni, figlio del pescatore Zebedeo, è uno dei primi discepoli e il più giovane degli Apostoli, ma nulla nel Sacro Libro supporta questa affermazione. Il vangelo “dell'amore”, anonimo fino ad allora, come i tre sinottici, si pretende all'improvviso, nell'ultimo capitolo (21:24), scritto da “il discepolo che Gesù amava”; la Chiesa dà a questo discepolo il nome che manca nel testo sacro, lo chiama Giovanni. Inoltre, tutto questo capitolo 21 sembra essere stato molto visibilmente aggiunto dopo il fatto, dato che la conclusione logica del racconto si trova ai versi 30 e 31 del capitolo precedente:
“20:30. — Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro.
31. — Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.
Contrariamente all'affermazione del verso 30 sopra, il capitolo 21 comincia con il miracolo di una nuova apparizione del Risorto ai suoi discepoli, sulla riva del mare di Tiberiade e con quello di una pesca miracolosa.
Inoltre, mentre secondo il titolo, il quarto vangelo è solamente scritto secondo san Giovanni, l'autore tenta sfrontatamente, nel paragrafo finale, di far passare l'opera come redatta dall'apostolo stesso:
“21:24. — Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera”.
È piuttosto comico vedere, in questo verso, la sincerità della testimonianza di Giovanni, certificata ingenuamente da Giovanni stesso o chiunque voglia farsi passare per lui e che non sembra aver conservato o meditato sui passi precedenti dello stesso vangelo: “Tu testimoni di te stesso; la tua testimonianza non è vera” (5:31 — 8:13). Attualmente, non vi è alcuna critica che difenda l'opinione ortodossa secondo cui il quarto vangelo sia della mano del figlio di Zebedeo o solamente di quella di un contemporaneo di Gesù. Gli Atti dicono anche che il discepolo amato non ricevette alcuna istruzione: “...avendo capito che Pietro e Giovanni erano uomini illetterati e senza istruzione” (Atti 4:13). Non ha dunque potuto scrivere nulla e ancor meno avere qualche tintura della filosofia neoplatonica.
Tutto sommato, dal punto di vista della Storia, non vi è ancora nulla da guadagnare dal quarto vangelo, meno ancora forse che dai tre precedenti.

Tuttavia, malgrado le divergenze e le contraddizioni dei quattro scrittori sacri sui dettagli secondari, malgrado la vaghezza e l'incertezza della loro narrazione, l'imprecisione e gli errori delle date, dei luoghi e delle persone, l'improbabilità di tutti i fatti raccontati che contengono le loro opere, il loro accordo su alcuni degli eventi umanamente ammissibili della vita del Redentore sarebbe di grandissimo peso se, come ha riconosciuto da lungo tempo l'esegesi, il racconto degli ultimi tre non fosse nient'altro che un rimaneggiamento dell'opera di Marco, il più antico tra loro, benché, tuttavia, abbia scritto cinquanta anni, almeno, dopo l'epoca in cui avrebbero dovuto accadere i fatti che lui riporta, e molto lontano dai luoghi che ne sono stati presumibilmente il teatro. “Il più antico vangelo in ordine di tempo, secondo noi quello intitolato Marco, ha dato nascita agli altri tre” (M. Vernes, Gde Encycop. pag. 870). Ne risulta che noi non abbiamo in realtà che un'unica fonte — e quanto dubbia — di informazioni su Gesù. Ci sembra più che insufficiente perché si sia in diritto di affermare, con qualche seria probabilità, l'esistenza del Redentore. Inoltre, nessuno dei manoscritti dei vangeli che possediamo, risale a prima del IV° secolo, e le differenze che si presentano tra loro provano che, da quel tempo, il testo primitivo era già stato gravemente alterato.

NOTE


[1] A volte anche la profezia, cosidetta compiuta, dice esattamente il contrario di ciò che l'evangelista intende fargli provare, ad esempio:
Matteo 12:17. — “Perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia:”.
18. — “Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto… e annuncerà la giustizia alle genti”.
19. — “Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce”.
Matteo non si rende affatto conto che il suo Cristo fa proprio tutto il contrario di ciò che Isaia ha predetto (42:1-2): infatti, non ha predicato che in alcuni rari borghi della Galilea, disputa costantemente contro i farisei e, quasi sempre, propaga le sue teorie all'aria aperta.

[2] Secondo Voltaire (Dict. philos., Art. Vangelo), “nessuno dei primi Padri della Chiesa, fino ad Ireneo incluso (morto intorno al 200), cita alcun passo dei quattro vangeli che conosciamo”. Non abbiamo potuto controllare questa asserzione del celebre filosofo.

[3] Secondo Voltaire (Histoire de l'Etablissement du Christianisme), sant'Ireneo (120-200) afferma che Gesù morì tra i 50 e i 60 anni, e Ireneo pretendeva di aver conosciuto degli anziani che avevano visto Giovanni l'evangelista. Nulla nei vangeli di Marco e di Giovanni contraddice l'affermazione del santo vescovo e, senza fare alcuna violenza al testo sacro, si potrebbero altrettanto bene attribuire sessantasei anni a Gesù, poiché vi è, infatti, questo intervallo tra l'avvento di Erode (—40), sotto il quale nacque il Redentore, e la fine dell'amministrazione di Ponzio Pilato (+36) che lo fece crocifiggere; si può egualmente, come fa la Chiesa, appoggiandosi su Luca (3:23), porre la nascita di Cristo alla fine del regno di Erode (—4), e la sua morte dopo l'arrivo del procuratore in Giudea (+26).

[4] Un pezzo apocrifo di un presunto Lentulo, proconsole della Giudea davanti a Pilato, traccia di Gesù questo ritratto, in un rapporto indirizzato al Senato romano:
“Uomo di giusta statura, è molto bello di aspetto; ha i capelli di color del vino, sono distesi sino alle orecchie e dalle orecchie alle spalle sono di color della terra, ma più risplendenti. Ha nel mezzo della fronte in testa in crin spartito alla moda di Nazaret, il volto senza ruga, o macchia, accompagnato da un colore modesto. Le narici e le labbra non possono da alcuno essere riprese con ragione; la barba è spessa ed ha somiglianza dei capelli, non molto lunga, ma spartita nel mezzo. Il suo mirare è molto spaventoso e grave: ha gli occhi come i raggi del sole e nessuno può guardarlo fisso per lo splendore; e quando ammonisce, si fa amare, ed è allegro con gravità. Dicono che nessuno l’ha veduto mai ridere, ma bensì piangere. Ha le mani e le braccia molto belle, nella conversazione contenta molti ma si vede di rado: e quando vi si trova, è molto modesto all’aspetto, e nella presenza è il più bell’uomo che si possa immaginare”.
È inutile dire che questo Publio Lentulo, cosiddetto predecessore di Pilato, è sconosciuto alla Storia e che né Tacito, né Svetonio fanno allusione a questo rapporto. Le rappresentazioni più antiche di Cristo, nelle Catacombe di Roma, sono esattamente l'opposto di questo ritratto, il che dimostra che era assolutamente sconosciuto ai primi cristiani. Nelle immagini pie, la fisionomia del Redentore è abbandonata alla fantasia di ciascun pittore (nessuno di loro, tuttavia, si azzarderebbe ad adornare la sua testa di capelli rosso sangue, come fa Lentulo) e non vi sono affatto due veroniche che si rassomigliano, il che dimostra che la stessa Chiesa non ha voluto tenere alcun conto della falsa descrizione attribuita al supposto proconsole.
La moda di Nazaret, vale a dire l'usanza ebraica, era dai capelli corti; l'acconciatura orientale, il turbante, si adatterebbe d'altronde a una capigliatura folta. A parte alcuni ricchi effeminati o asceti (nazir) come Giovanni il Battista che, per distinguersi dalla folla, facevano voto di non lasciare mai che le forbici si avvicinassero alla loro testa, la popolazione portava i capelli corti, rasi, probabilmente, così come i Romani: “La natura stessa non v'insegna ella che se l'uomo porta la chioma, ciò è per lui un disonore?” (1° Corinzi 11:14).

[5] È scioccante che non sia affatto il padre di Gesù, né sua madre, né alcuno dei suoi numerosi fratelli e sorelle, neppure uno dei suoi apostoli, a farsi carico della sepoltura del Crocifisso. Né Pietro, né Giacomo, i primi dei suoi discepoli, né Giovanni, “il prediletto”, sono preoccupati di compiere questa pia funzione, ed è uno sconosciuto, di cui non c'è mai alcuna menzione a parte questa circostanza, che prende il posto disertato dai parenti. Gli evangelisti sono unanimi nell'affermarlo, senza che uno solo condanni l'odiosa mancanza del loro dovere di cui si rendono colpevoli i parenti e gli amici. Il bonario Pilato, che non si sorprende mai di nulla, non fa nemmeno la constatazione e non solleva affatto obiezioni. Gli Apostoli, così come la famiglia del Signore, seguendo un po' troppo alla lettera il precetto del Maestro: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Matteo 8:22) avrebbero lasciato gettare il corpo di Cristo sulla strada. I discepoli di Giovanni il Battista avevano mostrato più rispetto (Marco 6:29) verso i resti del loro Maestro.
Matteo (27:57, 60) si prende cura di avvertirci che il Giuseppe che fa dono di un sepolcro spazioso, scavato nella roccia, era un uomo ricco e in effetti, la spesa non doveva affatto essere minima.

[6] I rari devoti che leggono il vangelo con qualche attenzione devono anche dirsi che Matteo avrebbe potuto trattenersi dal rammentare così stupidamente che tra gli antenati del Messia, l'Antico Testamento conta Tamar l'incestuosa (1:3), Raab la prostituta (1:4) e Betsabea, l'adultera (1:6) le cui avventure raccontate dalla Bibbia ne sono una delle parti meno edificanti. (Si veda per Tamar, Genesi 38:13-30 — per Raab Giosuè 2:1-21 — 06:17, 22, 23, 25 — per Betsabea, 2 Samuele 11:2 e 27 — 12:1-25). L'evangelista avrebbe potuto evitare a Voltaire la gioia maligna di sottolineare questa discendenza poco lusinghiera. Luca è più delicato e mostra una discrezione di miglior gusto. È da notare che i primi cristiani avrebbero generalmente altrettanti pochi scrupoli del pubblicano di Cafarnao e che non si sono affatto imbarazzati da queste storie che scioccano noi così tanto; a loro sembra anche che piaccia: “Per fede Raab, la meretrice, non perì coi disubbidienti” (epistola agli Ebrei 11:31); — “E così Raab, la prostituta, non fu anche lei giustificata per le opere?” (epistola di Giacomo 2:25). I credenti della nostra età sono molto più riservati: nelle litanie, se chiamano il Cristo figlio di Davide, non si sognerebbero mai di gridare: Gesù, figlio di Betsabea, abbi pietà di noi, e considerebbero come una dannata oscenità l'audacia di imitare la franchezza di san Matteo.

[7] Luca (1:26) conosce il nome dell'angelo e precisa che si chiama Gabriele, ma non sappiamo da quale fonte abbia tratto questa informazione.

[8] Questa predizione, non più del nome di Nazaret, non si trova per nulla nella Bibbia.

[9] Luca sostituisce l'Adorazione dei Magi con quella dei Pastori, che possiede un'apparenza un po' meno chimerica.

[10] La lista di nove personaggi data da Matteo, tra Zorobabele e Giuseppe, suppone in questi antenati di Cristo, una longevità notevole di gran lunga superiore alla media, e una conservazione della virilità ancora più sorprendente: ciascuno di loro avrebbe dovuto avere quasi sessanta anni, quando ha generato il suo primogenito! Sotto questo aspetto, sono quasi altrettanto fantastici dei Dodici Patriarchi dell'Antico Testamento! Ci sono, infatti, più di 530 anni tra Zorobabele e la nascita di Gesù.

[11] Un'opera apocrifa: il Vangelo dell'Infanzia, ricolma, al contrario, questo intervallo di miracoli operati dal divino bambino, fatto che annuncia meglio la sua missione futura rispetto all'entrata improvvisa nel contenuto dei libri ammessi dal Canone ecclesiastico. Allo stesso modo, un altro apocrifo, il Vangelo della nascita di Maria, ci insegna il nome del padre e della madre della Vergine, Gioacchino e Anna, nomi che la Chiesa ha trattenuto, pur respingendo il resto di queste favole.

[12] Eppure Luca (3:1, 19 — 9:7) distingue Antipa sotto il nome di Erode il tetrarca, fatto che è accurato e sembra dimostrare che non scambia affatto i due Erodi l'uno con l'altro; ma, forse, confonde i titoli, al pari di Marco che, non parlando affatto di Erode il Grande, chiama Antipa “il re Erode”; Matteo non fa affatto la stessa confusione di titoli, anche se distingue i due tiranni, poiché menziona la morte del primo prima di occuparsi del secondo. Giovanni non nomina né l'uno né l'altro.

[13] Al pari dei suoi predecessori, Luca afferma che la predicazione del successore del Battista non ebbe alcun successo nel suo paese natale ed aggiunge (4:29) che il popolo di Nazaret lo cacciò dalla loro città e lo inseguì per ucciderlo. Giovanni (4:44) dice solamente che “Gesù stesso aveva attestato che un profeta non è onorato nella sua propria patria”, ma questa riflessione angosciante non regge affatto al resto del racconto e non ha nulla a che fare con il contesto.

[14] Giovanni non dà affatto, come i suoi predecessori, una lista dei Dodici e nomina solo sei degli Apostoli (che chiama solamente discepoli) nel corso del suo libro: Andrea, Simon Pietro, Filippo, Tommaso, Giuda e Giuda; ma assegna un po' di ruolo a Filippo e a Tommaso, di cui i sinottici ci fanno solo conoscere i nomi. Curioso oblio, l'apostolo Giovanni non è affatto citato, proprio nel vangelo che porta il suo nome. La tradizione della Chiesa dichiara nondimeno che è lui che è designato dalle parole: “il discepolo che Gesù amava” (13:23 — 21:20).

[15] Secondo Marco (1:14) e gli altri sinottici, è solo dopo l'arresto di Giovanni che Gesù cominciò a predicare il vangelo del regno di Dio.

[16] Anna, come abbiamo già visto, non fu mai il sommo pontefice al tempo di Pilato; ma Giovanni, riproducendo questo errore di Luca e dando ad Anna il titolo di arcisacerdote (archiereus) (18:15, 19) che egli ha portato in passato, ha cura di spiegare che è allo stesso tempo il suocero di Caifa, il sommo sacerdote attuale (18:13, 24); d'altra parte, se l'evangelista è, su questo punto, ben informato, non si vede affatto a quale titolo Anna si immischia nel giudicare da solo il Salvatore e perché Caifa si disinteressa alla questione.

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