martedì 19 febbraio 2019

Il Cristo è esistito?La storia e la geografia nei vangeli (VI)


CAPITOLO VI

LA STORIA E LA GEOGRAFIA NEI VANGELI 

I personaggi dell'entourage di Gesù non hanno affatto, così come lui, maggiore realtà apparente del paese dove recitano il loro ruolo: nessuno di quelli nominati contemporaneamente nei quattro vangeli, è menzionato nella Storia, al di fuori del Battista e di Ponzio Pilato; e, nel piccolo numero degli altri autori del mito sacro conosciuti da tutti gli evangelisti, non vi è che Pietro, il cui nome si ritrova egualmente negli Atti degli Apostoli e nelle epistole autentiche.
Ciascuno degli evangelisti ha i suoi personaggi particolari di cui gli altri autori della Buona Novella non si curano per nulla: Marco ignora il nome del padre di Gesù e financo quello di Caifa, il Deus ex machina del dramma della Passione; né lui né Matteo conoscono Anna, l'ex sommo sacerdote che, in Giovanni e negli Atti possiede più importanza di Caifa. Matteo è l'unico che abbia sentito parlare di Archelao, etnarca della Giudea in quest'epoca. Giovanni non è affatto informato dell'esistenza della metà degli Apostoli, non sa nulla neanche di Giovanni e di Matteo, i due cosiddetti evangelisti; i due Erodi gli sono sconosciuti. Di tutti loro, Luca è l'unico di cui il nome di Tiberio, l'imperatore regnante, ha colpito le orecchie. Il quarto evangelista non vuole nemmeno sapere che la madre di Cristo si chiama Maria.
I pochi personaggi storici della tragedia del Golgota il cui nome si riscontra in uno o nell'altro dei vangeli, in generale, sono menzionati solo in una maniera molto imprecisa e contraddittoria: Erode Antipa non portava mai il titolo di re con cui Marco (6,14) lo decora ma quello di tetrarca che Matteo (14:1) e Luca (9:7) meglio informati gli assegnano; Anna non era affatto un sommo sacerdote nello stesso periodo di Caifa, poiché non c'erano mai due sommi pontefici nello stesso tempo a Gerusalemme. Anna ha portato questo titolo dall'anno 6 all'anno 15; il suo genero Caifa mantenne la tiara dall'anno 18 all'anno 36. Tre altri oscuri sommi sacerdoti si succedettero l'un l'altro tra Anna e Caifa. Giovanni (18:13, 15) fa lo stesso errore di Luca, ma aggiunge: “Anna, suocero di Caifa, che era in carica di sommo sacerdote quellʼanno”, che è esatto. Marco (14:53) non sa quale personaggio fosse sacerdote in quel momento; Luca non ne ha fornito più il nome nel racconto della Passione (10:54), ma (3:2) dice che durante l'anno 15 di Tiberio, vale a dire, per quanto lo si possa supporre, nell'anno che precedeva la crocifissione, Anna e Caifa erano sommi sacerdoti nello stesso tempo. Negli Atti a lui attribuiti, l'autore del terzo vangelo aumenta la confusione, dando il titolo di sommo sacerdote ad Anna, a scapito di Caifa (Atti 4:6).
Quirinio (Luca 2:2) non era affatto legato di Siria al tempo di Erode il Grande, ma solamente al tempo di suo figlio Erode Antipa, e il censimento della Giudea che, secondo il rapporto di Flavio Giuseppe, provocò una sedizione, ebbe luogo solo nell'anno 6, vale a dire dieci anni dopo la morte del primo Erode. Lisinia, tetrarca di Abilene (Luca 3:1), non sembra aver avuto più realtà della presunta tetrarchia che Luca gli concede generosamente.
Si vede dunque che gli evangelisti ignorano praticamente tutto della situazione politica della Palestina in quest'epoca. Non fanno nemmeno la minima allusione ai fatti più salienti della storia ebraica contemporanea. Non si percepisce di più, nel loro testo, il fremito che scosse così violentemente tutta la Giudea, l'orrore e l'odio della dominazione romana che infiammarono gli ebrei e li spinsero  quasi ogni giorno a delle rivolte disperate.
L'ignoranza dei luoghi che manifestano gli scrittori sacri non è affatto meno grande: la geografia della Terra Santa al tempo di Gesù è stata dettagliata nelle opere degli scrittori profani e in quelle della Bibbia ebraica e ci è ben conosciuta; così, si è molto sorpresi di non riscontrare quasi mai, nei vangeli, dei nomi di città o di villaggi già citati altrove. Il teatro delle peregrinazioni di Cristo è abbastanza ristretto e deserto, cosicchè i punti remarchevoli vi sono rari e le stesse denominazioni si ripetono fatalmente. Evidentemente, gli autori evangelici non conoscono nulla della Giudea, al di là di qualche nome familiare negli ambienti giudaizzanti e sulle coste della Siria: Gerusalemme, il lago di Genesaret che loro chiamano Mare di Galilea [1] e due o tre altre località; la città di Tiberiade, centro importante della regione dove il Salvatore cammina per un anno senza interruzione non è nominata da nessuno dei redattori della Buona Novella; lo stesso Mar Morto è sconosciuto a loro. E neppure erano stati informati da qualcuno che avesse visitato il paese. [2] La loro immaginazione ha dovuto supplire al suo meglio a questa assenza quasi assoluta di documentazione, che, del resto, non ha affatto l'aria di tormentarli troppo. È sorprendente che Paolo, che ha attraversato il paese, non citi nessuno dei luoghi che la leggenda della Buona Novella renderà presto celebri.
Il più delle volte, comunque, al fine di ridurre ogni difficoltà, ogni incertezza e ogni discussione, si accontentano di indicazioni di un'imprecisione incredibile che fanno una magnifica controparte sulla data famosa e così spesso ripetuta: “In quel tempo”:
“Gesù sale sul monte; [3] — si reca sulla riva del mare; — entra nelle città e nelle sinagoghe; — si reca in un certo luogo, ecc., ecc.” — È impossibile essere meno precisi ed essere meglio al sicuro da ogni controllo; le avventure degli eroi delle Mille e una Notte si svolgono in delle regioni meno nebulose.
L'ignoranza totale degli evangelisti per tutto ciò che concerne la configurazione della Galilea e della Giudea è ulteriormente sottolineata dal fatto che le irregolarità del terreno più importanti dei cosiddetti luoghi visitati dal Signore non sono mai indicate. Nessuna delle numerose montagne che loro fanno scalare da Gesù è designata sotto il suo nome nel loro testo; si accontentano di dire “un alto monte”, e i commentatori si sono rovellati la mente per identificarle. Il Tabor è stato successivamente il monte della Tentazione, del Discorso della Montagna e della Trasfigurazione; altri collocano la Trasfigurazione sul monte Hermon e il discorso sul Kurum-Hattin. Si è rinunciato a situare gli altri monti di cui vi è menzione nel Testo sacro.
La Buona Novella non ha mai fatto la minima allusione agli innumerevoli ruscelli o fiumi, affluenti del Giordano, che Gesù era nella necessità di attraversare nei suoi viaggi di propaganda e di cui alcuni, come il fiume Yarmuk (Ouady el Menadir) e il fiume Yabboq ( Nahr-ez-Zerqa), sono importanti. Inoltre, per andare dalla Galilea a Gerusalemme senza attraversare la Samaria, “Non andate tra i samaritani”, il Salvatore non poté fare a meno di attraversare il Giordano presso la sua imboccatura, transito che non avviene affatto senza presentare troppe difficoltà al momento della Pasqua (fine marzo), allorchè il periodo delle piogge invernali non è ancora terminato e il fiume, gonfiato dal scioglimento della neve dell'Hermon e dell'Anti-Libano, riversa un gran volume d'acqua. Possiamo, è vero, supporre che, senza ponti e guadi praticabili sul Giordano, Gesù preferisce passare il Mar Morto in barca, ma in questo caso, è ancora più inspiegabile che questo mare non sia affatto citato nei vangeli.
Anche quando gli evangelisti (Marco 10:32 — Matteo 20:17 — Giovanni 11:13 — 6:1 — 7:10) fanno andare Gesù a Gerusalemme, essi non citano alcuna delle località che egli doveva inevitabilmente  attraversare in questo percorso, che comprende non meno di una trentina di leghe dalla Samaria e di una quarantantina dalla Perea. Tuttavia, Giovanni (4:5) fa passare Gesù attraverso Sichem al suo ritorno da Gerusalemme, che è un itinerario accettabile, sebbene quello attraverso Gerico indicato da Luca (18:35) sia un po' meno accidentato.
I nomi propri, del resto, quando, eccezionalmente, si riscontrano sotto la loro penna, non situano affatto meglio la narrazione. Nazaret, dove nacque il Salvatore, non è nominata né nell'Antico Testamento, né in nessun autore ebreo, e non è affatto necessario dire che nessuno scrittore profano abbia mai inteso pronunciare questo nome; accade lo stesso con Cafarnao, teatro principale dell'attività di Gesù. Gerasa, che vive il più funambolesco dei miracoli, non ha potuto essere ritrovata; Corazin, Betsaida (Matteo 11:21), Magadan (Matteo 15:39). Betfage (Matteo 21:1) sono tanto tra le nuvole quanto la famosa isola di Laputa, visitata da Gulliver; Dalmanauta (Marco 8:10) è un enigma, ecc., ecc.
Dov'è Nain che nessuno fuorchè Luca ha mai nominato? (Luca 7:11) Dov'è Cana (Giovanni 11:1), dov'è Ennon, vicino a Salim, altrettanto ignorato? (Giovanni 3:23).
Tutta la Galilea degli evangelisti è un mondo dei sogni sul quale non hanno affatto la minima documentazione, e l'ignoranza degli scrittori sacri salta all'occhio di coloro che non sono affatto accecati dalla fede. Eppure, dei critici semi-svincolati dalle credenze della loro infanzia, come Renan, sono pienamente convinti che Gesù fosse un essere reale, benchè manchino di avanzare le prove che avesse vissuto in Galilea, e  si immaginano sinceramente che gli evangelisti fossero perfettamente informati sul loro eroe e sul paese che aveva abitato. Conformemente a questa idea preconcetta, l'attenzione per il colore locale spinge l'erudito autore di “La Vita di Gesù” a visitare in dettaglio il teatro presunto delle gesta di Cristo e a scrivere il suo libro sul posto. È vero che, trascinato dalla sua brillante immaginazione, allorchè ha sotto gli occhi il più desolato dei paesaggi, ne fa nondimeno un ritratto incantevole di questo paese, al giorno d'oggi così arido e che, sicuramente, non era affatto più ridente al tempo del Salvatore. Salvo che ai piedi del Carmelo, nella piccola pianura di Esdrelon, irrigata dal Kison e che è abbastanza fertile, “la Terra Promessa non è mai stata un paese ricco”. [4] — (Grande Encyclop. 25, pag. 871). Sia quel che sia, Renan possiede una lodebole preoccupazione per l'accuratezza che è lontana mille miglia dall'intelligenza dei romanzieri sacri, i quali rimangono costantemente prigionieri del loro sogno, impotenti a gettare uno sguardo sulle realtà esterne.
Questo difetto è ancora più evidente quando, ad esempio (e questo, io credo, non è ancora stato tentato), si prova a ricostruire, se non il teatro delle avventure di Cristo, almeno i luoghi dove scrissero gli evangelisti, studiando i nomi di animali o di vegetali che hanno enumerato nella loro opera, senza pensare di tradirsi. Questo non equivale, ovviamente, ad essere in diritto di esigere da autori che hanno preteso di raccontarci la biografia di Gesù, un trattato di zoologia o di botanica, nè il minimo cenno di quelle scienze: questo derivava dal loro soggetto e loro avrebbero potuto persino non citare alcun animale, nè alcuna pianta, senza che noi abbiamo motivo di rimproverarli; Paolo e gli Atti sono silenziosi a questo riguardo e noi non possiamo biasimarli. Ma dal momento che Marco e i suoi successori nominano quaranta specie, abbiamo tutte le ragioni per credere che le hanno scelte tra quelle che erano loro più familiari e, dall'habitat di quelli esseri, possiamo cercare di dedurre quello degli scrittori. Sfortunatamente, nessuna delle bestie o delle piante di cui si riscontra il nome nei vangeli è tipica: esse si rilevano a Cadice come a Trebisonda; a Marsiglia, come a Cartagine, mentre non è affatto segnalata una di quelle che sono caratteristiche della Palestina e delle regioni circostanti.
Gli animali e le piante il cui nome sfugge per caso alla penna di Marco, di Matteo, di Luca o di Giovanni sono ispirati alle reminiscenze della Bibbia piuttosto che a delle realtà intraviste; le bestie selvagge più comuni della Palestina sono totalmente sconosciute a loro: il leone, così temuto e così incline a tanti nobili paragoni; la pantera, il gatto selvatico, così numeroso;  lo sciacallo e la iena che abbondano, il cinghiale, che non è affatto raro; il camaleonte che cambia, emblema dell'incostanza; l'elegante gazzella, la lepre impura, l'avvoltoio immondo, la cicogna, ecc. non sono mai l'oggetto di un confronto e non entrano mai in una parabola. Incontriamo solo il lupo (Matteo 7:15), la vipera (Matteo 3:7), il corvo (Luca 12:24), animali più comuni in Italia, in Grecia, in Asia Minore che in Galilea. Non so se la volpe (Matteo 8:20) così abbondante in Italia, abbia frequentato la Palestina e se la zizzania (Matteo 13:28) si sia riscontrata fuori dall'Europa in quell'epoca. Marco, del resto, in fatto di animali dell'Oriente, nomina solo la cavalletta e il cammello che gli sono certamente noti solo dalla lettura della Bibbia e che, peraltro, sono forse più numerosi in Asia Minore che in Egitto e in Giudea.
Le citazioni di animali domestici che troviamo negli evangelisti possono farci apprendere ancora meno, poiché accompagnano l'uomo in tutti i paesi; osserveremo solo che non si fa affatto menzione del capro, così abbondante nella Terra Promessa, [5] mentre era molto eccezionale nei dintorni di Roma e di Alessandria, regioni di grandi tenute e di terreni paludosi, due circostanze che le rendono inabitabili per questo animale. Ma, ciò che è assolutamente inaccettabile, anche se i vangeli ne parlano come di qualcosa del tutto normale, è la presenza di un branco di duemila porci (Marco 5:13) in un paese che aveva questi animali in profondo orrore e dove, certamente, nessuno ne faceva l'allevamento. [6] Anche al nostro giorno, e nei paesi che ne possiedono di più, si troverebbero difficilmente tali branchi. [7]
La flora dei vangeli non è affatto meno povera della loro fauna: non si cita affatto il dattero, così prezioso in questo paese e così caratteristico della regione; nemmeno la palma comune [8] e il giuggiolo, che si incontrano ad ogni passo e che conferiscono una fisionomia così speciale al deserto. Gli alberi più comuni in Galilea e anche in tutto il bacino del Mediterraneo, come l'olivo, l'arancio, il limone, il melograno, le mandorle non vengono nemmeno nominati: il fico soltanto figura nel testo (Marco 11:13). Se la senape è, come dice Alfred Loisy (Evang. synopt., pag. 770), la pianta di senape (della famiglia dei cavoli), bisogna ammettere che Luca (13:19) ha dovuto vederlo solo nella febbre, perché esagera singolarmente quando assicura che è un grande albero e parla dei suoi rami. Il cedro maestoso, così caratteristico del Libano e che avrebbe dovuto colpire l'attenzione degli evangelisti compagni di Gesù, se l'avessero seguito nelle sue salite, è a loro altrettanto sconosciuto del dattero dell'ardente valle del Giordano. A parte il giglio (Matteo 6:28), pianta di paesi molto temperati, che non si può gustare nella torrida Galilea, non si cita affatto un solo fiore. Delle dieci o dodici specie di animali o di vegetali che nomina Marco, vi è solo la vite che non si incontra affatto nelle città; ancora vi si vede il traliccio.
Se leggiamo in un manoscritto dei vangeli che Marta offrì una tazza di tè o di cioccolato al Signore oppure che, a Cana, il Messia comandò che fosse servito il caffè, concluderemmo immediatamente che il testo che abbiamo sotto gli occhi è solo una grottesca parodia del Libro Sacro, nel genere dell'Eneide travestita di questo “miserabile Scarron”, oppure che l'autore è proprio di una crassa ignoranza per essere caduto in una tale confusione. Eppure questa ingenuità non sarebbe più inverosimile della storia degli evangelisti che ci mostrano Gesù mentre beve del vino nella torrida Galilea. Solamente, siccome noi sappiamo che il tè, il cioccolato, il caffè sono di introduzione recente nel nostro consumo quotidiano, la loro menzione nella Buona Novella ci scioccherebbe estremamente, mentre, allo stesso modo dei suoi autori ispirati, ci immaginiamo abbastanza naturalmente che il mondo intero debba conoscere il liquore caro a Noè e che, per noi, sia di un uso quasi ancestrale.
La vite, infatti, si rileva solo nei paesi temperati; può, tuttavia, vegetare ancora all'ombra dei datteri, nelle oasi ben irrigate, e di conseguenza, si può riscontrare di rado nella bassa valle del Giordano, dal clima tropicale; ma è inammissibile che, sotto questo cielo di fuoco, si possa fabbricare del vino. Non è che dopo mille difficoltà, mille tentativi infruttuosi, che i nostri coloni di Algeria e di Tunisia sono pervenuti a questo risultato, raffreddando artificialmente, per mezzo del ghiaccio, le loro cantine dove la temperatura non deve superare i 20°, al rischio di arrestare la fermentazione del mosto. Nelle regioni molto calde, il frutto della vite si consuma fresco oppure secco, ma non può essere trasformato in liquore alcolico. Anche sulle alture, il cui clima è simile a quello dell'Europa, la coltura della vite ha successo abbastanza poco e si potrebbe facilmente citare un tale proprietario dell'Hérrault che, lui solo, ha raccolto più vino di quanto possa fornire attualmente la Palestina intera, e le nostre colline di Suresnes superano di gran lunga la produzione di tutta la Terra Santa.
Vediamo nel Pentateuco (Numeri 1:23) che le Dodici spie inviati da Mosè nella Terra di Canaan, riferirono di Hebron un grappolo d'uva così fenomenale di uva da doversi mettere in due per portarlo, sospeso ad un palo. Questa favola dimostra che il redattore di questo brano era poco familiare con il prodotto della vite e che, di conseguenza, questa pianta doveva essere piuttosto rara nei dintorni stessi di Gerusalemme, alla sua epoca; egli sembra confondere il frutto della vite con un'enorme dieta di datteri. Notiamo anche che nell'enumerazione delle ricchezze di cui gli ebrei si impadroniscono durante le loro razzie sui loro vicini e nemici, la Bibbia non fa mai figurare il vino; nell'elenco delle proprietà di Giobbe, non c'è mai questione di vigne. Il vino che a volte è citato nell'epopea israelita non sarebbe a volte la linfa insipida della palma?
La ricca bevanda era dunque del tutto sconosciuta ai contadini galilei del primo secolo così come ai Lapponi del nostro tempo. Senza dubbio, è ragionevole supporre che i legionari romani insediati nella regione la apprezzassero molto e ne consumassero qualche poco, e che dei mercanti stabiliti presso i loro accampamenti o le loro caserme fossero in grado di rifornirli, così come non è affatto impossibile che i funzionari svedesi di Tornio abbiano assaggiato di tempo in tempo una bottiglia di Bordeaux; ma il suo modesto compenso di dieci assi non poteva permettere al soldato semplice di permettersi spesso un bicchiere di un vino che sarebbe stato troppo costoso, se si tiene conto della sua estrema rarità nella regione palestinese e della difficoltà dei trasporti necessari per farlo venire da lontano, in otri o vasi di terra fragili, attraverso delle regioni montuose e prive di comunicazione con tutti i paesi di produzione.
In questo esame rapido della fauna e della flora dei vangeli, si è portati a concludere che gli autori del Libro Sacro abitassero probabilmente in una grande città, ben lontana dalla Giudea, come Alessandria, Roma, Tessalonica o Antiochia, dove esercitavano qualche piccolo mestiere sedentario, e che non uscissero quasi mai dalle loro case, se non per andare a perorare alla sinagoga più vicina del loro quartiere; che, pertanto, fossero assolutamente ignari non solamente della Galilea, ma perfino della campagna circostante la loro residenza, simili in questo a quelli operai parigini che, trascorrendo la loro settimana in officina e la domenica in taverna, prendono il grano per dell'erba (Marco 4:28). Essi credono che il frumento possa rendere cento per uno (Marco 4:8 — Matteo 13:9 — Luca 8:8) il che darebbe un raccolto miracoloso da 200 a 250 ettolitri per ettaro. [9] Sapevano vagamente che esistevano delle bestie feroci (Marco 1:13), avendo a stento nella loro immaginazione non più precisione degli Angeli di cui parla lo stesso verso di Marco; — degli “uccelli del cielo” (Marco 4:32), dei pesci (Marco 6:41), dei serpenti (Matteo 7:10) e degli alberi (Marco 11:8), ma li conoscevano a malapena solo per sentito dire, in maniera generica e indefinita, e non li avevano senza dubbio guardati da vicino. Non li specificano mai, contrariamente alle abitudini della gente di campagna che impiega il nome specifico di ogni specie ed evita il nome generico.
È ancora più difficile farsi un'idea così poco chiara del clima del paese fiabesco in cui si svolge l'azione di Cristo, ma l'esame del testo fa nascere eppure delle riflessioni molto suggestive; si vede che non vi piove mai, o almeno, gli evangelisti non ci dicono affatto che Gesù sia stato disturbato una sola volta nelle sue peregrinazioni dal maltempo. Tuttavia, la predicazione del Salvatore, secondo Matteo, durò almeno un anno, poiché i discepoli mangiarono delle spighe (12:1) nell'anno che precedette la Pasqua in cui il loro Maestro fu crocifisso; secondo Giovanni, la missione del Messia sarebbe durata più di due anni. La parola pioggia, o meglio umidità (brochē), si trova solo in una parabola di Matteo (7:27); ancora Luca  (6:47), nel riprodurre lo stesso passo, cancella questa strana parola e la sostituisce con quella di inondazione. Allo stesso modo, si incontra una volta in Matteo: “Dio fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Matteo 5:45), ma Luca che, decisamente, ha orrore dell'acqua, sopprime questo passo nel suo libro (6:35). È anche sorprendente che con questa ripugnanza, egli ripeta secondo Genesi (19:24), “fece piovere fuoco e lava su Sodoma” (Luca 17:29). Questa assenza completa della parola pioggia [10] suggerisce l'idea che i territori dove vivevano i redattori del Libro Sacro, potrebbero benissimo essere una regione senza nuvole e tuttavia soggetta ad alluvioni: l'Egitto, per esempio, e in particolare Alessandria, dove le precipitazioni sono estremamente rare e che è collegata al Nilo da un canale che sfocia nel lago Mareotide e seguendo le oscillazioni delle inondazioni del fiume, corrispondono molto bene a questi dati. Altre considerazioni ci hanno già riportato parecchie volte in questi paraggi. La Giudea, al contrario, è un paese molto umido in inverno, e dove le piogge sono violente; le nuvole vi riversano in alcuni mesi quant'acqua cade a Parigi durante tutto il corso dell'anno.
La neve nominata da Marco (9:2), fenomeno sconosciuto in Egitto, sembra contraddire la nostra ipotesi, perché a volte fa una breve apparizione, se non nei dintorni di Betlemme, per lo meno a Gerusalemme e si mantiene abbastanza a lungo sui monti che circondano la Galilea; ma, giustamente, Matteo (17:2) e Luca (9:29), allorchè riferiscono questa stessa leggenda della Trasfigurazione, sostituiscono le vesti “candide come la neve” del Salvatore con delle vesti “bianche come la luce”; inoltre, parecchi manoscritti, come per esempio il palinsesto del Sinai, il miglior testo orientale dei vangeli (Alf. Loisy, Evang. Synopt. I, pag. 263) non contiene affatto questo paragone che le copie più recenti attribuiscono al secondo evangelista.
Nella tempesta che calma Gesù (Marco 4:38 — Matteo 8:24 — Luca 8:23), non vi è alcuna menzione né di pioggia né di tuono, meteore quasi ignorate nella valle del Nilo e che non sono affatto eccezionali in Palestina. I grandi venti secchi sono, al contrario, frequenti nella terra dei Faraoni; Matteo cita ancora (14:30) un vento violento, forse il simun. Secondo l'Antico Testamento (1 Re 17:1) per tre anni, l'Eterno arrestò la pioggia e la rugiada in Israele; Luca, ricordando questo mito (4:25) racconta che il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi, in maniera da sopprimere la parola pioggia per evitare la quale egli mette, di nuovo, un sacco di affettazione.
Nessuno, nei vangeli, si lamenta mai del freddo: questa parola non si trova nemmeno nel testo, [11] fatto che indica chiaramente che gli scrittori sacri hanno in mente un paese dove è sconosciuto e questo ci riporta sempre all'Egitto piuttosto che alla Palestina. Eppure la valle del Giordano è altrettanto in queste condizioni, ma Gesù che si arrampica così spesso sui monti, specialmente nelle circostanze memorabili della sua carriera (Matteo 4:8-5:1-17:1) avrebbe dovuto conoscere il ghiaccio e la neve. La tradizione colloca persino la Trasfigurazione sul monte Hermon, il cui picco principale si trova a 2800 metri al di sopra del livello del mare e dove, di conseguenza, la temperatura deve essere molto bassa, anche in estate.

Per chi ha visto un villaggio arabo (e gli arabi sono i congeneri degli ebrei), è molto dubbio che ci fosse nel deserto un'abitazione coperta da tegole (Luca 5:19, 20); Marco situa lo stesso racconto (2:4), in una casa di Cafarnao, quella del pescatore Pietro, probabilmente, e questo non gli dà molta più verosimiglianza, al contrario. Ancora ai nostri giorni, e a maggior ragione doveva essere così duemila anni fa, le dimore indigene che hanno la forma di un cubo sono ricoperte da una terrazza di lastre, o anche di mattoni, tra i poveri, e nei villaggi dell'interno non si trova affatto un tetto propriamente detto, né delle tegole. Gli evangelisti rappresentano ingenuamente le case galilee che essi non hanno mai visto, costruite sul modello di quelle dei romani o dei greci, allo stesso modo in cui gli artisti del Rinascimento ci dipingono Betlemme sotto l'apparenza di un villaggio del medioevo. Questa assenza di verità nei più piccoli dettagli dimostra come gli autori sacri fossero lontani dal conoscere la Palestina.

NOTE

[1] È difficile ammettere che, se gli evangelisti avessero conosciuto il piccolo bacino d'acqua dolce di Genesaret, avrebbero pensato di dargli il nome di mare. Lo sguardo del pescatore può abbracciare nello stesso momento tutti i bordi; la sua superficie è appena un quarto di quella del lago di Ginevra e non raggiunge quella del lago di Como.

[2] Un verso di Marco (7:31) sottolinea pesantemente questa ignoranza: Gesù, per tornare da Tiro al lago di Genesaret, che si trova a sud-est, va prima a Sidone, 35 chilometri a nord di Tiro; poi, fa il giro del lago per la Gaulanitide e la Decapoli, il che triplica il percorso. È come se, per andare da Bourges a Nevers, un viaggiatore cominciasse recandosi ad Orleans e poi ritornasse passando per la Côte d'Or. 

[3] I vangeli hanno dovuto essere redatti da gente che non aveva mai lasciato le pianure, perché ha l'aria di rappresentarsi puerilmente le montagne sotto forma di un rilievo naturale, elevato di qualche passo e predisposto per la predicazione: Gesù sale su un monte (Matte 5:1) per far conoscere al popolo il famoso Discorso sulla Montagna; vi sale a pregare (Luca 6:12); o semplicemente per sedervisi (Marco 8:3 — Matteo 15:29). Giovanni, che non è senza dubbio affatto più esperto, è più prudente e pronuncia raramente la parola monte.

[4] Deuteronomio 8:7 — ... “perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; — 8 paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele”.
Si devono rifiutare molte di queste promesse entusiastiche: sono lontane dal concordare con ciò che riporta san Girolamo, che visse a Betlemme per quasi vent'anni.

[5] Luca (15:29) ha però una volta il capretto, come carne da macello.

[6] Giobbe, il più ricco dei figli dell'Oriente (Giobbe 1:1 e 42:12) che possedeva “quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine”, non aveva un solo maiale.

[7] Giovanni, sempre così delicato, non ha né gli insetti né il cammello, né soprattutto il maiale; il suo Precursore non si concede affatto delle cavallette ed è molto più uomo di mondo dell'asceta di Marco e di Matteo.

[8] Nella Domenica delle Palme, Giovanni (12:13) fa portare delle foglie di palma alla gente che si reca incontro a Gesù, ma Marco (11:8) e Matteo (21: 8) fanno spargere alcuni rami di alberi sul cammino del Salvatore; Luca (19:36) sopprime il fogliame e fa stendere delle vesti, a mo' di tappeto, sotto le orme del Signore.

[9] Senza dubbio, eccezionalmente, un chicco di grano può produrre fino a venti steli di cui ciascuno una spiga di venti grani; ma questa eccezione non cambia di nulla il rendimento medio che Marco e Matteo, e certamente Luca, sembrano avere verosimilmente in vista.

[10] Dimentico, tuttavia, che Luca (12:54) ha una volta  la parola ombros, temporale, e che anche Matteo introduce la parola neve (28:3) in un confronto.

[11] C'è un passo di Matteo (25:42, 43) dove la parola freddo sarebbe dovuta immancabilmente venire da sé sotto la penna di un autore che scriveva dovunque fuorché in un paese caldo: “ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere”. Invece della logica conclusione: io ho avuto freddo e voi non mi avete riscaldato, l'evangelista aggiunge: “ero nudo e non mi avete coperto”. Non si può pretendere che “coperto” significhi “garantito dal freddo”, perché in Egitto, gli arabi portano delle coperte pesanti per proteggersi dal calore: “Dio vi ha concesso vesti che vi proteggono dal calore” (Corano, capitolo 16, sura 81).

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